Il Testing in un approccio comunicativo alle lingue estere

di GIANFRANCO PORCELLI (Università Cattolica di Milano)

1. A che punto siamo?

Per sua natura la glottodidattica, in quanto disciplina situata all'intersezione tra l'area linguistica, quella psicologica e quella pedagogica (), costituisce un crocevia delle tensioni che agitano questi settori di ricerca. Che sia così, non occorre dimostrarlo: basta pensare a come gli orientamenti metodologici e didattici si sono evoluti reagendo alle istanze della linguistica (strutturale, generativo-trasformazionale, dei casi, del testo, ecc.), della sociolinguistica, della pragmalinguistica, cinesica, prossemica, e così via, per quanto si riferisce all'oggetto insegnato; della psicolinguistica, della psicologia dell'età evolutiva, dell'apprendimento e della memoria, per i modelli cognitivi; dell'interdisciplinarità, della multimedialità () e dell'ottica curricolare, per quanto attiene all'impostazione metodologico-didattica nel suo complesso. E non sono che rapidi cenni ad una realtà che, lo sappiamo, è molto più articolata.

Tra i campi d'indagine della glottodidattica, il testing è certamente uno dei più sensibili agli effetti di tutti questi influssi. Se definiamo (provvisoriamente) il Language Testing come "il complesso dei problemi e delle tecniche che presiedono al controllo dell'apprendimento delle lingue straniere", è facile capire perché. Il termine controllo, come i quasi sinonimi verifica e accertamento, fa presupporre un oggetto da esaminare ben definito, o quantomeno un complesso di fattori che si trova in uno stato di equilibrio stabile. Ma non è così: se riprendiamo l'immagine del crocevia, vediamo veicoli che si muovono nelle varie direzioni, a velocità diverse, e talvolta in rotta di collisione tra di loro. Ad esempio, sappiamo che il rigore estremo di molte formalizzazioni della linguistica teorica deve conciliarsi con le esigenze psicopedagogiche di flessibilità e di adattività che sono connaturate ad ogni situazione didattica.

Anche il termine apprendimento rinvia ad un quadro di riferimento incerto ed estremamente complesso. Tra l'input, inteso come ciò che al discente viene dato dall'insegnante e/o dai materiali d'istruzione (in senso lato), e l'output osservabile, si colloca una "scatola nera", largamente inesplorata, costituita dall'intake, ciò che l'allievo ha interiorizzato. Di sicuro sappiamo solo che l'intake non corrisponde né all'inputall'output.

Widdowson () ha rivisitato in chiave glottodidattica La Tempesta di Shakespeare. Prospero ha insegnato a Calibano un tipo di "English for Specific Purposes", la microlingua dei servitori. Il risultato però è che

my profit on't Is,

I know how to curse.

Di certo, il saper imprecare e maledire non erano funzioni comunicative presenti in un programma didattico orientato in ben altro senso: la comprensione degli ordini e il saper rispondere mostrando obbedienza e rispetto. Ed è altrettanto chiaro che l'allievo definisce "profitto" l'acquisizione di un'abilità che il suo insegnante giudica ben diversamente:

Caliban, my slave, who never

Yields us kind answer.

Gli fa eco la figlia Miranda:

' Tis a villain, sir, I do not love to look on.

La personalità dell'allievo, i suoi interessi più radicati, hanno distorto i fini e gli esiti dell'apprendimento; il che, detto per inciso, non è del tutto negativo se il fine primario dell'insegnamento non è l'educazione, ma uno schiavismo più efficiente.

Possiamo ovviamente supporre che l'allievo abbia anche sviluppato un'adeguata competenza comunicativa rispetto all'obiettivo previsto, ma il punto è proprio che noi non possiamo verificare la competence, ma solo la performance. Anche gli "errori" (o presunti tali) non possono essere sempre interpretati come carenze di apprendimento; le cause verosimili dì distorsione sono di diversa natura e si collocano a vari livelli (tattico, strategico, o egodinamico) ().

L'effetto complessivo di queste considerazioni è che ci allontaniamo sempre più da un testing "scientifico" e "oggettivo" come quello che, sulla scia di Robert Lado (), ha contrassegnato il periodo strutturalista della didattica delle lingue. Spolsky individua tre fasi nello sviluppo del testing. La prima, detta pre-scientifica, è anteriore alla nascita di un discorso sul testing consapevole e controllato.

Anche chi insegnava con l'approccio grammaticale-traduttivo effettuava le necessarie verifiche, ma spesso in modo non sistematico e controllato (in senso docimologico). Per quanto riguarda i problemi connessi alla traduzione come test glottodidattico, che non possono essere liquidati con brevi cenni, ci si consenta di rinviare il lettore interessato, alla lettura di alcuni recenti contributi in materia ().

La fase psicometrico-strutturalista è talora identificata, erroneamente, col testing tout court. In essa le acquisizioni della linguistica strutturale e contrastiva si coniugano con le tecniche "oggettive" sviluppate in psicometria. Ogni item (quesito, problema, stimolo) ammette una sola risposta esatta, ovvero ammette un numero circoscritto di risposte predeterminate, a ciascuna delle quali corrisponde un dato punteggio. L'aspetto tecnico, troppo spesso enfatizzato per la sua capacità di offrire risultati affidabili indipendentemente da chi corregge, non deve far dimenticare i problemi di scelta, organizzazione e validità dei contenuti linguistici. La frammentazione della materia in tante particelle — su ciascuna delle quali si costruisce un quesito — è apparsa come uno degli aspetti meno validi dell'approccio strutturalista al testing, anche là dove era condotta in modo sistematico e con attenzione alle dissimmetrie tra la lingua materna e la lingua straniera.

La terza fase, ossia la fase attuale secondo l'analisi di Spolsky (), è detta psico-socio-linguistica perché, come implica la definizione stessa, tende a incorporare i dati offerti dalla psicolinguistica (il superamento del meccanicismo behaviorista a favore di strategie cognitive di apprendimento) e dalla sociolinguistica. All'interno di questa fase, A. Moller distingue due momenti (). Il primo è il superamento del testing discretivo (atomistico, rigidamente articolato su item giusto/sbagliato) a favore di prove integrative, capaci di mettere alla prova la memoria a breve termine degli esaminati e di verificare la loro capacità di "gestire" brani linguistici in modi che riflettono le strategie normalmente impiegate per la comprensione e la produzione di testi () complessi. Le prove più tipiche di questo approccio, ampiamente analizzate negli studi di Oller, sono il dettato e la procedura cloze ().

Il secondo momento della terza fase è quello del testing comunicativo, che mira ad accertare l'effettiva capacità di interagire oralmente o per iscritto in lingua straniera in contesti il più possibile naturali e autentici. Si prestabiliscono i compiti, le microabilità e i contenuti interessati dalla prova, e si raffronta la prestazione del soggetto con una scala di livelli di esecuzione — riferita all'abilità in esame — integrata da una serie di parametri capaci di orientare il valutatore nella definizione più accurata possibile del grado di padronanza della lingua da parte del soggetto stesso, in rapporto al compito da svolgere ().

Il testing oggi si presenta sempre meno come una serie di tecniche e procedure (scelta multipla, completamento, ecc.) e sempre più come attività rivolta a cogliere nella sua globalità la communicative performance. Anziché quantificare con la massima precisione le prestazioni su aspetti isolati e poco significativi, si preferisce cercare di ottenere giudizi sufficientemente affidabili sull'insieme del reticolo di abilità e competenze che costituiscono il saper comunicare.

2. E nelle nostre scuole?

Quando si allarga lo sguardo agli orizzonti più ampi del testing può sembrare che si perdano di vista le realtà quotidiane con cui ci si confronta nelle classi. Il legame è invece molto più stretto di quanto non appaia a prima vista. Il conseguimento della competenza comunicativa non è solo l'obiettivo finale di un corso di lingua straniera: è anche l'obiettivo di ciascuna unità didattica, sia pure nei limiti consentiti dallo sviluppo del programma svolto fino a quel punto. Come diretta conseguenza di ciò si avverte la necessità di verifiche che siano impostate in coerenza con l'orientamento metodologico e didattico adottato.

Qui tuttavia ci si scontra con alcune difficoltà obiettive, che suscitano pressanti interrogativi. E' possibile impiegare test integrativi e comunicativi con allievi principianti, o con alunni delle scuole elementari? Ove non fosse possibile, è legittimo ricorrere a test discretivi, e a quali condizioni? Di fronte a problemi di così ampio respiro, qui dobbiamo limitarci ad offrire alcune coordinate essenziali; altri dati interpretativi emergeranno dall'analisi specifica delle esperienze sperimentali di testing.

Anzitutto, non è completamente chiaro che cosa si debba intendere per "test comunicativo". Se ci si richiama in modo rigoroso al criterio della autenticità dell'interazione linguistica sottoposta a verifica, si può giungere a negare la possibilità stessa di un testing comunicativo vero e proprio: il fatto di aggiungere l'aspetto valutativo all'evento di comunicazione fa sì che questo ne risulti in qualche misura alterato. Del resto, ogni intervento didattico che cerchi di ricreare in aula un aspetto qualsiasi della vita quotidiana costituisce di per sé una simulazione più o meno artificiosa e inautentica ().

Non ci sembra tuttavia il caso di estremizzare il problema, fino al punto di rinunciare alle prove di controllo solo per il desiderio di un chimerico rigore. Per giungere a tale rinuncia occorrerebbe prima dimostrare che le attività di testing di volta in volta proposte e realizzate (e ormai le esperienze di questo tipo non si contano più) non hanno offerto alcun dato significativo, valido e affidabile. Se mai, sembra vero il contrario, a patto che si sappia dare il giusto valore ai risultati conseguiti e li si sappia interpretare. Non si può dimenticare che anche il test più ampio e articolato rappresenta necessariamente, per i limiti di contenuto e le scelte sulle modalità operative, soltanto un'indagine-campione, i cui esiti sono degli indici da interpretare, e non dei dati assoluti.

Pur con le dovute cautele nell'assumere i punteggi come indici di competenza, chi usa i test riscontra spesso una rispondenza tra i risultati ottenuti e gli altri elementi di giudizio di cui dispone. Un allievo che esegue correttamente gli ordini che gli vengono impartiti in lingua straniera, o che sa tracciare sulla mappa l'itinerario che gli viene indicato, rivela un certo grado di abilità di comprensione, abilità di cui potrà servirsi anche in situazioni diverse, purché queste siano assimilabili a quella sottoposta a controllo. I test "performativi" di comprensione e/o produzione riproducono situazioni plausibili di comunicazione e permettono di saggiare le capacità di esecuzione di compiti predefiniti. Gli esempi che abbiamo ricordato mostrano come test di questo tipo siano proponibili anche a livelli iniziali di apprendimento, e a qualsiasi età.

La difficoltà quindi si sposta dal piano teorico a quello pratico. I problemi principali sono:

— la scelta delle prove più adatte a fungere da "cartina al tornasole" per le diverse (micro) abilità;

— la preparazione specifica di chi deve somministrare il test, dato che le prove più complesse richiedono particolari competenze sia nella somministrazione che nella formulazione del giudizio;

— il ricorso a modalità più articolate e sofisticate nell'interpretazione dei risultati ().

Questi tre aspetti, inoltre, nonché le loro molteplici implicazioni, non debbono essere affrontati indipendentemente, ma come un insieme organico. L'importanza di acquisire al testing anche una dimensione comunicativa è comunque tale da giustificare gli sforzi necessari in questa direzione.

Per quanto riguarda le prove di tipo discretivo (discrete-point items), accanto alla posizione di coloro che le rifiutano in blocco perché non valide in un'ottica comunicativa, e a quella di coloro che le ammettono solo in via transitoria (come strumenti di verifica dei microsistemi linguistici), si va sviluppando la posizione di coloro che si chiedono se davvero certi procedimenti "atomistici" riescano ad isolare elementi singoli — fonologici, morfosintattici, o lessicali — da ogni contesto. La domanda, in ultima analisi, è rivolta ad indagare che cosa succeda veramente nella mente dell'esaminato dinanzi a compiti quali la discriminazione di suoni, la scelta multipla, la scelta vero/falso, ecc. (). Le risposte non sono ancora molto chiare, ma ciò che sembra emergere dalle ricerche in corso indica che i test di matrice strutturo-psicometrica sono stati contrapposti troppo schematicamente ed artificiosamente a quelli integrativi e comunicativi. Si intravvede quindi non già un ritorno all'antico (sia ben chiaro) bensì una possibilità di integrazione tra i diversi approcci al testing.

Il processo di integrazione non sarà né semplice né lineare, date le sostanziali divergenze tra i due approcci. Esso tuttavia promette di allargare — anziché restringere — il ventaglio degli strumenti a disposizione di chi deve operare le verifiche.

3. E se usassimo il computer?

E' una domanda che si affaccia prepotentemente nel momento in cui la disseminazione dei piccoli sistemi (home e personal computer) ha fatto sì che strati sempre più ampi della popolazione prendessero coscienza del ruolo dell'informatica in numerosi settori della società — e tra questi il mondo della scuola. Esamineremo distintamente due possibili utilizzazioni dell'elaboratore: per l'analisi dei punteggi e per la redazione delle prove.

Sotto il primo profilo non vi è alcun dubbio che il computer è lo strumento ideale, addirittura indispensabile quando la massa di dati da analizzare e correlare diventa tale da rendere vani gli sforzi di interpretazione con gli strumenti tradizionali (spogli manuali, tabelle, ecc.). Vi sono programmi ad hoc () che per la loro completezza e il rigore scientifico a cui sono improntati costituiscono ormai uno standard in molte ricerche e sperimentazioni.

Ben diversa è la situazione per quanto riguarda l'uso dei cosiddetti "linguaggi-autore" che partendo da una "banca" di testi (brani, dialoghi, o altro) consentono di realizzare in modo molto rapido e semiautomatico prove di vario tipo: scelta multipla, procedura cloze, questionari, ecc. Si intuisce facilmente la comodità di ottenere versioni alternative o complementari di un dato testo, da impiegare in classe in diversi modi e per scopi differenziati. Tale facilità, tuttavia, non è necessariamente un vantaggio quando si tratta di redigere dei test.

Anzitutto la scelta stessa del tipo di prova può essere influenzata dalle opzioni disponibili nel programma, nel senso che anziché produrre il test più adatto sotto il profilo metodologico-didattico, si ricorre alla procedura realizzabile più rapidamente e con il minore sforzo. In secondo luogo — e la tentazione è ancora più insidiosa — la rapidità con cui si producono forme modificate, ridotte, estese, ecc. conduce spesso a redigere numerose prove, nessuna delle quali però viene sottoposta alle necessarie procedure di validazione. La macchina come tale è chiaramente incolpevole, perché tutto dipende da chi se ne serve; alcune indagini recenti, tuttavia, hanno messo in rilievo come la quantità di materiali prodotti col computer sia andata a detrimento della qualità dei test (). E' un pericolo reale, che non va taciuto.

E' prevedibile che in un futuro ormai prossimo migliorerà sensibilmente — soprattutto dal punto di vista qualitativo — l'offerta di software didattico per gli insegnamenti linguistici, e che quindi queste osservazioni — così come i programmi a cui si riferiscono — diventeranno obsolete. Nel frattempo occorre sottolineare l'esigenza che i programmi di testing — computerizzati o no — si saldino a progetti didattici sviluppati con la massima attenzione e sensibilità.