Sez. VII — Imparare
le lingue
Motivazione
I
dizionari Laurearsi
in Lingue Internet
e le lingue Parole
e immagini mentali
Congedo
Postfazione:
un discorso sempre aperto
Conclusione
Prefazione
Questo ipertesto contiene il testo
delle conversazioni radiofoniche sulla lingua inglese mandate in onda
dal Circuito Marconi — Novaradio A, Milano — ogni sera
dal lunedì al venerdì attorno alle 22.45, nel periodo
che va dal 15 settembre 1997 al 24 luglio 1998. Sono brevi
interventi, della durata di circa tre minuti, all’interno di un
programma ("Dolce è la sera, dolce è la notte")
in cui tanta musica di facile ascolto viene interrotta da notiziari o
da rubriche di vario genere: riflessioni religiose, presentazioni di
film e spettacoli, recensioni di libri, e altro.
Gli argomenti sono in parte quelli
affrontati nei manuali per l'apprendimento della lingua inglese
(questioni di pronuncia, regole di grammatica, ecc.); altri sono
stati tratti da temi di attualità — dal dibattito sul
Welfare State alla tragedia del Cermis, passando per la vicenda di
Lady Diana e i funerali di Madre Teresa di Calcutta, oppure sono
legati alle ricorrenze — Halloween, il Natale, la Quaresima, la
Pasqua, la Pentecoste...
Si è scelto di lasciarli
nell’ordine in cui sono andati in onda, anche se questo non
risponde a schemi rigorosi ma segue "logiche" diverse che
si intrecciano, anche se poi nella versione ipertestuale abbiamo
cercato di raggrupparli in sette “capitoli” per
facilitare la ricerca. Si è anche preferito non alterare il
tono colloquiale della comunicazione radiofonica. Sono stati tolti,
perché ripetitivi, i saluti iniziali (Good evening, ladies
and gentlemen!) e le frasi di congedo, con la restituzione della
linea al conduttore del programma. Per il resto, solo lievi ritocchi
sia per togliere ciò che deve essere detto all’ascoltatore
ma il lettore vede benissimo (come l’ortografia delle parole),
sia per aggiungere ciò che l’ascoltatore sente ma il
lettore non percepisce — pronuncia, intonazione, accento e
simili. Per una resa esatta della pronuncia inglese è
necessario usare l’alfabeto fonetico, ma siccome può
risultare ostico a molti e presenta difficoltà nel trasporre a
video i simboli, ci si è accontentati di una trascrizione
molto approssimativa. Alcuni riferimenti sono alla tabella “I
suoni dell’inglese”, sempre accessibile dalla colonna
sulla destra.
I riferimenti alle date vanno riportati all'epoca: per "questo secolo" si intende il XX (il "secolo scorso" è quindi il XIX e noi ci troviamo a leggere queste cose nel "secolo venturo" e addirittura nel millennio successivo). Alcuni fatti di cronaca, anche clamorosi, sono stati quasi del tutto dimenticati. Con tutto ciò ho ritenuto che i contenuti siano tuttora validi: aggiungerò numerosi aggiornamenti in altre pagine, ma in queste ci sono riflessioni e notizie sull'inglese che non hanno perso di attualità.
I titoli delle conversazioni sono
stati attribuiti in seguito, al momento della redazione di questo
testo, e non sempre danno conto dei vari temi che si snodano
all’interno di ciascuna trasmissione. Possono servire comunque
(si spera) come chiave di lettura e di identificazione dei brani.
Pur con questi limiti, i testi qui
raccolti possono soddisfare qualche curiosità e chiarire
qualche dubbio; soprattutto, possono aiutare a riflettere sulla
nostra lingua — l’italiano sempre più
massicciamente invaso dagli anglicismi — e sul linguaggio in
generale. Che se poi suscitassero qualche ulteriore curiosità
e stimolassero qualcuno ad accostarsi con serenità allo studio
delle lingue, queste pagine raggiungerebbero uno scopo che va ben al
di là delle loro modeste ambizioni.
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Introduzione
Buonasera e benvenuti a questa nuova
rubrica, che ha per argomento la lingua inglese. Quell’inglese
che ormai troviamo un po’ dappertutto, sui giornali e nelle
insegne dei negozi, alla radio, alla TV e nei discorsi di ogni
giorno. Sarà l’occasione forse per scoprire qualcosa di
nuovo, ma molto di più per accorgerci di quanto ci sta
succedendo attorno, sempre più spesso, mentre parliamo o in
giro per le strade.
Se vorrete seguirci, faremo dei
percorsi all’interno della lingua inglese — a volte, come
stasera, sarà un parola a darci lo spunto, altre volte un
argomento di pronuncia, di grammatica o qualche aspetto della cultura
di lingua inglese (ma non preoccupatevi, non ci sarà
assolutamente niente di complicato). E se avete delle domande o delle
curiosità, cercheremo di darvi una risposta.
WELFARE
Cominciamo da una parola di
attualità, welfare. Etimologicamente viene da well,
bene, e fare, che ha vari significati: un tempo era
soprattutto un verbo, col significato di viaggiare, andare;
oggi è soprattutto un nome che indica la tariffa, il costo del
viaggio. Originariamente, quindi, welfare è il ben
viaggiare; poi nel corso dei secoli ha significato il buon andamento
della società che è fonte di benessere. Quando nel 1945
il governo laburista lanciò il programma di assistenza statale
"dalla culla alla tomba" a questo sistema venne dato il
nome di welfare state. Ed è soprattutto in questa fase
storica che la parola comincia a essere conosciuta e usata anche da
noi.
Questa però non è la
fine della storia: soprattutto negli Stati Uniti, to be on welfare
significa essere a carico dell’assistenza pubblica perché
si ha un reddito troppo basso; chi è al di sotto di una certa
soglia ha diritto a una negative tax, a una tassa in negativo
in cui si riceve denaro invece di pagare i tributi. In questo caso,
welfare non è quindi sinonimo di BENessere ma semmai di
MALessere, soprattutto in un paese come gli Stati Uniti in cui troppo
spesso il valore delle persone si misura in dollari e in cui non
contribuire al bene comune, attraverso le tasse, significa essere
cittadini di seconda categoria: è una condizione di vita in
cui il disagio psicologico si aggiunge a quello materiale.
Conclusioni: non traduciamo welfare con "benessere"
ma semmai con "previdenza" e "assistenza,"
soprattutto assistenza verso coloro che di benessere ne hanno meno
degli altri.
E magari diciamo pane al pane,
pensione alla pensione e sanità alla sanità.
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ROLLING STONES & BEATLES
Questa sera parliamo dei Rolling
Stones, o meglio del loro nome che vuol dire...? "Lo sanno
tutti! Pietre rotolanti!" Sì, ma vi siete mai chiesti
perché proprio quella strana espressione? Non c’è
per caso dietro qualcos’altro? Dietro c’è un
proverbio, conosciuto da tutti gli inglesi, che dice che A rolling
stone gathers no moss — letteralmente, "una pietra che
rotola non raccoglie muschio." L’immagine è quella
delle pietraie che finché sono mobili restano prive di
vegetazione, come ne vediamo tante anche sulle nostre montagne.
Il proverbio è
tradizionalmente rivolto a quei giovani che "rotolando,"
per così dire, da un mestiere all’altro, senza la
costanza di radicarsi in qualche seria occupazione, si trovano poi a
non avere raccolto nulla nella loro vita. E’ l’invito a
fare una scelta di vita stabile e costruttiva.
Visto invece dalla parte di un
giovane, essere un rolling stone significa rifiutare il
sistema che vuole inquadrarti, che vuole fissarti in un luogo e in un
ruolo, che vuole limitare la libera espressione della tua creatività
perché questa fa di te una persona imprevedibile e
improduttiva — almeno secondo una certa visuale. Chi conosce i
brani del repertorio dei Rolling Stones può quindi
scoprire il legame tra alcuni dei temi ricorrenti e il nome del
gruppo.
Notiamo per inciso che se i proverbi
sono la saggezza dei popoli, non tutti i popoli hanno lo stesso
patrimonio di saggezza. Qui abbiamo trovato un proverbio che non ha
un equivalente diretto nella nostra lingua; ne troveremo altri che
presentano delle variazioni interessanti rispetto a quelli italiani.
Abbiamo parlato di Rolling
Stones: e i Beatles? Anche questa parola è
interessante. Gli scarafaggi c’entrano sì, ma solo in
piccola parte: c’è molto di più. La parola
beetles che significa "scarafaggi" si scrive infatti
con due e; la sua pronuncia è identica al nome del
complesso — è lo stesso caso di sea "mare"
e see "vedere." Allora si tratta di scarafaggi beat,
e questa è una parola ricca di significati: c’è
dentro il battere ritmato tipico di quel genere musicale e la beat
generation dei poeti americani del movimento hippy, con
i loro seguaci in tutto il mondo. Nella parola beatles c’è
quindi il richiamo all’aspetto fisico (oggi si ama dire il
look) dei cantanti, il riferimento alla loro musica e a una
certa filosofia di vita.
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Il punto sui numerali
Una delle frequenze su cui qualcuno
ci sta ascoltando è 99.5 (per qualcun altro è 95.0, e
così via) — ma perché "punto" quando in
italiano si è sempre adoperata la virgola per dividere il
numero intero dai decimali? Perché sempre più di
frequente, senza che ce ne accorgiamo, adottiamo il sistema inglese,
in cui avviene il contrario: si usa il decimal point per i
decimali, mentre la virgola separa i gruppi delle migliaia, dei
milioni, ecc.
Già che ci siamo, vediamo
qualche altra curiosità che riguarda i numeri inglesi. Il
nostro “Grazie mille” è thanks a million
(letteralmente, grazie un milione) — e poi dicono che siamo noi
italiani quelli che esagerano, che parlano per iperboli...
A proposito di million,
qualcuno ricorderà il film con Marylin Monroe How to marry
a millionaire. Il titolo è stato tradotto letteralmente
"Come sposare un milionario," ma se uno è un
milionario in dollari (o, ancor di più, in sterline) in realtà
è un miliardario in lire; e oggi come oggi, che perfino il
sottoscritto è milionario quando prende lo stipendio a fine
mese, bisogna dire "miliardario" quando si vuole parlare di
un riccone. Una buona traduzione fa riferimento non alle parole in sé
ma a quello che significano. (Questa frase risale al 1997 – con
l’avvento dell’euro le cose sono cambiate e “milionario”
torna ad essere sinonimo di “riccone”).
Passando ad altro, ma sempre in tema
di numeri: in italiano per dire la data cominciamo con il primo del
mese, ma poi non andiamo avanti coerentemente con il secondo, il
terzo, e così via ma diciamo il due, il tre, ecc. Invece in
inglese tutti i giorni dal primo al trentunesimo sono detti con il
numerale ordinale: Natale, Christmas Day, è il 25th
(of) December (la preposizione of non si scrive ma si
dice). E intanto che parliamo di date, facciamo attenzione a quelle
espresse solo in numeri: soprattutto negli Stati Uniti si usa mettere
il mese prima del giorno, per cui l’ 11/08/97 non è
l’undici agosto, ma l’otto novembre. Date come il tre
marzo, il quattro aprile ecc. ovviamente non creano problemi, così
come non sono ambigue quelle in cui il giorno ha un numero dal
tredici in su: 12/25 o 25/12 sempre Natale è; se le date sono
lontane nell’anno, come il 6/12 e il 12/6, è facile
accorgersi del problema, ma se le date sono vicine come il 3/2 e il
2/3 ci si confonde facilmente, specialmente se ci "aiuta"
(si fa per dire) la lentezza del servizio postale.
Continuate ad ascoltarci su
ninety-nine point five o qualunque sia la nostra frequenza
dove vi trovate. Anche se, di questo passo, forse le nuove
generazioni finiranno col dire che il valore del pi greco è
uguale a tre punto quattordici.
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MASS MEDIA e genere dei nomi
Quando con il direttore del Circuito
Marconi si è discusso della possibilità di una rubrica
sull’inglese, si è parlato del target e poi di
altri aspetti come lo share e la audience. Tutti
termini tecnici inglesi di cui il mondo delle comunicazioni sociali
non riesce più a fare a meno. Le stesse comunicazioni sociali
sono dette comunemente mass media, con un’espressione in
cui l’inglese si mischia al latino.
Sì, ma perché tre
vocaboli che nella lingua originale sono di genere neutro sono
diventati due maschili e uno femminile? Il target è,
letteralmente, il “bersaglio” ossia il pubblico dei
destinatari, l’uditorio a cui ci si rivolge preferenzialmente:
bersaglio, pubblico e uditorio sono maschili e questo può
spiegare il target; ma perché la audience, visto
che non è l’udienza ma ancora l’uditorio, il
pubblico? Se si seguisse la stessa logica, dovrebbe essere anche
questa una parola maschile in italiano; e infine lo share, che
è la quota, la porzione, la percentuale
del pubblico che sceglie un certo programma, dovrebbe essere
femminile.
Il problema è vecchio; un
prestito come tunnel l’abbiamo assimilato pronunciandolo
all’italiana e usandolo al maschile; di nuovo, perché il
tunnel è maschio mentre la galleria è femmina? C’è
comunque anche un’altra parola italiana, usata come sinonimo di
"galleria," cioè il "traforo," che è
maschile e questo ci dice che da noi, dato che manca il neutro, la
scelta del genere è alquanto arbitraria.
Prendiamo poi l’esempio dei
VIP, le Very Important Persons. Se ci avete fatto caso,
ho detto i VIP al maschile e le Very
Important Persons al femminile; quest’ultimo uso si spiega
facilmente perché in italiano la parola persona è
di genere femminile; ma i VIP?
Forse perché nel mondo, anche
nelle società più evolute, molti VIP, ad esempio
della politica, sono maschi; e forse perché nella nostra
lingua tradizionalmente il maschile si usa per indicare uomini e
donne assieme. Questo ci porterebbe sul discorso del sessismo nella
lingua, che per quanto riguarda l’inglese affronteremo un’altra
sera.
Se qualcuno degli ascoltatori ha una
risposta valida sui motivi per cui certe parole inglesi hanno assunto
il genere che hanno in italiano, sarà interessante conoscerla.
Per conto mio, ho sempre protestato perché in italiano il
vizio è maschile e la virtù è femminile.
Grammaticalmente sarà anche giusto, ma per il resto la cosa mi
lascia molto perplesso.
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1300 ospiti stranieri
Una raccolta di parole e espressioni
inglesi usate in italiano, e limitata a quelle che sono comparse
sulla stampa non specialistica o si ascoltano alla radio e alla
televisione, ne ha registrate oltre 1300 e sicuramente non è
completa perché ogni giorno ne entra qualcun’altra.
Sarebbero poi state molte di più se si fossero inclusi termini
specialistici noti solo a chi opera in determinati settori. Molte di
quelle parole inglesi si usano soltanto nei testi scritti, ma tante
altre entrano nella lingua parlata. Che cosa succede alla loro
pronuncia?
Alcune parole, quelle entrate nella
nostra lingua da più tempo, vengono dette come se fossero
parole italiane: è il caso di "film, tram, quiz, sport,
tunnel," ecc. Altre vengono adattate, nel senso che si usano i
suoni italiani più simili a quelli originali; se prendiamo il
caso di night-club, né il dittongo [ai] né la
vocale [a] corrispondono esattamente ai suoni inglesi, ma ne
rappresentano una discreta approssimazione. In Touring la [u]
italiana non è il dittongo inglese e da noi si pronuncia la
[g] finale che in inglese non c’è.
Sono interessanti e qualche volta divertenti le
parole che hanno una pronuncia italiana che non segue nessuno dei due
criteri: recital [rèsital] non è né
"recital" all’italiana, né l’imitazione
della pronuncia inglese [risàitl]. Altri ibridi li troviamo
con le parole pronunciate più o meno all’inglese e le
lettere pronunciate all’italiana: X-Files, pay-TV.
K-way è un caso a parte perché [ki] non è
né la pronuncia inglese né la pronuncia italiana della
lettera K. Oppure con le parole composte, pronunciate per metà
all’italiana e per metà all’inglese (più o
meno): [guardreil] per il guardrail non è né
[gardreil] all’inglese né [guardrail] all’italiana.
Molti errori derivano dal fatto che
l’accento viene messo sulla sillaba sbagliata e questo scombina
tutte le vocali; è il caso, ad esempio, di management,
di continental e di processor
(la sillaba con l’accento sbagliato è sottolineata).
Quando parliamo tra italiani, sarà
bene che usiamo la pronuncia corrente tra di noi, a meno che vogliamo
fare gli snob (e snob è, vedi caso, una parola
inglese); teniamo però presente che quando vogliamo parlare
l’inglese vero e farci capire senza problemi dalle persone di
madrelingua, dobbiamo sapere qual è la corretta pronuncia di
quelle parole.
Per esempio, i tifosi italiani del Milan
continueranno a dire Mìlan; ma sappiano che gli inglesi di
fede rossonera (e ce ne sono, specie tra i giovani) dicono A. C.
Milan [ei si milèn], e che un milanese che dichiara la propria
origine deve dire I’m from Milan, con
l’accento giusto.
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Calcio o Football?
In una precedente trasmissione ho
accennato alla squadra di calcio del Milan, che ha questo nome perché
è stata fondata da inglesi verso la fine dell’Ottocento
come Milan Cricket And Football Club. Poi del cricket
non ne abbiamo voluto sapere, perché è un gioco che non
soddisfa il nostro temperamento latino, mentre il calcio è
diventato lo sport nazionale, il fenomeno di massa, più o meno
discutibile, che sappiamo. Un caso analogo a quello di Milano si è
verificato a Genova: anche lì la squadra di calcio più
antica porta il nome inglese della città, Genoa.
Non abbiamo il tempo di passare in
rassegna tutti i nomi geografici italiani che hanno la traduzione in
inglese — lo faremo una prossima volta. Questa sera restiamo
nel mondo dello sport e soprattutto del calcio che a causa di queste
origini britanniche è pieno di parole inglesi. Mister è
un modo frequente di chiamare il trainer, ossia l’allenatore
— ma è bene sapere che la parola mister
normalmente va usata in inglese solo se è seguita dal cognome
della persona a cui ci rivolgiamo: Mister Brown, altrimenti
può essere molto scortese. Proprio perché si usa col
cognome (o col nome e cognome) di solito la si abbrevia in Mr.
Corner in inglese è
l’angolo, non il calcio d’angolo che si chiama
corner-kick. Lo facciamo spesso, questo di abbreviare un nome
composto inglese usando solo la prima parte — per esempio,
diciamo touring e night sottintendendo club:
però è bene tener presente che in inglese basket
è solo il cesto, mentre lo sport si chiama basketball.
Lo stesso vale per la pallavolo, o volleyball. Se si
accentuerà la mania delle abbreviazioni, prima o poi troveremo
chi dice foot e base per football e baseball.
Una delle parole che abbiamo
assimilato e naturalizzato, cambiando grafia e pronuncia, è
goal che è diventata "gol." L’inglese
goal significa "meta, destinazione da raggiungere,"
anche al di fuori del linguaggio sportivo. Curiosamente, nel rugby
il nome dello sport è rimasto inglese — è il nome
di una città britannica e del college dove lo sport è
nato — mentre il nome del punto è stato tradotto: nel
calcio si segna un gol, nel rugby si segna una meta.
Ancora una volta, un esito
irregolare e imprevisto; ancora una volta, chi crede che imparare una
lingua straniera sia essenzialmente una questione di regole commette
un grosso errore di prospettiva. A meno che non si intenda dire che
tutto è perfettamente regolare: ogni parola, una regola...
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Al plurale ci vuole la S; o no?
Una questione che si pone spesso
riguarda il plurale delle parole inglesi. Cominciamo con l’osservare
che nessuno dice che sulla Milano-Genova ci sono molti tunnels,
che ha preso due trams per arrivare in centro o che un certo
chirurgo è molto bravo a fare i by-passes alle
coronarie. Le parole italiane che terminano per consonante, tra cui
quelle di origine straniera, sono di regola invariabili: il gas
i gas, un film tanti film.
Se no dovremmo conoscere una
quantità di regole di lingue diverse: per esempio, il plurale
di kibbutz, parola ebraica, è kibbutzim e il
plurale di Land (parola tedesca che indica ognuno degli stati
della repubblica federale) è Laender. Dovremmo anche
sapere che murales è un plurale (spagnolo, non
inglese), e quindi al singolare dovremmo dire un mural.
Invece, si registra una tendenza
anzitutto a trattare tutte le parole straniere come se fossero
inglesi: ad esempio, un periodo di formazione in azienda o all’estero
è uno stage (parola francese, che nella pronuncia fa
rima con garage) e non uno stage [steig’] (questa
è una parola inglese che esiste ma ha solo altri significati);
e poi si vedono, soprattutto nello scritto, molte esse del plurale,
alcune delle quali non rispettano nemmeno le regole di ortografia
dell’inglese. Un locale in una località di mare
reclamizzava uno spettacolo di *quizes, con una z sola
invece di due.
Qualche tempo fa gli errori di
ortografia erano ancora più frequenti: ad esempio, un rally
automobilistico si scrive con y finale al singolare, che
diventa -ies al plurale; questo vale per tutte le parole che
terminano per y preceduta da una consonante. Sui giornali e
altrove si trovava invece rallye o rallie per il
singolare e rallys per il plurale. Ci sono poi parole come
cameraman che al plurale si scrivono con la e invece
della a come penultima lettera, perché il plurale di
man "uomo" è men. Ma lasciamo stare la
grammatica inglese e torniamo all’uso in italiano.
Se su una vetrina compare la scritta
Videogame, nessuno pensa che quel negozio ne venda uno solo;
l’aggiunta della -s sarebbe corretta ma del tutto
superflua, dato il contesto — così come nessuno
penserebbe mai che uno spettacolo di quiz preveda un solo quesito.
Per questo sono fermamente convinto che sia meglio togliere tutte le
-s e, se proprio occorre, chiarire in altro modo che si tratta
del plurale. Altrimenti si scatena la fantasia, e mi capiterà
ancora di sentir dire che dovremmo scrivere FERMATA AUTOBUSES —
ma solo se passa più di una linea.
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Prestiti stranieri e falsi amici
Sabato 7 dicembre 1991, ricordando
il cinquantenario dell'attacco giapponese a Pearl Harbor, un
importante giornale milanese pubblicava una carta dell'isola di Oahu,
nelle Hawaii. La carta indicava la posizione di Honolulu, della
stessa Pearl Harbor e di una serie di obiettivi militari, tra cui le
"Baracche Schofield." Nessuno in redazione si è
chiesto come mai delle baracche avessero un nome e costituissero un
obiettivo militare. Per avere la risposta sarebbe bastato consultare
qualsiasi dizionario, da cui si ricava che barracks significa
"caserma," ma forse la pseudoconoscenza dell'inglese da cui
molti sono affetti fa perdere l'umiltà che porta ad effettuare
alcuni semplici controlli.
Ora, il fenomeno dei cosiddetti
"falsi amici," ossia delle parole che assomigliano ma
vogliono dire altro, è diffuso in tutte le lingue e dovrebbe
essere noto. Ci sono casi in cui la parola straniera non ha mai il
significato di quella italiana che le somiglia — così è
per barracks e anche, ad esempio, per morbid che vuol
dire "morboso" (e mai, assolutamente, "morbido");
in altri casi la parola straniera ha vari significati che solo in
parte coincidono con il termine italiano più simile.
Soprattutto nel doppiaggio dei
filmati chi sa l’inglese trova errori di questo genere: "Mamma,
c’è uno straniero alla porta." Il bambino che ha
aperto la porta e si è sentito rivolgere la parola nella sua
lingua come può sapere se lo sconosciuto è uno
straniero? E infatti stranger non è lo straniero (che è
invece un foreigner) ma l’estraneo, lo sconosciuto, il
forestiero che magari abita a poche miglia di distanza, nella stessa
contea — è il caso del dialogo di un film western: "Da
dove vieni, straniero?" "Dalla città dietro la
collina."
Un altro esempio: la mamma
rimprovera un ragazzo perché ha dato uno schiaffo al
fratellino e lui, per giustificarsi, risponde "Lui mi ha
abusato." Chi non sa che abuse vuol dire "insultare"
e non ha seguito bene la scena può avere l’impressione
che sia successo qualcosa di molto più grave che non uno
scambio di parole non proprio gentili.
Molte agenzie di doppiaggio sono più
attente al movimento delle labbra che non al significato delle
parole; se anche in Italia avessimo i sottotitoli, come in molti
altri paesi, probabilmente migliorerebbe la nostra capacità di
comprendere le lingue straniere e, in seguito, di parlarle. Vocaboli
che ora sono falsi amici potrebbero trasformarsi in amici veri, nel
senso che sapremmo come trattarli per andare d’accordo.
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AUTHORITY e autorevolezza
Succede sempre più di
frequente che per rispondere a esigenze di gestione o di controllo di
attività pubbliche si chieda l’istituzione di una
*[autòriti] (è così che viene spesso pronunciata
la parola inglese authority — e in quanto
all’ortografia, ho visto tutte le varianti immaginabili anche
in quotidiani che si ritengono prestigiosi: quella corretta ha una h
dopo la prima t e una y finale, che diventa -ies
al plurale). A parte che in italiano abbiamo termini come Magistrato
(usato, per esempio, per il Magistrato del Po che sovrintende al
bacino del fiume) oppure Alta Autorità, che andrebbero
benissimo, quello che sfugge è che molte authorities
inglesi sono semplicemente degli Enti: la Port of London
Authority, le cui iniziali P.L.A. spiccano sugli imbarcaderi del
Tamigi e si vedono in tante cartoline, non è altro che l'Ente
del Porto di Londra: l'idea astratta di autorità e
autorevolezza è completamente assente, assorbita da quella di
"organismo di gestione."
Il guaio è che dopo aver
tanto tuonato contro gli enti inutili (anche se poi non ne sono stati
eliminati molti) e aver scoperto in altri enti le grosse corruzioni e
inefficienze che sappiamo, nessuno osa più proporre di
costituire un nuovo ente, nemmeno dove questa è la cosa più
logica e utile, a volte indispensabile. Si ricorre all’inglese
per quel tanto di prestigio che questa lingua porta con sé
(almeno per adesso), ma certi mascheramenti non servono a nessuno. Di
autorità e di autorevolezza c’è tanto bisogno e
più chiaro lo si dice, meglio potrà andare la cosa
pubblica. Ma le *autority, di per sé, non garantiscono nulla e
nascono nel segno di un’ambiguità linguistica.
Nel privato, comunque, le cose non
vanno molto meglio e vediamo un po’ le stesse forme di snobismo
linguistico. Ci sono ditte che al massimo "esportano" dalla
Brianza al Varesotto o dalla Lomellina alla Bassa bergamasca, e però
non hanno più il Capo ufficio vendite: il rag. Brambilla, che
da una vita fa quel mestiere, adesso è stato promosso, almeno
a parole, Sales Manager e naturalmente il suo collega
Carugati, agli acquisti, è il Buyer della ditta; se
protestate, vi dicono che ormai questo è il trend (non
diranno mai "tendenza" o "orientamento," per
paura di screditarsi e di perdere il posto): non più
"dirigenti" ma executives o top managers, non
più "distribuzione" ma marketing, non più
bilancio ma budget, e via elencando. Perché insomma,
volete mettere? In inglese, è tutta un’altra cosa. O no?
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Di città in città
Qualche sera fa si diceva del nome
inglese di Milano, Milan. In tutte le lingue si usa tradurre i
nomi delle capitali (noi abbiamo Londra, Dublino e Edimburgo per
London, Dublin e Edinburgh) e un paese come
l’Italia che prima dell’unità aveva tanti stati e
tante capitali ha il primato delle forme in inglese dei nomi delle
città: Rome, Naples, Turin, Venice,
Florence, Genoa, Mantua; altre città
devono il nome inglese o al grande prestigio dell’università,
come Padua, o all’importanza dei traffici commerciali:
la forma Leghorn è così antica e trasformata che
a prima vista si fa molta fatica a riconoscere Livorno. Una capitale
come Parma ha un nome facile per gli inglesi, che non l’hanno
modificato e si sono limitati ad aggiungere l’aggettivo
Parmesan, che oggi si riferisce quasi esclusivamente al
formaggio.
Anche tra le regioni troviamo nomi
anglicizzati, o perché ex-stati, come Piedmont,
Lombardy, Tuscany, Venetia, o per altri motivi
storici, come Latium, o geografici come per le isole maggiori,
Sicily e Sardinia. Naturalmente, come per il Kingdom
of Sardinia, ragioni storiche e geografiche possono sommarsi.
Altri nomi geografici sono The Alps e The Tiber —
e del resto anche noi a nostra volta abbiamo italianizzato i nomi di
regioni e di arcipelaghi (Gran Bretagna, Inghilterra, Scozia, Galles,
Irlanda, Cornovaglia, Isole del Canale, Ebridi e Orcadi), chiamiamo
Manica quel tratto di mare che i francesi chiamano la Manche e
gli inglesi English Channel, e ricambiamo con i Monti Pennini
e Grampiani, e con il Tamigi, il fiume della capitale.
Fin qui niente di particolare, solo
dati di fatto. Dove la faccenda della traduzione dei nomi comincia a
essere interessante è con i nomi dei sovrani e dei personaggi
famosi. La regina d’Inghilterra la chiamiamo Elisabetta, non
Elizabeth, il marito è Filippo, non Philip, e i
figli sono Carlo, Andrea, Edoardo e Anna; basta però essere la
sorella della regina per essere Margaret e non Margherita. Per
ora, i figli di Carlo li chiamiamo William e Henry, ma
se il primo regnerà, ci verrà più naturale
chiamarlo Guglielmo V d’Inghilterra o re William V?
Fino a qualche tempo fa non ci sarebbero stati dubbi sul fatto di
tradurre i nomi dei re — nessuno ha chiamato re Baudoin
re Baldovino del Belgio; e gli altri quattro re inglesi di nome
William sono sempre stati chiamati Guglielmo — da
Guglielmo il Conquistatore fino a Guglielmo IV, zio e predecessore
della regina Vittoria; adesso le cose stanno cambiando e il re di
Spagna viene chiamato Juan Carlos e non Giovanni Carlo.
La prossima volta parleremo della
traduzione in inglese dei nomi dei nostri re e dei papi, e anche di
alcuni personaggi famosi del passato il cui nome è stato
tradotto.
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I nomi dei personaggi celebri
In alcune città d’Italia,
tra cui Milano, c’è una via intitolata a Edoardo Jenner.
Si tratta in realtà di Edward Jenner, (pronunciato
[gèna]) lo scopritore della vaccinazione antivaiolosa, vissuto
in Inghilterra dal 1749 al 1823. Cito queste date perché non è
comune che si traducano i nomi di personaggi relativamente vicini a
noi. La cosa era normale in epoche precedenti. I filosofi Roger
Bacon, del XIII secolo, e Francis Bacon, che visse a cavallo tra il 5
e il 600, noi li chiamiamo Ruggero e Francesco Bacone — e meno
male che non abbiamo tradotto davvero bacon, che come sappiamo
è la pancetta affumicata.
Un altro personaggio inglese con il
nome italianizzato è St. Thomas More, il santo noto da
noi come Tommaso Moro. L’altro grande santo inglese di nome
Thomas lo chiamiamo Tommaso Becket — è
l’arcivescovo di Canterbury vittima dell’assassinio nella
cattedrale. La traduzione del solo nome di battesimo è
frequente; in molti libri leggiamo di Isacco Newton e Beniamino
Franklin anche se i loro nomi erano Isaac e Benjamin.
Anche alcuni grandi italiani vengono
chiamati dagli inglesi con un nome tradotto. Tra questi il Petrarca
(Petrarch), che è stato un personaggio-chiave della
cultura europea del suo tempo; il sonetto petrarchesco (Petrarchan
sonnet) ha avuto molti seguaci ovunque e alcuni inglesi, come
Milton, ne hanno scritti di bellissimi in italiano. Citiamo poi
Michael Angelo (Michelangelo) e Raphael; tra i
navigatori, personaggi notissimi in epoca rinascimentale, hanno un
nome inglese John and Sebastian Cabot, tra i primi esploratori
del Canada, e Christopher Columbus — da lui
prende nome il Columbus Day, la festa del 12 ottobre celebrata
dagli Italiani d’America — e anche una clinica privata
fondata da americani residenti a Milano — che quelli della mia
età hanno sempre chiamato Columbus all’italiana ma che
adesso qualcuno comincia a chiamare con la pronuncia inglese (o
quasi).
La terminazione in -us non è
casuale: in un’epoca in cui il latino dominava la scena come
lingua internazionale e molti documenti, comprese le lettere, erano
scritti in tale lingua, molti personaggi finivano per essere noti
internazionalmente con la forma latinizzata del loro nome: Aretinus
(Guido d’Arezzo), Comenius (Jan Amos Komensky — Comenio),
Copernicus (Mikolay Kopernik), Nostradamus (Michel de Notredame),
Paracelsus (Philip von Hohenheim) e tanti altri (Duns Scotus,
Socinus).
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La chiave del cancello
Ci sono parole che uno impara in un
determinato contesto e che quindi associa a un determinato
significato, ma che hanno anche altri significati, magari anche più
importanti e frequenti di quello che conosciamo. Una di queste è
gate, che è il cancelletto che, nelle case inglesi,
permette di passare dalla strada al giardino che tipicamente si trova
davanti alla casa stessa. In inglese, però, gate è
anche sia il portone d’ingresso di palazzi e chiese, sia la
porta della città. Nella City di Londra c’è
Bishopgate, che è la porta orientale, e la cosa curiosa
è che anche a Verona c’è una Porta Vescovo che si
trova a oriente del centro.
Un film di qualche anno fa si
intitolava The Gates Of Heaven ed è stato tradotto "I
Cancelli del Cielo," quando da noi la Ianua Coeli, che troviamo
anche nelle litanie della Madonna, è sempre stata la Porta del
Cielo. Gate è anche la porta d’imbarco in un
aeroporto, che non è quasi mai un cancello per motivi sia di
temperatura che di rumore.
Superato il cancello e attraversato
il giardino si arriva alla porta di casa, che come tutti gli usci si
chiama door e non gate, e per aprirlo ci vuole la
chiave — in inglese key. Questa parola ha però un
altro significato, molto più importante per chi usa il
computer o suona il pianoforte o qualsiasi altro strumento che abbia
una tastiera: key è il tasto, e la tastiera, di
qualsiasi tipo, si chiama keyboard.
Abbiamo quindi visto una parola
italiana a cui ne corrispondono due inglesi, door e gate
per "porta," e una parola inglese a cui ne corrispondono
due italiane, "tasto" e "chiave" per key.
Si possono dare innumerevoli altri esempi, ma questi ci bastano per
osservare che le diverse lingue non sono etichette diverse messe
sugli stessi oggetti, ma modi diversi di vedere la realtà. Se
non si capisce e non si accetta questo, non si potranno mai imparare
le lingue. A noi può restare inconcepibile che la chiave e il
tasto si chiamino allo stesso modo, così come un inglese può
restare sconcertato per il fatto che noi non distinguiamo l’uscio
di casa dall’ingresso di una città, e usiamo la stessa
parola in "porta blindata" e "Porta Magenta."
Abituare la mente a questa
ginnastica, a scoprire nuovi rapporti tra parole e cose, serve ad
avere una visione più libera e creativa della realtà.
Ascoltatori del Circuito Marconi, lo sapevate che la mamma di
Guglielmo Marconi era irlandese e che lui era bilingue sin da
piccolo? Non è garantito che essere bilingui basti per
diventare dei geni, ma molti studi dicono che aiuta a sviluppare la
mente.
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Varietà di inglese
Mi è stato chiesto di
chiarire i rapporti tra inglese britannico e inglese americano. Il
discorso è lungo, per certi aspetti complesso, ma cercherò
di dire alcune cose essenziali senza annoiarvi troppo. Anzitutto, un
dato elementare che però a qualcuno sfugge: le lingue non
corrispondono alle nazioni. Nessuno parla svizzero, belga, austriaco
o canadese — se si lasciano perdere i dialetti locali. A Lugano
parlano italiano, a Berna, Zurigo e Vienna si scrive, parla e studia
il tedesco, a Ginevra, Québec e Bruxelles il francese, ma
molti a Bruxelles e nel nord del Belgio parlano fiammingo.
Negli Stati Uniti d’America si
parla inglese. La materia scolastica che corrisponde al nostro
italiano si chiama inglese — basta controllare gli orari e i
diari scolastici di qualunque scolaro; e così via fino ai
dipartimenti universitari di lingua e letteratura inglese. Nella
maggior parte dei casi è difficilissimo, anche per una persona
di madrelingua inglese, stabilire se un certo testo sia stato scritto
da un britannico o da un americano (o magari da un australiano, da un
neozelandese, da un irlandese, ecc.). Ci sono alcune differenze di
ortografia, ma queste ci dicono piuttosto dove quel testo è
stato stampato, non la nazionalità di chi l’ha scritto.
La situazione è analoga da
noi; se un testo è in buon italiano, difficilmente capiamo se
chi l’ha scritto è piemontese o pugliese, veneto o
siciliano. Le differenze si notano nel parlato; anche chi parla
correttamente lascia spesso trasparire la sua origine settentrionale
o meridionale, e a volte anche qualche inflessione regionale. C’è
chi dice béne e chi dice bène, chi dice
chiuso con la esse di "sera" e chi lo dice con la
esse di "rosa," ma non c’è bisogno di
interprete, se Bertinotti e Leoluca Orlando, o Martinazzoli e
Buttiglione, vogliono capirsi.
Lo stesso avviene con l’inglese:
se qualcuno dice everybody con una [a] invece di una [ò]
nella penultima sillaba, vuol dire che probabilmente è
statunitense o canadese, ma Clinton non ha bisogno di interpreti per
parlare con Tony Blair, né con qualunque persona colta di
qualsiasi paese di lingua inglese.
Da noi, in alcune regioni si usa
molto l’avverbio molto, e in altre regioni si usa assai
l’avverbio assai; andando a lavorare a Bari ho scoperto
vocaboli tipici del territorio, come "grave" e "gravina,"
o degli usi locali, come le orecchiette e le zeppole (ottime
entrambe). Da noi si usa pochissimo il passato remoto ("andai,
dissi" ecc.), da Bologna in giù molto di più. Allo
stesso modo ci sono usi locali nelle varie parti del mondo di lingua
inglese che danno luogo a forme un po’ diverse, ma non così
diverse da permetterci di dire che si tratta di lingue differenti. Di
fronte a poche decine di casi come la parola per "ascensore,"
lift in Inghilterra e elevator negli Stati Uniti, ci
sono decine di migliaia di parole assolutamente identiche. Ma del
resto ho scoperto che a Lugano l’imbarcadero del battello si
chiama "debarcadero." Basta questo per dire che non parlano
italiano?
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Proverbi e (forse) saggezza
Parlando dei Rolling Stones
in una delle prime trasmissioni ho detto che il nome del complesso
viene da un proverbio che in italiano non abbiamo, A rolling stone
gathers no moss ("pietra che rotola non raccoglie muschio")
e commentandolo avevo detto che forse i proverbi sono la saggezza dei
popoli, ma di sicuro non tutti i popoli hanno lo stesso patrimonio di
saggezza popolare; avevo anche promesso altri esempi. Eccoli:
da noi, una rondine non fa primavera
e in inglese A swallow does not make a summer cioè non
fa un’estate — cosa che si spiega benissimo dato il loro
clima.
Sempre col tempo e il clima ha a che
fare Happy the bride that the sun shines on ("felice la
sposa su cui splende il sole"), che è l’esatto
contrario del nostro "Sposa bagnata, sposa fortunata." Che
in Inghilterra piova durante un matrimonio fa parte della normalità
delle cose, e quindi non può essere presagio di buona fortuna.
Una bella giornata di sole — quella sì che è
rara, come un quadrifoglio rispetto a un trifoglio.
In qualche caso troviamo i
riferimenti al vecchio sistema di pesi e misure: An ounce of luck
is better than a pound of wisdom — un’oncia di
fortuna è meglio di una libbra di saggezza — ove
un’oncia era la sedicesima parte della libbra, rispettivamente
28 e 453 grammi. C’è anche la versione sanitaria An
ounce of prevention is better than a pound of cure (un’oncia
di prevenzione è meglio di una libbra di cura).
Nella stessa serie troviamo Give
him an inch and he will take a yard — letteralmente "dagli
un pollice (due centimetri e mezzo) e si prende una yarda (cm.
91,4)," ossia se gli dai un dito, si prende tutto il braccio. A
proposito di pollici, se misurate la diagonale dello schermo del
televisore e dividete per 2,5 potete sapere quanti sono i pollici
effettivi.
Ma vediamo qualche altro caso:
Better bend than break
("meglio curvarsi che spezzarsi") è l’esatto
contrario del nostro "Mi spezzo ma non mi piego" ed è
una spia dell’arte del giungere a compromessi che, si dice o si
diceva, è tipica degli inglesi. Un altro proverbio però
dice Do what is right, come what may "Fai quel che è
giusto, qualunque cosa succeda" — e non sembra gran che
conciliabile con il precedente.
E sarà poi vero che l’abito
non fa il monaco? Per gli inglesi, Fine feathers make fine birds,
un bel piumaggio rende belli gli uccelli.
Possiamo solo concludere ricordando
quel proverbio che dice di non credere ai proverbi — e
ricordando che anche lui è un proverbio...
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Un po’ di finto inglese
Questa sera parliamo di alcune
parole inglesi a cui noi italiani abbiamo cambiato significato. Per
esempio il golf, che per gli inglesi è uno sport mentre
da noi il più delle volte è un indumento, visto che lo
sport da noi non è molto diffuso, se non nella versione
minigolf (che in inglese si chiama miniature golf, golf in
miniatura).
Un nostro box per loro è un
(private) garage; box, in inglese, è una
scatola, una casella, sia la casella postale che la casella da
barrare in un questionario; e poi l’area di rigore, la TV, il
verbo che indica ciò che fa il pugilatore, varie altre cose...
tranne il "box" dell’auto.
Lo scotch, nel senso di nastro
adesivo, si chiama sellotape; il nome usato da noi è
quello di una particolare marca, una delle prime a comparire sul
nostro mercato e quindi la parola "scotch" si dovrebbe
usare solo per quel tipo lì, non per gli altri.
Come indumento, in inglese SLIP
indica la sottoveste — inoltre la parola indica un talloncino o
una striscia di carta, il verbo scivolare e varie altre cose, ma i
nostri "slip," quelli no.
Water è l’acqua,
da cui, per un eufemismo che risale all’800 vittoriano, abbiamo
il water closet, lo sgabuzzino dell’acqua abbreviato in
W. C. — questo termine gli inglesi non lo usano più, da
noi ha perso la parte finale e ha cambiato la pronuncia della prima
parte. E sorvoliamo sul cambiamento di significato.
Il ticket è il
biglietto, del treno, del cinema o della lotteria, la multa, o la
lista dei candidati di un certo partito; non è il "ticket"
che noi paghiamo in farmacia o in ambulatorio.
Toast è il pane
tostato, ingrediente normale di ogni breakfast, ed è
anche il brindisi; da noi la parola, pronunciata [tòst],
ha finito per indicare il tramezzino caldo fatto col pane
carré.
smoking è l’attività
del fumare, e la smoking jacket era la giacca da fumo che in
taluni ambienti i signori, terminato il pranzo e allontanate le
signore, indossavano prima di accendere la pipa o il sigaro, per non
impregnare di odore la giacca elegante. Questa si chiama dinner
jacket e corrisponde a quello che noi chiamiamo "smoking."
Concludiamo con una piccola
consolazione: gli inglesi adoperano la parola confetti per
quelli che noi chiamiamo i coriandoli. Non siamo solo noi a cambiare
il significato delle parole quando le importiamo.
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Non è lei, ma se assomiglia va bene
Fino a qualche tempo fa, si parlava
di “profughi”, a seguito di guerre, carestie e altre
calamità, mentre oggi si parla di “rifugiati”.
Malattie e incidenti “gravi” ora sono detti malattie e
incidenti “seri” (peccato che non sia frequente il
contrario, cioè malattie o incidenti “comici”).
Sono due esempi di come sempre più spesso usiamo le parole
italiane che assomigliano a certe parole inglesi, invece delle parole
abituali. Questo si spiega, tra l’altro, con il gran tradurre
che si fa dall’inglese, spesso con tanta fretta — per
esempio nelle redazioni giornalistiche a partire da notizie di
agenzia in inglese. In inglese, i profughi sono refugees, e
serious è l’aggettivo che corrisponde a "grave"
(oltre che a "serio").
Non sempre ci si rende conto che
diamo un nuovo significato alle parole che usiamo: chi invece di
"rendersi conto" usa "realizzare" (da realize)
aggiunge a questo verbo un valore che prima non aveva. Ultimamente si
adopera “intrigare” e “intrigante” detto di
qualche problema o argomento di studio, per dire che è
“avvincente” e “appassionante” (è un
calco di intriguing); in italiano, una persona intrigante è
una che semina zizzania intromettendosi nelle questioni altrui.
In un libro uscito da poco ho letto
“triviale” nel senso di “futile, banale”
(ossia dell’inglese trivial) e non nel senso consueto di
“volgare” e “sconcio”; l’aggettivo
inglese lo troviamo nel nome del gioco Trivial Pursuit che in
effetti è una gara a inseguimento (pursuit) basata su
nozioni più o meno irrilevanti, ma senza nulla di triviale in
senso proprio.
Un altro uso che continuo a ritenere
scorretto è quello di compagnia invece di società;
il corrispondente italiano della Edison Co. era la Società
Edison, che nessuno ha mai chiamato "compagnia Edison";
oggi proliferano le "compagnie" di assicurazione e di ogni
genere. Company è propriamente la società di
capitali, distinta dalla partnership che è la società
di persone.
Può avvenire che un treno sia
soppresso, per qualche motivo, ma se la stessa cosa avviene a un
aereo il volo è "cancellato" e non soppresso, per
via dell’inglese cancelled. Sempre sull’aereo, vi
viene detto di mettere il bagaglio a mano sotto la poltrona di fronte
a voi che in realtà è la poltrona davanti — è
una cattiva traduzione di in front of you (di fronte si dice
opposite ma è molto raro che in aereo ci siano posti
che si fronteggiano).
Le relazioni, nel senso di
resoconti, ora spesso si chiamano "rapporti," sulla base di
reports; in compenso i rapporti tra le persone tendono a
chiamarsi "relazioni," da relations e relationships.
Per inciso, la pronuncia corretta di report è [ripòrt],
con l’accento sulla seconda sillaba sia quando è nome
che quando è verbo – e in effetti reporter lo
pronunciamo abbastanza correttamente, con l’accento sulla o.
Stiamo rimodellando l’italiano
sull’inglese — per sostituirlo? Spererei di no.
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Democrazia linguistica
Una sciocchezza che mi è
capitato di sentir dire, più di una volta, è che
l’inglese è una lingua democratica perché si dà
del tu a tutti. Non so che cosa voglia dire "lingua
democratica;" mi sembra un’espressione che o non ha senso
o, se ce l’ha, è vago e discutibile. Di sicuro anche in
lingua inglese ci sono tutti i modi per rivolgersi agli altri
esprimendo deferenza, rispetto, familiarità, amicizia,
cordialità, arroganza e così via. C’è
tutta la gamma che va da Good morning, Your Majesty / Mr
President (è bene saperlo, caso mai vi capitasse di
salutare la regina o il Presidente Clinton) fino a hello, old man
("ciao, vecchio") e da excuse me, sir, fino a hey,
mister.
In quanto alla seconda parte della
frase, semmai si dà del “voi” a tutti, anche
rivolgendosi a una persona sola e indipendentemente dal fatto che i
rapporti siano quelli tra familiari o tra estranei. Sappiamo che you
è "voi" sia sulla base degli studi di storia della
lingua — c’era un pronome di seconda persona singolare
che ora non si usa se non in rari casi — sia osservando che la
forma del verbo be che si usa con you è la
stessa delle altre persone plurali (we are, you are, they are).
In un film, la protagonista, tutta
emozionata, torna a casa dopo una festa e racconta a sua sorella che
"lui," l’uomo di cui era innamorata ma che pareva
irraggiungibile, ha ballato con lei e a un certo punto "mi ha
chiamata Margaret." Visto che quello è il suo nome, la
frase può sembrare ovvia e banale. Il fatto è che prima
l’aveva sempre chiamata Miss Johnson. Il senso vero è
che "mi ha dato del tu" e in ogni commedia che si rispetti
questo è l’inizio della fine.
Se un conoscente, David Jones, a cui
vi rivolgete chiamandolo Mr Jones vi dice call me David,
vi dice "dammi del tu" e la risposta normale è I’m
Frank o qualunque sia il nome con cui volete essere chiamati in
inglese. Darsi del lei o del tu corrispondono quindi, nella maggior
parte dei casi, a chiamarsi con il cognome o con il nome di
battesimo. Dire che si conosce una persona on a first-name basis
vuol dire che si è in confidenza con quella persona, noi
diremmo appunto "ci diamo del tu."
Tornando alla frase di partenza, la
prima parte (l’inglese è una lingua democratica) è
dubbia e la seconda (si dà del tu a tutti) è del tutto
falsa; quindi il perché che le unisce non ha nessun
senso. E magari sarà meglio che un aggettivo importante come
"democratico" lo riserviamo a questioni più serie.
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Non perdere la testa...
Una delle cose che facciamo spesso
alle parole inglesi quando le importiamo nella nostra lingua è
di accorciarle, se sono parole composte, tenendoci solo la prima
parte. Ne abbiamo già parlato a proposito di basketball
e volleyball, che da noi sono il "basket" e il
"volley," e del touring club e del night club
che diventano il "Touring" e il "night." La cosa
curiosa è che lasciamo via proprio la testa del composto, la
parte che ci dice di che cosa stiamo parlando: il Touring è
un’associazione, ossia un club, il basket è uno
sport del pallone, ball, e così via.
Altri casi del genere li troviamo:
nel campeggio — camping-site diventa "camping;"
in quella che una volta si chiamava la balera e oggi il "dancing"
— in inglese una dance hall o dancing hall; e nel
"bowling," per bowling alley. Le parole che
terminano in -ing indicano l’attività, non il
luogo. Troviamo questa desinenza in happening (da happen
"accadere"), body-building, zapping e molte
altre. In italiano quando usiamo un verbo come nome usiamo
l’infinito, in inglese la forma in -ing: "leggere è
istruttivo" reading is educational.
Nel mondo del computer si parla di
hard e soft intendendo hardware e software; ma hard
può essere l’hard disk o la hard copy di
un file; nell’inglese vero si rischia il corto circuito se non
si dicono le parti essenziali delle parole composte.
Una abbreviatura la troviamo anche
in "beauty" invece di beauty-case. Se una chiede
Where’s my beauty? gli inglesi possono capire che si sta
domandando dove sia finita la sua bellezza — domanda profonda,
filosofica e triste. Se invece chiede Where’s my case?
la aiutano a trovare l’oggetto smarrito.
In grammatica si dice che nei
composti inglesi la parte finale è la testa, mentre quella che
precede è il premodificatore: in weekend, end è
la testa e week è il premodificatore; stiamo infatti
parlando della fine di qualcosa (della settimana,
nell’esempio). Nell’usare queste parole parlando con gli
inglesi dobbiamo stare attenti a non... perdere la testa.
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Traduce o non traduce?
Dicono che durante uno dei primi
esperimenti di traduzione automatica, la frase in inglese the
spirit indeed is willing, but the flesh is weak — e cioè
"infatti lo spirito è forte, ma la carne è debole"
— tradotta in russo e ritradotta in inglese, abbia prodotto the
vodka is really strong, but the meat is rotten, ossia "la
vodka è davvero forte, ma la carne è guasta."
Non ho trovato da nessuna parte la
conferma dell’episodio, che probabilmente è una delle
tante leggende metropolitane diffuse nei primi tempi in cui si stava
sviluppando la tecnologia del computer — d’altra parte
bisogna riconoscere che se non è vera è ben trovata,
perché illustra chiaramente e sinteticamente molti dei
problemi con cui ci si scontra nel tentativo di automatizzare
operazioni linguistiche estremamente delicate; basta pensare a
"carne" che in inglese è flesh quando è
viva e meat quando è cibo.
L’episodio mi è tornato
in mente sabato 13 settembre [1977], durante la trasmissione
televisiva dei funerali di Madre Teresa di Calcutta. Una delle
interpreti simultanee ha tradotto una delle preghiere che sono state
recitate, e che diceva, più o meno (cito a memoria)... "Donale
o Signore la quiete eterna e sia illuminata per sempre..." Qui
però si chiedeva non di interpretare il testo inglese, ma di
riconoscere il Requiem Aeternam e di usare la formula italiana
corrispondente: "L’eterno riposo dona a lei o Signore..."
La maggior difficoltà nel tradurre e nell’interpretare
consiste a volte nell’individuare i riferimenti culturali e le
citazioni per restituirle nella loro forma autentica o consueta.
Madre Teresa sapeva fare un uso
estremamente essenziale della lingua inglese. Ne ero rimasto colpito
durante un incontro a San Siro promosso dal Cardinale Colombo in
difesa della vita. Si capisce che se l’interiorità è
ricca, anche un’albanese trapiantata in India sa piegare una
lingua non sua perché esprima la profondità dell’anima.
Ho ritrovato quella essenzialità durante la cerimonia funebre,
osservando il Crocefisso che era accanto alla bara e che si trova in
tutte le case delle Missionarie della Carità. Dal Crocifisso
pendono due scritte in inglese: I THIRST "ho sete" e
YOU DID IT FOR ME "l’avete fatto a me." Parlo
di essenzialità perché nel primo caso ha scelto di
conservare una traduzione antica della Passione secondo Giovanni —
oggi si direbbe I am thirsty per "ho sete," ed è
così che lo si ritrova nelle versioni moderne, mentre la
seconda è una traduzione recente del Vangelo di Matteo, molto
più chiara e diretta del vecchio you have done it unto me.
Saranno dettagli, ma mi piace
pensare che lo Spirito di Dio agisca anche suggerendo le versioni in
inglese più capaci di colpire il cuore e imprimersi nella
mente.
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I say Hallo, you say Good-bye
Questa sera parliamo dei saluti, di
come in inglese ci si rivolge a una persona quando la si incontra e
quando la si lascia. La differenza principale con l’italiano è
che noi non distinguiamo le due situazioni, nel senso che Buongiorno
o Ciao si dicono sia all’inizio che alla fine di un
incontro. Solo la sera, dopo una certa ora, si dà la buonasera
quando ci si incontra e la buonanotte quando ci si lascia.
In inglese, invece, i saluti sono
sempre diversi: good morning, good afternoon e good evening
quando ci si incontra di mattina, di pomeriggio, o di sera; good-bye
quando ci si lascia, a meno che sia abbastanza tardi per dire good
night. Molti fanno fatica a convincersi del fatto che good-bye
non è una forma amichevole di saluto, ma si usa normalmente a
conclusione dei dialoghi cominciati con good morning, good
afternoon o good evening.
Il good di good-bye
non è l’aggettivo "buono" come negli altri
saluti ma deriva da God, Dio; l’espressione good-bye
viene da God be with you, "Dio sia con te." Anche in
italiano dicendo addio raccomandiamo a Dio la persona
da cui ci separiamo. Una forma ormai antiquata di addio è
farewell, che ha in un ordine diverso gli stessi componenti di
welfare — il "ben viaggiare" di cui ci siamo
occupati iniziando questo ciclo di trasmissioni.
Le forme amichevoli sono invece
hello o hi quando ci si incontra e bye o bye-bye
quando ci si lascia. Hi è più frequente negli
americani e nei giovani, ma si sta diffondendo ovunque.
Hello è anche il
"pronto" al telefono. Molti inglesi rispondono dando il
proprio numero, così che se uno si accorge di avere sbagliato
dice Sorry, wrong number (scusi, ho sbagliato numero) e la
conversazione termina immediatamente.
Un chiarimento utile riguarda la
parola night che non è solo la notte, ma anche la sera
dopo cena: let’s go to the cinema tonight significa
andiamo al cinema stasera (e non, evidentemente, stanotte). Evening
è invece il periodo tra il tea-time, l’ora del
tè, e la cena, e ricordiamo che tea, in questo
contesto, non è solo la bevanda, la cup o’ tea,
ma il pasto leggero pomeridiano — ma dei pasti inglesi ci
occuperemo un’altra volta.
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Immigrati naturalizzati
Questa sera parliamo della lingua
inglese ben nascosta in due parole italiane, bistecca e
vagone. Quest’ultima viene dal wagon, il carro
dei pionieri americani che tutti abbiamo visto nei film western. Le
prime ferrovie, come si vede nelle stampe dell’epoca, avevano
preso a modello la carrozza, perché il nuovo mezzo di
trasporto doveva sostituire le diligenze. La motrice trainava una
serie di piccole carrozze. Si è poi visto che il wagon,
più lungo e capiente, costituiva un modello migliore per la
vettura ferroviaria, e da lì nacque il vagone.
La storia della bistecca,
dall’inglese beef-steak, è più lunga; beef
viene dal latino bovem attraverso il francese boeuf.
Quando i Normanni conquistarono l’Inghilterra nell’undicesimo
secolo, portarono con sé la loro lingua, il francese (infatti
dalla Scandinavia originaria questi "uomini del nord" si
erano insediati in Normandia). La lingua inglese ha molte coppie di
parole, una di origine anglosassone, l’altra di origine
neolatina. Per quanto riguarda gli animali domestici e commestibili,
la parola anglosassone indica l’animale vivo, di cui si
occupavano i mandriani locali; la parola neolatina si riferisce alla
carne, che finiva sulla tavola dei dominatori normanni — il re
e i nobili. Così ox è il nome del bue e beef
è il nome della carne bovina. Lo stesso succede con calf
e veal per il vitello e la sua carne, pig e pork per il
maiale e la carne suina, sheep e mutton per la pecora e
la carne ovina (mouton è il nome francese del montone,
da cui mutton).
Il roast beef è
letteralmente l’arrosto di carne bovina, che da noi è
diventato il nome di un certo modo di cucinare il manzo — e
come in tanti altri casi ci sono infinite variazioni sia nella grafia
che nella pronuncia.
La parola steak ha la
particolarità di essere una delle tre in cui alla grafia EA
corrisponde il dittongo [ei]; le altre due sono great, come in
Great Britain Gran Bretagna, e break che si usa anche
da noi per indicare l’intervallo ma che in inglese è più
frequente come verbo, "rompere." Break è
anche un termine del pugilato, l’ordine di separazione che
l’arbitro dà quando i pugili sono allacciati (o in
clinch come si dice con un termine tecnico, sempre inglese).
Durante un esame ho fatto
trascrivere foneticamente la parola steak e la studentessa mi
ha scritto [sti:k]; quando le ho detto che era sbagliato mi ha
risposto che in Inghilterra ha sempre sentito dire [sti:k]; questo
significa che le nostre orecchie percepiscono quello che si aspettano
di sentire e non quello che sentono davvero. Quando poi le ho detto
che se avesse ragione lei la bistecca si chiamerebbe *bisticca, mi ha
guardato sorpresa, come se avessi detto qualcosa che non c’entra.
E invece la bistecca è proprio la beef steak [steik].
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Rime e allitterazioni
E’ noto che in inglese
Topolino e Paperino sono Mickey Mouse e Donald Duck;
notiamo per inciso che entrambi i nomi sono allitterazioni, cioè
iniziano con la stessa consonante, così come sono
allitterativi i nomi di Marilyn Monroe, Doris Day e
tanti altri. Gli inglesi sono molto sensibili alle allitterazioni,
così come noi percepiamo subito le rime (come in Tonino
Carino, Gianluca Pagliuca, Marcella Bella, Oriella Dorella e Eta
Beta). Anche l’eterna fidanzata di Mickey è
Minnie Mouse, e Paperina è Daisy Duck,
letteralmente l’anatra Margherita — con la ripresa della
stessa allitterazione.
Molti personaggi delle fiabe inglesi
hanno un nome proprio di persona seguito da un "cognome"
che è il nome dell’animale: oltre al topo Michelino e
all’anatra Donald ricordo ad esempio il coniglio Pietro,
Peter Rabbit.
Più interessanti sono i nomi
originali di altri personaggi disneyani. Zio Paperone è Uncle
Scrooge, dal nome di Ebenezer Scrooge, il personaggio di A
Christmas Carol (“Il Canto di Natale”) di Dickens,
il prototipo dell’avaro misantropo.
Pippo è GOOFY, un
aggettivo che viene dal verbo goof, comportarsi scioccamente,
in modo impacciato, essere un pasticcione maldestro che fa malestri
in continuazione: c’è già nel nome la descrizione
del personaggio; in italiano Pippo è semplicemente una delle
forme vezzeggiative che derivano da Giuseppe, senza particolari altri
significati.
Gli scoiattoli Cip e Ciop in inglese
sono Chip e Dale, e detti insieme fanno la parola
Chippendale, il tipico stile dei mobili inglesi del ‘700.
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L’eroico bracchetto
Riprendiamo il discorso sui
personaggi dei cartoni animati per parlare di Snoopy. La razza
di Snoopy è molto tipica e ben definita: in inglese si chiama
beagle. Il traduttore avrebbe potuto lasciare il nome inglese;
l’avremmo imparato, così come abbiamo imparato molti
altri nomi inglesi di razze: cocker, fox-terrier,
spaniel, bulldog ecc. Invece ha inventato la parola
"bracchetto" che da allora è indissolubilmente
legata a Snoopy "L’eroico bracchetto sfida il
Barone Rosso..." — probabilmente ha fatto bene: suona
molto meglio di "l’eroico Beagle..."
Per questo ha sfruttato una delle
risorse che abbiamo in italiano ma non in inglese: i nomi alterati;
in particolare, "bracchetto" è il diminutivo di
"bracco," una razza a cui il beagle assomiglia. Da
"libro," noi possiamo avere "librone, libretto,
libriccino e libraccio" (e c’è chi ha inventato i
"librotti" per una collana per ragazzi). L’inglese
deve ricorrere a aggettivi: a big book, a
little book, a bad book, ecc.
A proposito di little, ricordiamo che
spesso non vuol dire "piccolo:" una persona può dire
My little house in the country
("la mia casetta in campagna") anche se è un’enorme
villa. Per dire che "la mia casa è piccola" devo
dire My house is small. Questo aggettivo
small, del resto, ormai lo conosciamo per via della serie
small, medium, large, extra large,
che in molti capi di abbigliamento ha preso il posto delle taglie
tradizionali.
Con i nomi che non hanno il plurale,
little vuol dire "poco:" John has
little money "John ha pochi soldi;" Add
little water "Aggiungete poca acqua." Al
plurale si usa invece few: "ha poche amiche" She
has few friends.
Se "poco" vuol dire "non
abbastanza" ("pochi soldi" equivale a "non
abbastanza soldi"), "un po’" vuol dire "una
certa quantità di" — "ho un po’ di
soldi, posso andare in vacanza." Lo stesso avviene in inglese a
little (al plurale a few) non indica "poco,"
ma "un po’." I have a little
time, I can go for a walk
("Ho un po’ di tempo, posso andare a spasso"); I
have little time, I cannot go
for a walk ("ho poco tempo, non posso
andare a spasso").
Spero che abbiate notato la
pronuncia di Snoopy e small con [s] e non con [z];
questo vale per tutte le parole inglesi che cominciano per SN-
e SM-, e anche per quelle che cominciano per SL- come
sleep, "dormire."
Abbiate pazienza, questa sera
abbiamo fatto un po’ di grammatica, ma ogni tanto ci vuole
anche quella.
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Uno o tanti?
A scuola abbiamo imparato che c’è
il singolare che si usa per parlare di un oggetto e c’è
il plurale, da usare quando ci riferiamo a più di uno. Ma non
è sempre vero. Se diciamo "qualche libro" usiamo una
forma singolare ma intendiamo più o meno lo stesso di "alcuni
libri," al plurale. Se diciamo "Si misero il cappotto e
uscirono," non ci riferiamo a un cappotto solo, collettivo, ma a
tanti cappotti quante sono le persone. Ancora un singolare per un
significato plurale.
Il caso più paradossale
l’abbiamo quando vogliamo parlare dell’assenza di
qualcosa: usiamo a volte il singolare ("nessun libro") e a
volte il plurale ("zero libri") per indicare quello che
tecnicamente si chiama l’insieme vuoto.
In inglese abbiamo sempre il plurale
in questi casi: SOME BOOKS e NO BOOKS per "qualche
libro" e "nessun libro." "Si misero il cappotto e
uscirono" è THEY PUT ON THEIR COATS
(letteralmente, "i loro cappotti") AND WENT OUT.
Tutto questo riguarda i nomi che possono avere il plurale e che sono
la assoluta maggioranza. Ci sono poi, sia in inglese che in italiano,
i nomi che non possono avere il plurale a causa del loro significato,
come milk "il latte" e patience, "la
pazienza." Il problema, con questi nomi uncountable, non
pluralizzabili, non riguarda il numero ma l’uso dell’articolo.
Noi diciamo "Il latte è bianco," in inglese Milk
is white; "La pazienza è una virtù"
Patience is a virtue — entrambe le volte, senza
l’articolo; in questi casi, l’inglese fa una distinzione
fra l’uso generale del nome e l’uso specifico,
determinato. Se a tavola dico Please pass the milk mi
riferisco a quel latte, che si trova lontano da me ma a
portata di mano della persona a cui lo chiedo. Questo spiega THE
milk.
Altro esempio: The patience that he showed was
surprising "La pazienza che dimostrò fu
sorprendente."
Dobbiamo diffidare di alcune
etichette che la grammatica ci ha insegnato a usare — per
esempio, esistono gli articoli cosiddetti determinativi ("il,
lo, la...") ma non sempre determinano davvero: in una frase come
"i cani sono amici fedeli" l’articolo non determina
un bel niente, "i cani" vuol dire, molto genericamente,
"tutti i cani." Diversa è la frase "i cani
stanno abbaiando perché hanno fame," in cui si sta
parlando di QUEI cani ben precisi e determinati. In inglese
l’articolo THE si deve usare solo in questo secondo caso; la
prima frase è Dogs are faithful friends, senza
articolo.
Abbiamo detto che la pazienza è
una — non ci sono due pazienze, tre pazienze; io non devo
abusare della vostra e quindi...
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Un po’ per ciascuno
Abbiamo accennato in un’altra
trasmissione alla necessità di usare il plurale inglese,
invece del singolare italiano, quando il singolare italiano ha valore
distributivo, ossia significa "uno per ciascuno." Ripeto
l’esempio che era "Si misero il cappotto e uscirono"
They put on their coats and went out, dove "il cappotto,"
singolare, diventa "i loro cappotti" their coats, al
plurale. L’insegnante che ordina di scrivere qualcosa sul
quaderno dice Write it in your books — BOOKS al
plurale. Se però dice di fare con calma, prendendo tutto il
tempo che occorre, dice Take your time, perché in
questo senso time è solo singolare. (Times al
plurale ha altri significati: sia per indicare i tempi in generale,
nel senso di epoca: our times, "la nostra epoca;"
hard times "tempi difficili"; sia nel senso di
“volte”: three times “tre volte”).
Se in italiano diciamo "Sono
partiti in automobile," la frase non ci dice se l’automobile
è una sola o tante; ce lo dice il contesto, ossia la
situazione. La lingua inglese permette di distinguere They left in
their car, singolare, da They left in their cars, plurale.
Molti nomi cambiano di significato a
seconda che siano usati come countable o uncountable;
glass, solo singolare, è "il vetro;" a
glass è "un bicchiere;" glasses al
plurale può significare "bicchieri" ma spesso è
l’abbreviazione di eyeglasses, "occhiali."
Anche di queste variazioni di significato bisogna tener conto. Per
esempio, per indicare che al MEA CULPA bisogna battersi il petto, il
messalino festivo inglese dice All strike their breast, che
sembrerebbe una violazione della regola. Perché non breasts,
al plurale? Breast è il petto, il torace di uomini e
donne, mentre il plurale breasts si è specializzato
nell’indicare i seni femminili (breast feeding è
"l’allattamento al seno"). Ancora una volta, il
significato e l’uso delle singole parole sono più
importanti delle regole di grammatica. In altra parte della liturgia,
al Credo, per indicare che tutti chinano il capo quando si richiama
il mistero dell’Incarnazione, lo stesso messalino indica All
bow their heads, con il plurale heads, secondo la regola
generale.
Un’altra eccezione apparente è
quella delle formule fisse, che non cambiano a seconda che ci si
rivolga a una persona sola o a tante. Per questo, quando vi saluto
all’inizio dico Good evening -- non posso dire evenings
anche se suppongo che ad ascoltarmi ci siano ladies and gentlemen
al plurale, e quando mi congedo formulo il saluto, al singolare,
rivolto a ciascuno, Good night (non nights), everybody!
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Libri e quaderni
Qualcuno si è sorpreso
sentendo la frase Write it in your books, scrivetelo sul
quaderno, data come esempio qualche sera fa. L’indicazione book
= “libro” che si trova su qualche vecchio libro di testo
e nei peggiori dizionari, è sbagliata. Se cercate la parola
book su qualche buon dizionario inglese la troverete definita
come "fascicolo di fogli rilegati, da leggere o su cui
scrivere." Questo vuol dire che l’area di significato
che in italiano si divide sulle due parole "libro" e
"quaderno" in inglese è occupata dalla sola parola
book. Le specificazioni copybook o exercise book
per il quaderno si usano solo se il contesto non è chiaro, ma
col verbo "scrivere" non ci sono dubbi e Write it in
your books è una frase usata molto di frequente nelle aule
scolastiche.
Book è anche un verbo,
col significato di prenotare; un bookmaker è un
allibratore — e in questo caso book è il registro
delle scommesse; book è anche il carnet di biglietti e
di francobolli (ma da noi non abbiamo i distributori automatici di
francobolli che emettono i books of stamps), e anche la
bustina di fiammiferi (a book of matches).
Nella frase di prima notiamo anche
l’uso di in. Noi diciamo "Scrivere SU un quaderno,
leggere SUL giornale" ecc. mentre in inglese abbiamo
l’equivalente diretto di “nel” — I read it
in the newspaper. L’uso delle preposizioni segue più
le regole del lessico che quelle propriamente grammaticali. Se dico
"3 per 4" voglio dire "tre moltiplicato 4" , ma
se dico "parto per Roma" non voglio dire "parto
moltiplicato Roma," e in "studio per imparare", “per”
non vuol dire né "moltiplicato” né "con
destinazione" ma "allo scopo di." Esempi analoghi si
possono trovare per tutte le preposizioni.
Torniamo all’ultimo esempio;
troviamo una notizia SUL giornale, A pagina 5. Perché non SU
pagina 5? Che cosa cambia tra il giornale e una pagina del giornale
stesso, da giustificare il cambiamento di preposizione? In teoria non
cambia niente, in pratica si usa così, e l’uso detta
legge. Però allora non dobbiamo meravigliarci se in inglese si
dice IN the paper ON page 5.
Il segreto del successo in questo
labirinto è quello di imparare non le singole parole e le
regole che dovrebbero metterle insieme, ma le espressioni complete,
le collocations in cui gli elementi che si associano e
combinano vengono acquisiti come un blocco unico. Altrimenti il
lavoro è così complesso e l’applicazione corretta
delle regole è così lenta che quando uno ha preparato
la frase da dire, in una conversazione a più voci, è
passato il momento buono per dirla.
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Una spider sul ponte
Questa sera ci occupiamo di
automobili e di giochi a carte.
La parola inglese spider
significa ragno. Che cosa c’entra con l’automobile
sportiva che noi chiamiamo "spider"? La storia è
interessante e controversa. Alcuni dizionari ricordano che spider
è il nome dato un secolo e mezzo fa a una carrozza con le
ruote molto grandi e le sospensioni molto lunghe, che in effetti può
ricordare la forma di un ragno. Ma alla "spider" non
assomiglia proprio, direi anzi che è quanto di più
diverso si possa immaginare. L’origine probabilmente è
un’altra: dalla parola speed, velocità, sono
derivate, nella prima metà del nostro secolo, le parole
speedster e speeder per indicare le auto sportive
veloci. La parola speeder è stata adottata dai
francesi, che non solo la pronunciano spidèr ma la
scrivono anche con la i invece delle due e. Noi
l’abbiamo importata dal francese in questa forma, trattandola
però come se fosse una parola inglese e pronunciandola
[spaider]. C’è stata quindi prima una modifica della
grafia per adattarla alla pronuncia, poi una modifica della pronuncia
per applicare una regola — o presunta tale — che invece
in quel caso non ha motivo di essere applicata. Ma tant’è,
continueremo a chiamare "spider" quella che nella lingua
inglese degli inglesi, da quando è passata di moda la parola
speeder, si è chiamata per decenni a convertible
— una "convertibile."
La parola bridge non
significa "ponte" — almeno, non quella che si
riferisce al gioco. Infatti le parole inglesi bridge sono due:
una di origine germanica, che significa "ponte" e che si
collega al tedesco Bruck: la città austriaca di
Innsbruck prende il nome dal ponte sul fiume Inn così
come Cambridge prende il nome dal ponte sul fiume Cam.
L’origine dell’altra parola è incerta, ma con ogni
probabilità è la stessa della parola italiana
"briscola," che in effetti è un gioco della stessa
famiglia. Quando durante il regime fascista è stato proibito
l’uso della parola bridge e si è cercato di
imporre come nome "il gioco del ponte" si è quindi
commesso un errore. Non solo, ma poi qualcuno ha cercato di
giustificarlo dicendo che nel gioco del bridge si crea un
ponte tra i due compagni di squadra — come se questo non
valesse per tutti i giochi a coppie.
Aveva ragione un comico di
quell’epoca che diceva che certe cose trovano sempre uno
stupido che le inventa e un cretino che le perfeziona.
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Parla di come mangi
Ai pasti inglesi abbiamo fatto un
breve cenno parlando dei saluti e delle parti del giorno. Infatti il
mattino, morning, è il periodo che termina con l’ora
del lunch, il pasto di mezzogiorno; afternoon,
pomeriggio, è il periodo compreso tra il lunch e il
tea, che non è solo la tazza di tè ma un pasto
leggero, evening è il periodo tra il teatime,
l’ora del tè, e la cena, che si chiama supper.
Esiste poi la parola dinner, che come la parola italiana
"pranzo," indica non tanto l’ora del pasto quanto
piuttosto il fatto che si tratta di un’occasione conviviale di
una certa importanza; e come per il nostro pranzo, c’è
chi usa sistematicamente dinner per il pasto serale invece di
supper — ad esempio, molti alberghi che vogliono darsi
un tono.
Nella tradizione inglese, che
peraltro si sta notevolmente modificando, ha molta importanza il
breakfast del mattino — la parola viene dal verbo
"rompere," break, e dal nome fast, digiuno.
fast si scrive e si pronuncia come l’aggettivo fast,
veloce, quello che troviamo nell’espressione fast food.
Il breakfast inglese comprende di solito un succo d’arancia,
latte e cereali, un piatto caldo con uova e bacon (o salsicce
o altro ancora) e infine il tè o il caffè (quello che
gli inglesi chiamano caffè, mentre il nostro caffè lo
chiamano "espresso") con pane tostato e marmellata o miele.
In lingua inglese si distingue la marmalade, di agrumi, dalla
jam, la marmellata di altri frutti.
Soprattutto nel week-end, chi si
alza tardi a volte fa un brunch, cioè una combinazione
di breakfast e lunch. Brunch è una
“parola cannocchiale”, che mette insieme la prima parte
di una parola e l’ultima parte di un’altra. Una parola
cannocchiale che tutti conosciamo è smog, una
combinazione di fumo e nebbia, smoke e fog. A Milano
l’abbiamo sempre chiamata “calisna”, ma ormai sono
molti di più quelli che sanno l’inglese di quelli che
sanno il milanese. Sempre nei giorni festivi o nelle occasioni in cui
non si segue la routine abituale ci può essere un high tea,
un tè più abbondante e preso un po’ più
tardi, che riunisce il tè abituale e la cena.
Un’ultima curiosità: lo
spuntino di metà mattina, che si chiama elevenses
perché si prende attorno alle 11 (eleven), è da
moltissimo tempo previsto espressamente nei contratti collettivi di
lavoro.
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Chi ha tempo...
In inglese abbiamo tre parole che
corrispondono a “tempo”: weather, time e
tense. La prima, weather, si riferisce al tempo
atmosferico, al tempo che fa — ma questa sera non ce ne
occupiamo anche se Talking about the weather, "Parlare
del tempo che fa," passa per essere una delle occupazioni
preferite dai britannici. E’ invece molto importante la
differenza tra il tempo cronologico, il tempo che passa, il time,
e il tempo grammaticale dei verbi, il tense. E’ bene
ricordare che non c’è, in nessuna lingua, una
corrispondenza diretta, uno a uno, fra i tempi del verbo e i tempi
dell’azione espressa dal verbo. Cominciamo con qualche esempio
che riguarda il tempo presente dei verbi italiani.
Se dico "In questo momento vi
parlo," siamo al tempo presente in senso stretto: al presente
grammaticale "parlo" corrisponde il presente cronologico
"in questo momento;" ma se dico "mi alzo alle sei ogni
mattina" siccome adesso non sono le sei di mattina, lo stesso
tempo non esprime il presente cronologico; nella frase "Dio ci
ama" il presente si riferisce all’eternità.
Se dico "domani parto" il
time, il tempo cronologico, è un futuro (l’azione
si svolgerà domani) e il tense è un presente
("parto"). Nell’esempio "parto domani"
abbiamo un futuro espresso da un presente. Ma il presente italiano
può anche esprimere un’azione iniziata nel passato e che
continua: "Lo conosco da dieci anni." In questo caso
l’inglese adopera il present perfect tense: I
have known him for ten years (è la cosiddetta duration
form o forma di durata).
Un errore frequente consiste
nell’usare il passato prossimo italiano per tradurre frasi
inglesi di questo tipo; non ha senso dire "l’ho conosciuto
per dieci anni" come se adesso non lo conoscessi più: una
persona conosciuta dieci anni fa la conosco e basta, la conoscenza
non ha fine. Se una regola di grammatica ci dice che in questi casi
un presente italiano corrisponde a un present perfect inglese
(un tempo che assomiglia al nostro passato prossimo), la stessa
regola ci dice anche che negli stessi casi un present perfect
inglese corrisponde a un presente italiano.
Se sento la frase They have been
married twenty years devo intendere che "sono sposati da
vent’anni," non che lo sono stati ma ora non lo sono più
— per quest’ultimo senso l’inglese usa il past
tense: They were married twenty years.
Su qualche altra differenza di uso
dei tempi verbali forse ritorneremo; questa sera ci basta aver
sottolineato, con un po’ di esempi, la differenza tra il tempo
cronologico e i tempi verbali, tra il time e i tenses.
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Dai nomi propri ai nomi comuni
Una certa quantità di nomi di
personaggi famosi sono entrati nell’uso inglese e poi
internazionale come parole comuni. Forse la più diffusa è
l’unità di misura della potenza elettrica, il Watt, con
i suoi composti e derivati il Megawatt, il kilowattora, ecc. Come il
Volt prende il nome da Alessandro Volta, il watt prende nome da James
Watt, lo scozzese inventore della macchina a vapore che ebbe un ruolo
fondamentale nella rivoluzione industriale inglese. Altri scienziati
inglesi hanno dato il loro nome a unità di misura usate in
Fisica: Newton, Joule, Kelvin, Faraday e altri, ma sono unità
molto meno note al pubblico.
Un altro nome di questo tipo è
il sandwich, uno dei pochi anglicismi che stanno andando in
disuso, sostituito dalla parola italiana "panino": merito
dei paninari, delle paninoteche, ecc. Il quarto conte di Sandwich,
vissuto nel diciottesimo secolo, fu un uomo politico e divenne anche
primo lord dell’Ammiragliato (una delle cariche più
importanti in un paese marinaro come l’Inghilterra); il
Capitano Cook diede il nome di Sandwich alle isole del Pacifico che
ora chiamiamo Hawaii. Era anche un giocatore accanito, e quando nel
1762 rimase 24 ore a un tavolo da gioco senza altro cibo se non i
panini imbottiti, questi finirono per essere chiamati col suo nome.
Due generali hanno legato il loro
nome a dei capi di abbigliamento: il primo è il duca di
Wellington, il vincitore di Napoleone a Waterloo, che ha dato il suo
nome a un tipo di stivaloni, e il secondo è il Visconte di
Montgomery, il vincitore della battaglia di El Alamein contro Rommel,
da cui ha preso nome un tipo di cappotto allacciato con gli alamari.
Queste parole non circolano più tanto perché sono capi
di abbigliamento passati di moda, ma il loro nome è rimasto.
In Inghilterra il Macintosh è
un impermeabile, che prende il nome dal chimico scozzese Charles
Macintosh che nel 1823 inventò un metodo per impermeabilizzare
la stoffa. Oggi la parola si riferisce più abitualmente a un
tipo di computer, che a sua volta si chiama come un certo tipo di
mela californiana.
E a proposito di mele che vengono da
molto lontano, le Granny Smith (letteralmente, nonna
Smith) prendono il nome da Maria Ann Smith, morta nel 1870, che le
coltivava vicino a Sydney, in Australia.
Scusatemi, ho messo assieme Newton e
la nonnina delle mele, ma questi sono i percorsi che ci capita di
fare seguendo il filo delle parole scelte sulla base di qualche
curiosa particolarità.
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Idiomaticamente parlando
Fino a qualche tempo fa, molti libri
di testo riportavano la frase idiomatica It’s raining cats
and dogs per "sta piovendo a catinelle." E’ una
frase pittoresca — letteralmente, "piovono gatti e cani"
— ma che ormai quasi nessuno usa più. Anche da noi, del
resto, visto che i lavabi con le catinelle appartengono al passato, e
non succede più di rischiare di essere sommersi dall’acqua
gettata dalle finestre, è difficile che qualcuno dica ancora
che piove a catinelle.
Avrete notato cats and dogs,
"gatti e cani," mentre noi diciamo "cani e gatti."
Non è il solo caso di ordine inverso nelle due lingue; il più
famoso è black and white, "nero e bianco,"
riferito alla fotografia e cinematografia, allo schermo del
televisore o del computer, ecc. L’ordine fisso di certe
sequenze lo si trova in tutte le lingue. In pratica, l’uso
ripetuto di un certo ordine blocca tutte le alternative; il fatto che
si parli abitualmente di San Pietro e Paolo impedisce di dire "San
Paolo e Pietro." Così l’ordine abituale è
Oxford and Cambridge, non Cambridge and Oxford, Simon
and Garfunkel, non Garfunkel and Simon.
Le posate in inglese sono knives, forks and
spoons, "coltelli forchette e cucchiai" — sempre
in quest’ordine. A volte una possibile spiegazione la si trova:
nel caso delle due grandi università inglesi, Oxford è
stata fondata un po’ prima di Cambridge. Ma il più
delle volte cercare qualche motivazione logica è fatica
sprecata; qualche volta la sequenza dipende da ragioni fonetiche, nel
senso che è quella che suona meglio — naturalmente alle
orecchie degli inglesi, non alle nostre: la sensibilità è
diversa. Qualche altra volta nemmeno la facilità di pronuncia
sembra una giustificazione plausibile, come per night and day
("notte e giorno") preferita a day and night.
In italiano, non sappiamo spiegare
perché, ad esempio, nel descrivere la nostra bandiera diciamo
"bianco-rosso-verde:" partiamo dal colore che sta in mezzo,
poi diciamo quello che sta all’esterno e infine quello vicino
all’asta. Se si seguisse l’ordine effettivo, il verde
dovrebbe essere il primo, e non l’ultimo, dei tre colori.
Non serve a nulla chiedersi la
ragione di questo ordine fisso. Semplicemente, quando impariamo le
espressioni idiomatiche le dobbiamo acquisire come se fossero un
vocabolo unico, nella sequenza appropriata.
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Componibilità delle parole: la derivazione
Un modo per arricchire il lessico è
quello di imparare a usare bene i prefissi e i suffissi. Ad esempio,
il prefisso un- serve per formare il contrario, il negativo:
happy "felice" unhappy "infelice;"
do "fare" undo "disfare." Il
suffisso -able corrisponde ai nostri "-abile" o
"-ibile:" drink "bere," drinkable
"potabile." Allora è possibile, conoscendo il verbo
think, capire che unthinkable vuol dire "impensabile,"
e da believe, "credere," giungere a unbelievable,
"incredibile."
Non sempre le cose sono così
semplici: per esempio, l’aggettivo beautiful deriva dal
nome beauty — letteralmente, bello è "pieno
di bellezza." Il contrario di beautiful è ugly
e in questo caso è il nome "bruttezza," ugliness,
che deriva dall’aggettivo. Il processo è quindi
l’opposto del precedente.
Il contrario della desinenza -ful
è -less: mercy è la pietà, la
misericordia, merciful vuol dire "misericordioso" e
merciless "spietato." Però questo non
funziona sempre: abbiamo beautiful ma non *beautiless,
perché c’è già un’altra parola,
indipendente, che è ugly.
Il processo di derivazione può
ripetersi, con aggiunte plurime: preside president
presidential presidentialism — ma lo stesso
avviene in italiano — "presiedere, presidente,
presidenziale, presidenzialismo," e quindi non ci sono problemi
di apprendimento. Un altro esempio può essere thought,
"il pensiero," da cui derivano thoughtful e
thoughtfulness, "pensoso e pensosità." Una
parola di origine latina aggiunge suffissi anch’essi di origine
latina, e una di ceppo germanico aggiunge suffissi dello stesso
ceppo.
Come le parole, anche i prefissi e i
suffissi possono avere usi e valori e diversi: abbiamo già
visto che in unhappy, un- serve a negare, "non
felice" e in undo un- non è il "non
fare" ma fare il processo inverso, il "disfare."
Possiamo aggiungere parole come unsaddle: da saddle,
"la sella," abbiamo il "dissellare" e quindi un-
significa "togliere."
Anche il suffisso più
frequente, -ly, ha due usi diversi; può essere aggiunto
a un nome per avere un aggettivo, come in friend friendly
"amico amichevole," oppure a un aggettivo per avere un
avverbio, slow slowly "lento lentamente." Pur con le
difficoltà a cui si è accennato, resta il fatto che il
padroneggiare prefissi e suffissi ci permette di moltiplicare le
parole inglesi che conosciamo, invece di aggiungerle faticosamente
una alla volta.
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Quelle terribili parole facili
Questa sera vi voglio parlare di due
espressioni che ho incontrato e che hanno causato problemi di
comprensione, pur essendo composte da parole comunissime, molto note.
Dove si trova un parco situato at the top of down under —
parola per parola sarebbe "alla sommità di giù
sotto"? Per venirne a capo bisogna sapere che per gli inglesi
down under è un’espressione corrente che si
riferisce agli antipodi, cioè all’Australia. Nel nord
dell’Australia c’è una penisola che si protende
verso la Nuova Guinea, e che si trova quindi in cima all’Australia,
at the top of down under.
In un libro ho letto "libri da
tavolino dei caffè;" un’espressione che non mi
diceva nulla e che mi ha spinto a cercare di capire che cosa ci fosse
dietro. Ho potuto verificare il testo originale e ho scoperto che era
coffee table books. Da dove viene l’errore del
traduttore? Anzitutto dal fatto che ha confuso coffee, il
caffè come bevanda, con café, il caffè
come locale, il bar — con tavolini che al massimo hanno qualche
giornale ma non ci ho mai visto libri.
Nelle case americane — lo
vediamo in tanti episodi televisivi — davanti al divano e alle
poltrone del soggiorno c’è un tavolino basso, dove si
mette il caffè da offrire agli ospiti, il coffee table.
Spesso su quel tavolino c’è un libro costoso e vistoso,
che dovrebbe dare l’idea di una casa dove si dà molta
importanza alla lettura e alla cultura. Un coffee table book è
un libro che "fa scena," ricco di illustrazioni ma in
realtà, spesso, culturalmente povero; l’espressione
coffee table book viene normalmente usata con un valore
dispregiativo.
Come si fa a sapere che parole
semplici, che conosciamo bene, messe assieme hanno un significato
diverso? La prima cosa da fare è di consultare un vocabolario.
Sia down under che coffe table book sono espressioni
registrate nei dizionari — parlo dei dizionari veri, non dei
giocattolini tascabili o dei dischetti per computer dati in omaggio
con le riviste. I dizionari riportano, di solito in coda alle singole
voci, proprio le combinazioni di parole che hanno assunto valori
particolari. Inoltre, molte parole facili e note hanno significati
meno usuali. Una parola come line, "la linea," ha
varie decine di significati (un dizionario ne registra 54) dalla
"coda" allo sportello al "verso" di una poesia
alla "lenza" per pescare, ad altri meno usuali.
Cercare sul dizionario anche le
parole che si pensa di conoscere bene può riservare delle
piacevoli sorprese.
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Conversioni in massa
Una fonte di difficoltà è
data dal fatto che molte parole inglesi possono essere nomi o verbi,
senza nessuna modificazione. Love è sia "amore"
che "amare" e questo vale per un numero veramente alto di
vocaboli. Pensate che il BASIC English, un lessico selezionato
di 850 parole, contiene 600 nomi, 300 dei quali possono essere usati
come verbi.
Vediamo un esempio curioso. Una
persona dice: Time flies! "Il tempo vola" — e
l’altra risponde: I can’t, they go by too fast,
"Non ci riesco, passano troppo veloci." Come si spiega? Chi
risponde fa finta di aver capito qualcosa di diverso, dando a time
il valore di verbo e a flies il valore di nome plurale:
"cronometra le mosche!"
Questo è un caso di
distorsione volontaria, e quindi non ha particolare valore se non
come esempio-limite delle potenzialità della "conversione"
(questo è il termine tecnico per il passaggio da una categoria
grammaticale a un’altra). La conversione non riguarda solo nomi
e verbi, ma anche altre parti del discorso. Round è un
nome (lo usiamo anche da noi per le "riprese" negli
incontri di pugilato, ma una fase di trattative internazionali a suo
tempo si chiamò il Kennedy Round), è un
aggettivo, "rotondo" -- ad esempio, in espressioni come
round table, "tavola rotonda," da Re Artù
alle discussioni nei convegni, è preposizione in round the
corner, "dietro l’angolo," e è avverbio in
look round, "guardarsi attorno." Come nome, back
è la "schiena" (back ache è il "mal
di schiena") o il "retro" the back of the house
la parte posteriore della casa; può essere usato come
aggettivo — the back yard "il cortile posteriore"
— e come avverbio o particella avverbiale, soprattutto con
verbi di moto go back e come back per "tornare"
(rispettivamente "andare indietro" e "venire
indietro"); c’è anche un verbo to back che
vuol dire "sostenere," ad esempio un candidato alle
elezioni, oppure "scommettere su," in frasi come to back
a horse. Back up è un termine corrente
dell’informatica, per indicare sia l’operazione di
copiatura su disco dei programmi e dei lavori che non si vuol
rischiare di perdere, sia le copie stesse.
Quando non si viene a capo di
un’espressione inglese, bisogna sempre prendere in
considerazione la possibilità che una parola che conosciamo
come nome sia usata come verbo — o viceversa, naturalmente. Ma
anche questo è un argomento che dovremo riprendere, per questa
sera vi ho intrattenuto abbastanza a lungo.
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Non è genitivo (e non è nemmeno
sassone)
Anni fa ho trovato, nella piazza
principale di una cittadina, un negozio di libreria, cartoleria e
articoli vari che aveva l’insegna in finto inglese *BOOK’S
SHOP, "il negozio del libro." Sono entrato per prendere
delle cartoline e non ho resistito alla tentazione di chiedere al
gestore come mai l’insegna fosse in "inglese". Mi ha
risposto che c’erano tanti turisti stranieri e poi, con un
certo orgoglio, mi ha confidato che sua figlia si era laureata in
lingue e anzi aveva insegnato inglese per qualche tempo in un
istituto della città.
Non gli ho detto che sua figlia
aveva commesso un errore, né tantomeno che due giorni dopo
avrei cominciato a fare il commissario degli esami di maturità
proprio in quella scuola. *BOOK’S SHOP è un
errore perché la forma con ’s si usa non per
qualsiasi genitivo, ma solo per il possessivo, ossia quando c’è
una persona come possessore: "le gambe del ragazzo" sono
the boy’s legs ma "le gambe del tavolo" sono
the legs of the table. La libreria nel senso di "negozio"
si chiama bookshop; nel senso di "mobile" o
"scaffale" per libri si chiama bookcase o bookshelf.
In inglese sono molti i casi in cui
dobbiamo tenere distinti i nomi che si riferiscono agli esseri
animati (e in particolare alle persone) dagli altri nomi. Con i nomi
di persone la forma del cosiddetto genitivo sassone è quella
normale e deve essere sempre preferita. Il libro di Giovanni (che gli
appartiene, che Giovanni ha scritto o che parla di lui) è
John’s book. The Book of John è invece
un’espressione che indica il quarto Vangelo, il Vangelo secondo
Giovanni.
Le due forme di genitivo consentono
anche di distinguere certe frasi ambigue, come "L’amore di
Dio." L’amore che Dio ha per noi è God’s
love mentre l’amore delle creature nei Suoi riguardi è
the love of God.
Prima ho parlato di cosiddetto
genitivo sassone per indicare che il termine è entrato
nell’uso e quindi ci serve, ma in realtà la desinenza -s
del genitivo singolare è di tutte le lingue indoeuropee, dal
sanscrito al latino al tedesco. Perché sia invalso l’uso
dell’apostrofo invece di lasciare la desinenza unita al nome è
un aspetto che non è ancora stato chiarito con sicurezza.
Comunque l’uso dell’apostrofo ci consente di tener
distinto il plurale, senza apostrofi, dal genitivo singolare con ’s
e dal genitivo plurale che, nelle parole che fanno il plurale
regolarmente in -s, aggiunge l’apostrofo dopo la s.
Nella pronuncia non c’è differenza e solo il contesto ci
dice se ciò che suona the girls voglia dire "le
ragazze”, “della ragazza” o “delle ragazze"
(rispettivamente girls, girl’s e girls’).
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Ancora sul finto inglese
Stasera ritorno su un tema che mi
sta a cuore, ossia sulle strane cose che succedono quando l’inglese
lo si sa poco e male ma lo si vuole esibire. Prendiamo la parola
derby che da noi significa… Milan-Inter.
In Inghilterra è il nome di
una città, capoluogo di contea. Edward Stanley, 12° Conte
di Derby, ha legato il suo nome a una delle più classiche gare
ippiche inglesi per puledri di tre anni, che si corre dal 1780
all’ippodromo di Epsom il primo mercoledì di giugno su
un percorso di un miglio e mezzo (circa 2400 metri). Da questo Derby
hanno preso il nome altre importanti gare ippiche in varie parti del
mondo e la parola è usata anche per altre gare, ad esempio
ciclistiche.
Non sono riuscito a ricostruire la
strada che questa parola ha percorso per prendere il significato
specifico che ha da noi, cioè partita tra due squadre della
stessa città o di città vicine e rivali. Se qualcuno lo
sa, e me lo fa sapere, lo ringrazio, basta che non si tratti di
leggende non documentate o di semplici ipotesi. Ma qui m’interessa
un’altra cosa, ossia la pronuncia [doeurbi] (cioè con la
vocale di girl nella prima sillaba) che qualcuno usa per far
vedere che ha studiato l’inglese. La città, invece, si
chiama [darbi] e la contea è il Derbyshire [darbiscia].
Ci sono altre parole scritte con ER
pronunciato [a:]; le più note
sono clerk, l’impiegato, e sergeant, il sergente.
Tra i nomi di località troviamo Hertfordshire, la
contea di Hertford [ha:tfad].
Posso consigliare un libro che
presenta tutte queste informazioni sulla pronuncia inglese; non
presuppone conoscenze particolari di fonetica e ha molti esercizi che
uno può fare da sé controllando poi le risposte sul
libro stesso. Gli autori sono Gianfranco Porcelli e Frances Hotimsky,
il titolo è Manuale di pronuncia inglese: analisi ed
esercizi ed è pubblicato a Milano dalle edizioni Sugarco.
E infine, se permettete, un altro
consiglio: quando parlate in italiano dite le parole inglesi come le
dicono tutti, anche se siete ben sicuri della loro pronuncia esatta
nella lingua originale. Questa pronuncia vi servirà se un
giorno dovrete andare a Derby — tra l’altro c’è
un’università che è collegata con il Dipartimento
di Lingue dell’Università Cattolica. Lì in
Inghilterra, se chiedete di [derbi]
o di [doeubi], vi sarà
difficile trovare qualcuno che capisce subito a quale città vi
riferite. Da noi, sarà meglio che ci godiamo il derby,
lasciando perdere il finto inglese.
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Idiomatically correct
Si parla spesso, e nel complesso se
ne parla a ragione, dell’inglese come lingua idiomatica. Ma che
cosa si intende di preciso per idiom o "espressione
idiomatica"?
Partiamo da un esempio in italiano.
Conosciamo la parola PUNTO e tutti i suoi significati; sappiamo che
il BIANCO è un colore e sappiamo usare le preposizioni DI e
IN. Ma quando mettiamo insieme queste quattro parole ecco che DI
PUNTO IN BIANCO ci ritroviamo un’espressione il cui significato
complessivo non è la somma delle quattro parole: è di
più ed è diverso. Si tratta di un’espressione
idiomatica. Inoltre nessuno può, senza preavviso, così,
*DI PUNTO IN ROSSO modificarla. DI PUNTO IN BIANCO vuol dire
"improvvisamente, senza preavviso," *DI PUNTO IN ROSSO non
vuol dire niente, al massimo serve come controesempio.
Tra parentesi, in inglese abbiamo
point-blank più o meno con lo stesso significato. Le
due caratteristiche che definiscono un idiom sono quindi il
"valore aggiunto" che la nuova unità assume rispetto
ai suoi componenti e la sua inalterabilità.
Anche l’italiano, allora, è
una lingua idiomatica, solo che siccome abbiamo avuto la precauzione
di nascere in Italia non ce ne accorgiamo nemmeno, a meno che non ci
confrontiamo con le altre lingue.
Bisogna anche stare attenti a
evitare i colloquialismi quando questi sono fuori luogo; per dire che
qualcosa non c’entra, o è un discorso diverso, possiamo
dire che "è un altro paio di maniche," con una bella
espressione idiomatica, ma solo se stiamo parlando tra amici o
parenti, o comunque in tono confidenziale. Lo stesso vale per
l’inglese: il non idiomatico that’s quite different
(è completamente diverso) non è colorito ma proprio per
questo può andare bene sempre; that’s another story
(è un’altra storia) è meno formale ma si usa in
molti casi; l’idiom it’s a gray horse of another
colour (letteralmente, "è un cavallo grigio di un
altro colore" — che alcuni repertori danno come
corrispondente dell’ "altro paio di maniche") è
un idiom molto peculiare, che si usa poco, anche perché
suona sorpassato, e quindi serve limitatamente a circostanze
particolari.
In linea generale, gli idiom
più frequenti è importante conoscerli ma essenzialmente
per capirne il significato, e non tanto per usarli, se non con tutte
le cautele del caso. A meno che uno non voglia a tutti i costi
cercare di fare lo spiritoso, anche rischiando il ridicolo, ma questo
è tutto un altro paio di maniche.
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Le strane coppie
In inglese ci sono coppie di parole
molto simili tra loro, ma con una precisa distinzione nel
significato, che vengono confuse nella traduzione in italiano. La
prima coppia di cui ci occupiamo stasera è aptitude e
attitdude. La prima, aptitude, indica l’attitudine
come predisposizione naturale a fare qualcosa: c’è chi
ha molta attitudine per le lingue, la musica, lo sport o certe
attività che richiedono abilità e doti specifiche, e
chi è negato. Attitude è invece l’atteggiamento
che si assume di fronte a un problema, a una data circostanza; se mi
si chiede What’s your attitude towards the European Union?
si vuole sapere qual è il mio atteggiamento nei confronti
dell’Unione Europea, ossia come la penso sull’integrazione,
sulla moneta unica, eccetera, che cosa provo di fronte a una
prospettiva sovranazionale. Non mi si chiede se ho particolari
attitudini a essere un buon cittadino europeo, oltre che italiano.
Purtroppo attitude viene
spesso tradotto con "attitudine" anziché con
"atteggiamento" e se il contesto non è
sufficientemente chiaro si possono confondere due termini che fanno
parte entrambi del linguaggio psicologico — e a questo
proposito ho visto con preoccupazione questo errore di traduzione
anche in testi di psicologia. Buona norma vuole che due parole
diverse in lingua straniera siano tradotte con due parole diverse in
italiano, soprattutto se queste due parole già ci sono, come
nel caso di "attitudine" e "atteggiamento," e
quindi non c’è da inventare niente.
Un caso analogo, ma con qualche
differenza, riguarda politics e policy. Politics
è la politica come arte del buon governo (almeno idealmente) e
ha a che fare con lo stato, le istituzioni nazionali e
sovranazionali, il parlamento, il governo in senso stretto. Policy
invece è la linea di condotta, non solo negli affari pubblici
ma anche in quelli privati. In un locale californiano hanno rifiutato
di servirmi un’acqua tonica dicendo che siccome la mia prima
ordinazione era stata di un whiskey la loro policy era che una
seconda ordinazione era non solo obbligatoria, ma obbligatoriamente
identica alla prima. Non mi interessa commentare questa linea di
condotta; potete ben immaginare come la pensa uno che desidera una
bibita analcolica e si vede servire un altro whiskey. Mi interessa
far notare come la parola policy sia adoperata in contesti
molto lontani dalla Politica nel senso di politics. Poi anche
in italiano si parla ormai di “politica” aziendale invece
che di “strategia” aziendale, e qui “politica”
riassume il concetto sia di politics che di policy.
Il principio fondamentale di ogni
buona terminologia è che a ogni concetto o oggetto corrisponda
una e una sola parola. Ma è un principio che qualche volta
viene dimenticato, soprattutto se c’è di mezzo la lingua
inglese.
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La pronuncia di Y
Un’ascoltatrice mi ha pregato
di parlare di Dylan Dog non per fare pubblicità ma
perché è stufa di sentirsi correggere la pronuncia dai
giornalai. Dylan, che è anche il cognome di Bob
Dylan, si pronuncia infatti [dilan]
e non [dailan].
La y si pronuncia [ai] quando
è finale di parola ed è accentata: ad esempio, in my
reply “la mia risposta”. Si pronuncia [ai]
in molte parole, sempre in una sillaba accentata, anche se non è
finale, come nel cognome di Mike Tyson o nel bypass. Ma
non è sempre vero: oltre a Dylan, ricordo la città
di Plymouth, che è un importante porto sulla Manica e
che ha dato il nome ad altre due città degli Stati Uniti. Ci
sono anche nomi comuni come dynasty, la dinastia — la
pronuncia [dainasti]
è americana, non britannica (un caso analogo è quello
di privacy [privasi],
che è [praivasi]
oltre oceano) e parole dotte di origine greca come sycophant
"il sicofante" o Sybarite [sibarait]
"il sibarita."
Normalmente la y è
pronunciata [i] quando è seguita da due consonanti, come nella
prima sillaba della parola mystery o della città di
Sydney in Australia — questa ha la stessa pronuncia del
nome Sidney che tra l’altro è il nome di Sidney
Poitiers. E’ anche pronunciata [i] e non [ai]
quando non è in una sillaba accentata, soprattutto in fine di
parola, in vocaboli comuni come city "la città"
o lady "la signora" e in nomi propri di città
come Coventry e Derby o di persone come Gatsby,
il grande Gatsby.
Anche se non ho sotto mano dati
precisi, direi che statisticamente ci sono più probabilità
che una y si pronunci [i] che non [ai],
e quindi Dylan [dilan]
è forse più la regola che non l’eccezione —
ammesso che si possa parlare di regole soprattutto se ci sono di
mezzo i nomi propri.
A proposito di city, la
parola con la C minuscola indica genericamente la città. La
differenza rispetto a town è che, storicamente, una
city è sede vescovile e ha quindi una cattedrale, e una
town invece no. Il fatto che oggi city sia in genere
una città grande e town una città piccola è
conseguenza di questa vicenda storica. La City of London o
City con la C maiuscola è la storica città
di Londra che oggi corrisponde alla zona con la Borsa, la Banca
d’Inghilterra, i Lloyds, le banche e la Cattedrale di San
Paolo. Per antonomasia, per City con la C maiuscola si intende il
mondo della finanza e degli affari. Ma a Londra dovremo tornare
qualche altra volta.
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Il Regno Unito (per ora)
Questa sera faremo un po’ di
storia e di geografia, a partire da alcuni recenti referendum oltre
Manica. Cominciamo col dire che l’Inghilterra, England,
non è un’isola, ma occupa i tre quinti di un’isola
che si chiama Great Britain, la Gran Bretagna, e che comprende
Scotland, la Scozia e Wales, il Galles. La nazione
britannica comprende anche Northern Ireland, l’Irlanda
del Nord. Il suo nome è Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda
del Nord — in inglese, The United Kingdom of Great Britain
and Northern Ireland e si chiama Regno Unito proprio perché
nasce dall’unione del Regno d’Inghilterra, del Regno di
Scozia, del Principato del Galles e dell’Irlanda.
Anche la bandiera del Regno Unito
richiama questa unione sia nel suo nome tradizionale, Union Jack,
sia visivamente, perché unisce la croce di San Giorgio (rossa
in campo bianco per l’Inghilterra), la croce di Sant’Andrea,
(diagonale bianca in campo blu per la Scozia) e la croce di San
Patrizio (diagonale rossa in campo bianco per l’Irlanda).
Oggi l’Irlanda è una
repubblica indipendente, fatta eccezione per sei contee
settentrionali che formano la regione dell’Ulster.
Se Scozia e Galles reclamano
l’autonomia, non fanno altro che chiedere il ritorno a una fase
storica precedente — il caso è molto diverso rispetto a
quello dell’Italia Settentrionale, che non è mai stata
una nazione autonoma. La Scozia ha avuto sovrani famosi come Mary
Stuart, il cui nome è stato italianizzato in Maria Stuarda; è
stata una nazione indipendente fino al 1707 anche se c’era
stato lo stesso sovrano a capo dei due regni per circa un secolo, dal
1603, quando Giacomo VI di Scozia divenne anche Giacomo I
d’Inghilterra. Se gli indipendentisti scozzesi più
accesi si rifiutano di chiamare l’attuale regina Elisabetta II
hanno ragione: Elisabetta I non è mai stata regina della
Scozia ma solo dell’Inghilterra.
La storia del Galles e del suo
principato la ricorderò un’altra sera. Per ora volevo
solo chiarire che Inghilterra, Gran Bretagna e Regno Unito non sono
sinonimi.
Uno scozzese non è un
inglese, così come un abitante del Canton Ticino non è
un Italiano. E dare dell’inglese a un gallese è come
dare del veneto a un friulano o chiamare “piemontese” un
valdostano: si rischiano reazioni... diciamo "vivaci"!
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Signore e signori...
Stasera parliamo di ladies e
di gentlemen, di signore e signori. La lingua inglese ha tre
forme diverse per il nostro "signore" (più una
quarta, the Lord, per il Signore con la esse maiuscola) e
dobbiamo distinguere tre casi. Il primo è quello in cui
"signore" è accompagnato dal cognome, o nome o
cognome, della persona a cui ci rivolgiamo e di cui parliamo; il
signor Spencer è Mr Spencer.
Secondo caso: se ci si rivolge con
rispetto a un signore sconosciuto, si usa sir ad esempio in
espressioni come Excuse me, sir, "scusi, signore."
Sia nell’ambito militare che in quello scolastico si esige che
il soldato o lo studente usi sir ogni volta che si rivolge a
un superiore in grado, all’insegnante o al preside. In qualche
scuola questa richiesta disciplinare si è attenuata, ma l’uso
di sir è comunque segno di rispetto e buona educazione.
Infine, terzo caso, parlando di un
signore in terza persona, in frasi come "c’è un
signore alla porta," si usa gentleman: there’s a
gentleman at the door. Colloquialmente, gentleman è
spesso abbreviato in man — ma è un po’ la
stessa differenza che c’è tra "C’è un
signore che vuole parlarti" e "C’è uno (o "un
uomo" o "un tale") che vuole parlarti." In certi
contesti gentleman corrisponde al nostro "gentiluomo."
L’idea di nobiltà e di rettitudine che questa parola
porta con sé oggi si va perdendo, ma si dice ancora, ad
esempio, gentlemen’s agreement, accordo o patto tra
gentiluomini, per un’intesa basata sulla fiducia reciproca
nella correttezza altrui.
Come sentite ogni sera, il plurale
gentlemen si usa anche al vocativo, assieme a ladies,
per i signori ai quali ci si rivolge collettivamente.
Sir seguito dal nome e
cognome (ad esempio, Sir Alec Guinness) e Lord seguito
dal cognome (Lord Nelson) si usano al posto di Mr per le
persone che hanno i rispettivi titoli o per nascita (Lord) o
perché conferiti dalla Regina (Sir). Anche il vocativo
cambia: se vi rivolgete a un Pari d’Inghilterra non chiamatelo
Sir ma Milord. Per le consorti si usa Lady e il
vocativo Milady.
Voglio scusarmi con le signore in
ascolto se ho parlato solo dei maschi, nobili e no. Ci sono
complicazioni al femminile, per via delle discriminazioni tra
"signora" e "signorina" e preferisco parlarne a
parte, un’altra sera.
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HALLOWEEN e GUY FAWKES
E’ la vigilia dei santi e
quindi parliamo di eve o even, la veglia o vigilia (una
parola da cui viene evening, la sera) della festa di All
Hallows, Tutti i Santi. La combinazione delle due parola dà
Halloween. Le origini risalgono probabilmente a una festività
celtica che segnava la fine dell’anno agro-pastorale e l’inizio
dell’anno nuovo — un momento propizio per le divinazioni
che, a quanto pare, invocavano anche gli spiriti del male. Negli
Stati Uniti questa tradizione irlandese si è trasformata in
una festa laica, in cui la zucca vuota e intagliata come un faccione
mostruoso ricorda gli antichi demoni. Viene chiamata Jack O’
Lantern, il Jack della lanterna perché una candela la
illumina dall’interno.
Per dire Santo in inglese abbiamo
due parole. Una è di origine latina saint e la
adoperiamo davanti ai nomi: Saint Paul, St. Mary, ecc.
e anche per indicare gli eletti: conosciamo tutti When the
Saints go marching in. L’altra, hallow, di origine
germanica come l’aggettivo holy, oltre che in All
Hallows la troviamo come verbo nel Padre Nostro: hallowed be
Thy name Sia santificato il Tuo nome.
Il giorno successivo a All
Hallows è All Souls’ Day, letteralmente "il
giorno di tutte le anime" dei trapassati.
Pochi giorni dopo abbiamo una
festività britannica che da alcuni viene associata a Halloween
ma che ha tutt’altra origine. Si tratta del Guy Fawkes Day.
Nel 1605, un gruppo di cattolici tentarono di far saltare in aria il
palazzo del Parlamento a Westminster e in esso re Giacomo primo e la
sua famiglia, perché il re aveva rifiutato di varare norme di
legge più tolleranti verso i cattolici. La notte tra il 4 e il
5 novembre la Congiura delle Polveri (Gunpowder Plot) fu
scoperta, Guy Fawkes, un soldato, fu trovato nei sotterranei e sotto
tortura rivelò i nomi dei complici. Lo scampato pericolo
cominciò a essere celebrato ogni anno con una cerimonia di
ispezione rituale dei sotterranei del Parlamento, e poi con falò,
fuochi d’artificio e bruciando fantocci chiamati guys.
A parte il fatto che in entrambi i
casi si coglie l’occasione per festeggiamenti, soprattutto da
parte dei bambini, e a parte la vicinanza nel calendario, le due
ricorrenze sono diversissime per la loro storia e il loro
significato, e per questo confonderle è del tutto fuori luogo.
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Permette, signora?
La sera in cui ho parlato di come si
traduce "signore" in inglese ho promesso che avrei parlato
anche di "signora" e "signorina." Anche qui si
distinguono i tre casi. Il primo è quando segue il cognome o
il nome e cognome: tradizionalmente abbiamo [misiz]
(abbreviato Mrs) per una signora e Miss (che non è
un’abbreviazione e si scrive con la M maiuscola) per una
signorina. E’ stata proposta la forma Ms (simmetrica a
Mr e pronunciata [miz]) per
entrambe, ma finché non sarà entrata nell’uso
abituale ci sarà chi la interpreta come indicazione del fatto
che chi la usa è una donna divorziata, o convivente, o single
non più giovane. Perché cambi la lingua occorre che
cambino la mentalità e i costumi di chi la usa.
Il vocativo formale e educato è
madam in ogni caso; con miss, senza il cognome, ci si
può rivolgere, ma non è cortese, a una donna giovane
con mansioni che instaurano un rapporto di assistenza o di servizio —
ad esempio una cameriera o una commessa. Al plurale, quando ci si
rivolge a più persone, si usa ladies (è la terza
parola di ogni mia chiacchierata, dopo il Good evening
iniziale).
Parlandone in terza persona, una
signora sarà a lady anche se non è nobile: "una
signora vuol parlarti" A lady wants to talk to you.
Sempre più raro è l’uso di young lady per
specificare che si tratta di una signorina. A livello colloquiale,
senza tante cerimonie, si parla di a woman e a girl
(rispettivamente, "una donna" e "una ragazza")
invece di a lady. Lady è anche il femminile di
lord, per le donne che per eredità, nomina della regina
o matrimonio con un Lord o un Sir hanno un titolo
nobiliare. La parola si usa anche con riferimento alla Madonna: Our
Lady (Nostra Signora) è uno degli appellativi più
comuni.
La tendenza è quella di
giungere a un sistema che elimini del tutto la distinzione tra donna
nubile e donna sposata, così come avviene al maschile per
celibi e ammogliati. In questo sistema avremo: Mr al maschile
e Ms al femminile davanti al cognome; sir e madam
al vocativo; gentleman e lady con riferimento formale a
terze persone; man e woman per persone adulte, come
forma colloquiale non particolarmente cortese; boy e girl,
colloquialmente, per un ragazzo e una ragazza di cui si sta parlando.
Ma nemmeno questo sistema trova
tutti d’accordo, soprattutto perché woman, la
donna, è parola che deriva da man, uomo, e questo non è
accettabile da parte delle femministe.
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Problemi di altro genere
Più di una volta abbiamo
accennato al sessismo nella lingua. Il problema si pone in tutte le
lingue — anche per l’italiano ci sono state proposte di
riforma — ma in inglese appare particolarmente acuto sia per la
vitalità del movimento femminista americano sia per il ruolo
di questa lingua nel mondo.
La madre di tutte le battaglie
antisessiste è la tendenza a usare il maschile intendendo non
i maschi, ma maschi e femmine insieme: chi dice "ho tre figli"
può intendere tutti maschi, o una combinazione di maschi e
femmine; "ho tre figlie," invece, indica di sicuro tre
femmine. Così come "l’uomo è mortale"
significa "tutti, uomini e donne, sono mortali" — in
inglese, Man is mortal, con man, che proprio in
quest’uso generalizzante, è privo dell’articolo:
man (non *the man) is mortal.
L’inglese è molto più
ricco dell’italiano di parole di genere comune: worker,
ad esempio, è sia il lavoratore che la lavoratrice e student
è sia lo studente che la studentessa. Il problema può
sorgere quando per non ripetere la parola si usa un pronome; una
volta si usava il maschile HE, "egli," intendendo he
or she, ora bisogna usare entrambi i pronomi oppure
ricorrere al plurale. In inglese, infatti, abbiamo un solo pronome
they per i tre generi e questo risolve molti problemi che
restano invece irrisolti in italiano perché noi abbiamo ESSI e
ESSE. Invece di dire if a student has a problem, he must be helped
("Se uno studente ha un problema deve essere aiutato") si
può dire if students have problems they must be helped,
senza più il pronome maschile he, "egli," e
con tutte parole di genere comune o neutro.
Siccome però non sempre
possiamo usare il plurale, e siccome usare ogni volta he or she
è pesante, ci sono decine di proposte di pronomi non sessisti,
di genere comune. Una delle poche che hanno avuto un qualche seguito,
almeno finora, è quella che parte dai pronomi e aggettivi di
terza persona plurale: they them their theirs e toglie a tutti
il th iniziale; abbiamo quindi: ey per he or she;
em per him or her; eir per his or her; e
eirs per his or hers. Se qualcuno è interessato
o interessata alle altre proposte analoghe, alcune delle quali sono
veramente fantasiose, le può trovare anche su Internet
cercando gender — il genere. Tra parentesi in inglese si
dice sempre the Internet, con l’articolo davanti.
Ma sul genere c’è
ancora molto da dire. E’ un discorso che riprenderemo presto.
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Altri problemi del genere
Torniamo sulla guerra al sessismo
nella lingua inglese. Un ovvio bersaglio è la parola man
che si usa anche in molti composti, come il policeman e il
cameraman — cameraman si usa anche da noi per
indicare l’operatore televisivo, mentre in inglese indica anche
quello cinematografico e genericamente chiunque usi una camera,
un’apparecchiatura di tipo fotografico. Si insiste che questi
termini devono essere sostituiti da policeperson e
cameraperson, dato che non sono affatto professioni riservate
a uomini.
La prima volta che ho incontrato la
parola personhole ho fatto fatica a capirla; si tratta di
quello che si è sempre chiamato manhole, il tombino. E
finora non mi è ancora capitato di vedere uscire una donna da
un tombino ma naturalmente questo non vuol dire niente; in linea di
principio anche il tombino delle fogne deve essere unisex.
Il (o la) presidente di un comitato
o di un’assemblea si è per decenni chiamato chairman.
Qualora si trattasse di una donna, ci si rivolgeva a lei con Madam
Chairman. Alla Conferenza di Pechino sui Diritti della Donna, la
Signora Glendon, l’americana rappresentante della Santa Sede,
ha iniziato il suo discorso con Madame Chairperson. In ambito
universitario si sostituisce chairperson, che piace poco, con
Chair — c’è qualche direttore di
dipartimento che si presenta come Chair of Department. Questo
è possibile perché come in italiano la parola
"cattedra" indica sia il mobile che la docenza, lo stesso
avviene con l’inglese chair, la sedia.
Nemmeno la sostituzione sistematica
di man con person soddisfa completamente; c’è
chi ha notato, non saprei se sul serio o per scherzo, che person
finisce con son, il figlio, e quindi a cameraperson
dovremmo aggiungere cameraperdaughter — ove daughter,
la figlia, è il femminile di son. Di sicuro ha fatto
molto sul serio chi ha protestato contro history, la storia,
sostenendo che si debba insegnare la herstory, la storia vista
dal versante femminile. Il fatto che le parole latine Persona
e Historia fossero entrambe, guarda caso, femminili e non
c’entrano nulla con l’inglese son e his,
pare che non conti. Così come a volte parrebbe secondario che
una cameraperson donna abbia, a parità di competenza ed
esperienza, lo stesso stipendio e le stesse prospettive di carriera
di un uomo. L’importante è essere Politically Correct
nel linguaggio, anche se l’estremismo verbale presta facilmente
il fianco alla satira.
Un "dizionario del Politically
Correct English" è dedicato a una certa Donna Ellen
Cooperman che dopo un anno di battaglie legali nei tribunali dello
Stato di New York ha ottenuto di chiamarsi Donna Ellen Cooperperson.
Sarà vero?
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Boicottiamo gli Hooligan
In occasione della partita
Germania-Inghilterra di Italia ‘90, un giornale ha scritto che
si attendevano circa 40 mila hooligans tedeschi e 25 mila
inglesi. L’articolista sarebbe stato da denunciare per notizie
false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico; in
effetti ci si aspettavano decine di migliaia di tifosi
stranieri, non di teppisti violenti. Il pubblico si comportò
in modo esemplarmente corretto e a Milano non ci furono incidenti e
violenze di rilievo, a differenza di quanto è successo
recentemente a Roma.
Hooligan è il
teppista, il bullo di periferia violento — non il tifoso di
calcio che nella stragrande maggioranza dei casi, in Italia e
all’estero, è una persona civile che va allo stadio per
divertirsi e non per picchiare. La parola è di origine
incerta, anche se vari dizionari la fanno risalire a un secolo fa, e
precisamente al 1898. Una canzone parlava degli Hooligan, una
famiglia turbolenta di origine irlandese e c’era anche un
personaggio dei fumetti, Patrick Hooligan, ambientato in un quartiere
popolare di Londra a sud del Tamigi.
Gli stessi dizionari non fanno
assolutamente riferimento agli stadi sportivi, e in inglese infatti
si specifica football hooligans per quelli che da noi sono
hooligan e basta.
Sempre negli stessi anni c’è
stato un altro personaggio, questa volta reale, il cui cognome è
diventato un nome comune, il Capitano Charles Boycott. In inglese
boycott è sia il verbo boicottare che il
boicottaggio. Ex ufficiale dell’esercito britannico, si
trasferì in Irlanda dove si occupò di amministrare i
terreni di un nobile della contea di Mayo, in un’epoca di
carestie che aveva portato gli agricoltori a riunirsi in lega per
ottenere una riduzione degli affitti agrari. Quando nel 1880 egli non
solo si rifiutò di ridurre gli affitti ma cercò di
sfrattare gli affittuari, la Land League (Lega della Terra)
guidata dallo statista irlandese Parnell fece di lui la vittima del
primo boicottaggio: nessuna violenza, ma nessuno più gli
rivolse la parola, né tanto meno si prestò a svolgere i
lavori necessari nelle proprietà da lui amministrate.
Dopo aver cercato di far venire
altri lavoratori dall’Ulster, cedette e tornò in
Inghilterra. L’anno successivo fu promulgata dal primo ministro
Gladstone la Legge sulla Terra (Land Act, 1881), che istituiva
tribunali per stabilire quale fosse il canone equo, e le condizioni
degli agricoltori irlandesi migliorarono notevolmente. Al Capitano
Boycott rimase solo la magra soddisfazione di aver legato il suo nome
a una parola che dalla lingua inglese è poi entrata in molte
altre, compresa la nostra.
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Il Principe di Galles
Mantengo la promessa, fatta in una
trasmissione precedente, di parlare del Galles (in inglese Wales).
Nel 1283 re Edoardo I d’Inghilterra, conquistato il Galles
condannò a morte Davide III, l’ultimo principe del
Galles. Ne seguì una serie di lotte e un periodo di grave
incertezza politica che terminò nel 1301 quando il Re diede ai
nobili locali un Principe di sangue reale, erede al trono, nato nel
Galles, purché essi riconoscessero la sua sovranità.
Essi accettarono: si trattava di suo
figlio, il futuro Edoardo II, nato a Caernarvon, un castello del
Galles settentrionale. Da allora, e fino ai nostri giorni, all’erede
presunto al trono di Inghilterra viene di norma attribuito il titolo
di Principe di Galles. Alcuni tra i Principi di Galles ebbero un
ruolo importante nella vita politica britannica — in
particolare il figlio di Giorgio III che divenne principe reggente a
causa della malattia mentale del padre, e poi gli succedette come
Giorgio IV.
Il Galles ha sempre mantenuto una
certa dose di indipendenza dall’Inghilterra malgrado i quasi
sette secoli di unione. Il risultato del recente referendum sarà
di accentuare l’autonomia per una serie di questioni politiche
importanti. All’estero ci si accorge del Galles soprattutto per
la sua squadra nazionale di calcio, distinta dalle altre squadre
britanniche (quella inglese, quella scozzese e quella dell’Irlanda
del Nord). In realtà i circa tre milioni di Gallesi conservano
un forte senso della loro identità nazionale e in molti hanno
cercato di mantenere vive le tradizioni locali e soprattutto la
lingua, una delle varietà britanniche della lingua celtica —
altre varietà le troviamo in Cornovaglia, in Scozia e in
Irlanda.
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Coppie sull’orlo di una crisi etimologica
I vocaboli inglesi sono per la
maggior parte di origine germanica, ma ce ne sono molti di origine
latina, spesso entrati in inglese attraverso il francese. Per questo
motivo ci sono dei doppioni che però non sono quasi mai
sinonimi. Si cita spesso, ma proprio perché è
eccezionale, il caso di wonderful e marvellous, che
significano entrambi "meraviglioso" e per i quali è
difficile trovare delle differenze di significato e di uso. Di solito
le parole si specializzano e assumono significati diversi.
Prendiamo il caso di liberty
e freedom, la libertà. Liberty è il
concetto di libertà come valore e ideale. La Goddess of
Liberty, letteralmente la "Dea della Libertà" è
quella raffigurata nella famosa statua nella baia di New York.
Freedom è invece la libertà nelle sue
espressioni specifiche e concrete: la libertà di stampa è
freedom of the press, e Oh Freedom è un canto
famoso degli schiavi americani di origine africana. Le due parole non
sono sinonime e quindi non sono intercambiabili.
Un altro caso riguarda il tavolo. La
parola di etimo germanico, desk, sorella della parola tedesca
Tisch, nell’inglese d’oggi si è
specializzata per indicare il tavolo su cui si scrive, la scrivania,
lo scrittoio o il banco di scuola. Negli altri casi si usa una parola
che deriva dal latino tabula attraverso il francese table,
e che si scrive come in francese ma si pronuncia [teibl].
Una libreria è un bookshop
se vende libri, oppure un bookshelf o bookcase se si
parla dello scaffale o dell’armadio per i libri. La parola
neolatina library è invece la biblioteca, dove i libri
si consultano o si prendono a prestito, e ora anche la collezione di
programmi o di altre routine nei materiali informatici.
Abbiamo già parlato in
un’altra occasione delle coppie come ox e beef,
ossia quelle in cui l’animale ha il nome anglosassone e la
carne il nome derivato dal francese. Un altro caso interessante, che
riguarda una serie di parole, è quello delle parti del corpo,
che hanno nomi germanici; gli aggettivi corrispondenti, che si usano
soprattutto nel linguaggio medico, sono di origine latina: heart
è "il cuore" e cardiac è "cardiaco;"
liver è "il fegato" e hepatic è
"epatico;" lungs sono "i polmoni" e
pulmonary è "polmonare," e così via.
Conclusione: le risorse a cui può
attingere l’inglese le sfrutta tutte, ma evitando doppioni e
sovrapposizioni.
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Com-prendere, ap-prendere, sor-prendere...
Una difficoltà per chi
apprende la lingua inglese è costituita dai cosiddetti phrasal
verbs o verbi frasali, quelli formati da un verbo e da una
preposizione o particella avverbiale. Il verbo look significa
"apparire, sembrare:" he looks tired, "sembra
stanco, ha l’aspetto stanco;" significa anche "guardare"
nelle forme imperative: look, Lucy’s here,
"guarda, c’è qui Lucy." Ma he was looking
at her photo significa "guardava la sua foto, la fotografia
di lei," mentre he was looking for her photo vuol dire
che "cercava la sua foto." look, look at,
look for e look after (di cui diremo tra poco) sono
quattro verbi diversi, a cui possiamo aggiungere look into,
look up e vari altri.
Anche in italiano abbiamo i verbi
frasali. La differenza è che la particella è prima ed è
unita al verbo, invece di essere dopo e separata. Prendiamo ad
esempio "condurre produrre sedurre addurre dedurre tradurre
indurre e introdurre." Ognuno di questi verbi ha un suo
significato che non è la somma dei suoi componenti.
Altrimenti, INDURRE e INTRODURRE significherebbero entrambi "portare
dentro;" in realtà sappiamo che si può solo
INDURRE IN ERRORE e INDURRE IN TENTAZIONE, mentre INTRODURRE ha vari
altri sensi e usi. E come CIRCOSCRIVERE non vuol dire SCRIVERE
ATTORNO (pensiamo la significato di CIRCOSCRIVERE UN INCENDIO) così
look after non vuol dire "guardare dopo" ma
"prendersi cura di, badare a." The baby-sitter is
looking after the children "la baby-sitter si sta occupando
dei bambini."
L’errore è perciò
quello di tentare di imparare i verbi frasali cercando di dare senso
alle parti che li compongono, invece di impararli come unità a
sé stanti, e nel loro contesto. Infatti anche i frasali, come
tutti i verbi, possono avere più di un significato. Pensate al
diverso valore di “iscrivere” nelle frasi “un
bambino iscritto a scuola” e “un triangolo
iscritto in un cerchio”. Il titolo di un film di qualche
anno fa giocava sui molti significati di take off: il
decollare degli aeroplani, il togliersi gli abiti, il fare
l’imitazione di qualcuno, e altri ancora.
Paradossalmente, capisce meglio che
cos’è il make up (il trucco, nel senso di "uso
dei cosmetici") chi ignora i significati di make e di up
come parole distinte, e se li sa non ne tiene conto.
Le lingue sono ricche di questi
paradossi — e meno male, se no non avrei gran che da dirvi.
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Casa, dolce casa
Un celebre romanzo di E.M. Forster,
Howards End, è stato tradotto in italiano, anche nella
versione cinematografica, come “Casa Howard”. Tutti i
traduttori hanno avuto difficoltà a rendere certi passi del
testo in cui il discorso faceva leva sulla differenza tra house,
la casa come edificio o come casa d’altri, e home, la
casa come centro degli affetti e come casa propria, ossia del
soggetto della frase.
Se dico I’m going home
voglio dire che "io sto andando a casa mia" e she’s
going home "lei sta andando a casa sua;" se io vado a
casa sua I’m going to her house e se invito qualcuno a
casa mia gli dico come to my house (il soggetto sottinteso di
come è you e per questo soggetto la mia è
una house, non home). Espressioni tipiche in questo
senso sono make yourself at home ("fa’ come se
fossi a casa tua") e he felt perfectly at home there, "là
si sentiva perfettamente a suo agio." Quella che uno sente come
la propria città, quella degli affetti più cari, è
la home town: la sua città è Parma, her home
town is Parma.
Home è anche il
contrario di foreign, estero; se il Foreign Office è
per gli inglesi il Ministero degli Esteri, lo Home Office è
quello degli interni; e home trade, il commercio nazionale, si
contrappone a foreign trade, il commercio con l’estero.
Nel baseball, home base è
la base di partenza e arrivo e su Internet la home page è
la pagina iniziale con cui un sito si presenta al visitatore e dalla
quale si accede alle altre. Home ha quindi queste connotazioni
di "accoglienza" e di "rientro a casa propria."
Nei composti il valore può
cambiare: per esempio homework è il compito a casa per
lo studente, mentre housework è il lavoro della
massaia, le faccende domestiche.
Tornando a “Casa Howard”,
il problema di una resa adeguata di home è stato in
parte risolto dal fatto che mentre la parola inglese è neutra,
la parola “casa” è femminile e quindi è
facile accentuare gli aspetti femminili e materni della casa,
generatrice di affetti e accogliente. Home, Sweet Home –
casa, dolce casa.
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Specialità locali
Dal Gorgonzola al Chianti, molti
cibi e bevande prendono il nome dalla località di origine. La
città di Amburgo ha dato al mondo, oltre ai galletti
amburghesi, gli hamburger, che sono diventati il cibo rapido,
o fast food, per eccellenza. Sono fatti di carne macinata e
quindi il prosciutto, ham, non c’entra per nulla –
o c’entra come il “vero” nel nome della città
di Verona.
Tuttavia la coincidenza ha fatto sì
che la parola venisse divisa in ham e burger e che di
lì si partisse per formare nuove parole composte, come
cheeseburger, al formaggio, fishburger, a base di
pesce, ecc. A questo punto si pone il problema di come chiamare gli
hamburger normali, quelli di carne, ma è stato risolto
o con beefburger o dando loro dei nomi di fantasia, spesso
sulla base del nome della catena di fast food o di qualche
altra caratteristica.
E’ curioso come in un paese
repubblicano come gli Stati Uniti si usi spesso la parola king
per oggetti di dimensioni superiori al normale – di qui i king
burger per le porzioni abbondanti. Apriamo una parentesi: negli
alberghi americani, i letti king size sono letti matrimoniali
smisurati, molto più grandi dei nostri; la dimensione
leggermente inferiore, ma sempre più grande del normale, è
detta queen size, la misura da regina.
Che cosa mettiamo sugli hamburger?
A seconda dei gusti, il ketchup, una parola di origine malese,
oppure la Worcester sauce – [wusta] è la
pronuncia inglese della città che ha dato nome alla salsa, e
che da noi viene detta [worsesta] o in svariati altri modi. Altre
città in cui la sillaba ce della terminazione cester
non si pronuncia sono Gloucester [glòsta]
e Leicester [lèsta] –
a Leicester si sono svolti anni fa i campionati mondiali di
ciclismo e gli errori di pronuncia erano all’ordine del giorno.
Una curiosità storica: questi
nomi di città, così come quelli di Chester,
Manchester, Winchester, Rochester e altri
derivano dal latino CASTRA, che era l’accampamento militare.
Tornando alla Worcester sauce:
sarà bene che, come sempre e comunque, chiediamo la salsa che
vogliamo così come la chiedono tutti gli altri. Meglio un
inglese adattato alle circostanze che dover mangiare quello che non
ci piace.
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Conventuali di tutti i colori
Un episodio tragico e oscuro della
storia recente d’Italia ha avuto il suo epilogo sotto uno dei
ponti di Londra, il Blackfriars Bridge. Ma chi sono questi
"frati neri?" Nell’uso popolare e tradizionale
inglese sono i Domenicani, dal cui convento situato nei pressi ha
preso nome il ponte. Non sono i soli a essere conosciuti per il
colore dominante dell’abito: i White Friars (frati
bianchi) sono i Carmelitani e i Grey Friars, i frati grigi,
sono i Francescani.
Queste forme popolari sono segno di
una presenza radicata tra la gente, un modo per chiamare questi
religiosi con parole semplici e familiari invece delle parolone di
origine latina così estranee alla sensibilità inglese
(Dominican, Franciscan, Carmelite).
Nella toponomastica della Grande
Londra ci sono tanti riferimenti di carattere religioso, a cominciare
dall’altra city che insieme alla City of London è
stato uno dei nuclei attorno ai quali è cresciuta la Londra
attuale: parlo della City of Westminster. Westminster è
il "monastero dell’ovest," perché in effetti
si trova a ovest dell’antica Londra. Tra Londra e Westminster
c’erano boschi, prati e paludi. Una delle ipotesi sull’origine
di Soho, il nome di quella che adesso è la zona dei
locali notturni, è che fosse un richiamo usato dai cacciatori.
A Westminster troviamo oggi i
palazzi sedi della famiglia reale, del Parlamento, del Primo Ministro
e dei principali ministeri. Il cuore storico è la Westminster
Abbey, l’abbazia in stile gotico che assieme alle
cattedrali di Canterbury e York è una delle sedi
principali della Chiesa d’Inghilterra e che è nota
soprattutto per le cerimonie che riguardano i Reali d’Inghilterra,
dalle incoronazioni ai matrimoni ai funerali. Durante il funerale
della principessa Diana, i telecronisti italiani hanno più
volte chiamato l’abbazia "cattedrale." Abbey e
Cathedral ("Abbazia" e "Cattedrale") non
sono mai stati sinonimi, ma nel caso particolare la confusione deve
essere assolutamente evitata.
Infatti la Westminster Cathedral,
la cattedrale di Westminster, è la cattedrale cattolica
di Londra; si trova nello stesso quartiere, a non molta distanza
fisica dall’Abbazia ma separata da una Riforma protestante.
Nella City of London c’è
invece una cattedrale anglicana, St Paul’s Cathedral, la
cattedrale di San Paolo; è un imponente edificio neoclassico,
una delle chiese più grandi del mondo.
Un’altra cattedrale, molto
meno famosa, si trova a sud del Tamigi; tre cattedrali e un’abbazia
per una città che è nata non da un centro ma da molti,
che pian piano si sono fusi in una delle metropoli più
interessanti, e nella quale ritorneremo.
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Ma che fai?
Il verbo italiano "fare" è
tradotto in inglese in molti modi, a seconda che sia seguito da un
complemento oggetto (ossia dal nome della cosa che viene fatta) o da
un altro verbo — in espressioni come "fammi vedere le
fotografie" o "farò lavare l’auto."
Cominciamo dal primo caso, nel quale
al verbo “fare” italiano corrispondono anzitutto i verbi
do e make, ma anche molti altri. Ad esempio, "fare
attenzione" e "fare una visita" sono pay attention
e pay a visit, con il verbo pay che in altri contesti
significa "pagare." Spero che nessuno lo trovi
particolarmente strano: in italiano diciamo anche "prestare
attenzione" come se l’attenzione fosse qualcosa che
vogliamo indietro dopo averla consegnata per qualche tempo agli altri
— come se questo “prestare” fosse lo stesso di
"prestare denaro."
Qual è la differenza tra do
e make? Molti testi presentano delle "regole" che
però funzionano poco e male, come quelle che distinguono tra
attività intellettuali e attività pratiche, a cui
corrisponderebbero rispettivamente do e make. Make
è certamente il fare materiale, il fabbricare e costruire:
made in Italy, prodotto in Italia, è un’espressione
che gode di ampio prestigio nel mondo.
Mother is making a cake, la
mamma sta facendo una torta, è un esempio che viene dato
spesso a questo proposito. E in effetti, la torta prima non c’era
e dopo il lavoro della mamma c’è. A tutt’altro
livello troviamo frasi come let us make man in our image
"facciamo l’uomo a nostra immagine" e Maker è
uno degli attributi di Dio in quanto creatore.
Ci sono però dei casi che
possono lasciare perplessi: make money non è
"fabbricare denaro" ma "far soldi, arricchirsi;"
e in TO make progress, "far progressi," può
non esserci alcun riferimento a attività materiali — nel
senso che uno può far progressi nella conoscenza di una
materia o nella comprensione di qualche problematica. Per converso,
TO do business, "fare affari," può essere
un’attività pratica, a volte frenetica.
Un’altra coppia di esempi può
essere chiarificatrice: se fate un esercizio e commettete degli
errori, you do an exercise and you make mistakes in it. Come
mai due verbi diversi se l’attività è
intellettuale in entrambi i casi? La differenza è che un
esercizio è già pronto, preparato da altri —
eventualmente è un insegnante che makes an exercise nel
senso che lo redige, lo prepara; ma gli sbagli sono il frutto della
creatività di chi li commette.
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Responsabilità e condivisione
Quando ho cominciato a occuparmi di
inglese commerciale, molti anni fa, mi sono accorto di un
fraintendimento ricorrente da parte di persone che, entrate in
rapporto di affari con aziende britanniche di grandi dimensioni, si
stupivano che queste fossero solo delle società a
responsabilità limitata. Fonte dell’errore era il
limited, abbreviato Ltd, in fondo al nome della ditta, che
loro assimilavano al nostro S.r.l., Società a Responsabilità
Limitata, un tipo di società poco adatto alla gestione di
grandi imprese.
Ora dovrebbe essere noto che Ltd
corrisponde più da vicino al nostro S.p.A., società per
azioni, così come l’americano Incorporated,
abbreviato Inc. Più da vicino ma non esattamente, perché
mentre da noi il codice elenca vari tipi di società, dalla
società di fatto alla Società per Azioni, e la scelta è
precostituita, il codice inglese distingue solo tra la partnership,
la società di persone, e la company, la società
di capitali. E’ poi compito dell’atto costitutivo e dello
statuto precisare come sono regolati i rapporti tra i soci,
distribuiti gli utili, e così via. Nella maggior parte delle
companies private la responsabilità dei soci è
limitata alle quote azionarie possedute — di qui il Limited.
Da qualche tempo abbiamo anche le
plc — Public Limited Companies come la British Telecom.
Un’azione si chiama share,
ed è la stessa parola che in un altro contesto indica la quota
di pubblico che si sintonizza su una certa trasmissione, come
percentuale totale del pubblico di ascoltatori o spettatori.
L’azionista è colui che tiene azioni o shareholder.
Share è anche un verbo che si usa in frasi come share
an opinion, "condividere un’opinione" e share
a room, "dividere una stanza con qualcuno."
Un’altra parola interessante,
tornando sull’argomento degli affari, è proprio la
parola business. In realtà le parole sono due: una è
sempre singolare con valore collettivo e si riferisce agli affari;
anche il detto business is business, "gli affari sono
affari," ci ricorda che business è singolare e
vuole il verbo is. Non condivido il concetto, ma
linguisticamente è un esempio interessante. L’altra
parola business vuole dire "azienda, impresa" e
quindi quando occorre ha il plurale regolare businesses.
Speriamo di essere in molti a poter dire new businesses have
opened in our area, "nella nostra zona si sono aperte delle
nuove aziende."
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Chi te lo fa fare?
L’altra sera abbiamo parlato
del verbo fare seguito da complemento oggetto, in espressioni come
"fare la spesa" do some shopping, "fare un
abito" make a dress, "fare attenzione" pay
attention. Questa sera vediamo di dire qualcosa su "fare"
seguito da un altro verbo, in frasi come "far vedere qualcosa a
qualcuno" o "far lavare l’automobile." Vorrei
evitare spiegazioni grammaticali, ma una distinzione è
necessaria e cercherò di chiarirla con un paio di esempi. Se
dico che una ditta "fa lavorare molti dipendenti," quei
dipendenti lavorano; se dico che "fa lavorare molti capi di
abbigliamento," quei capi non lavorano ma sono lavorati. Nel
primo caso, "lavorare" ha valore attivo, nel secondo caso è
passivo. Un altro esempio lo uso solo quando gli studenti hanno ben
chiaro che non intendo offendere nessuno: ed è la differenza
tra "vi faccio studiare l’inglese" dove studiare è
attivo, e "vi faccio studiare da uno psichiatra," dove
studiare è passivo — in questo caso gli studenti non
studiano ma sono studiati.
Per ora ci occuperemo solo del
"fare" seguito da infinito con valore attivo; in inglese
bisogna ulteriormente distinguere se questo "fare" abbia il
valore di "permettere," di "costringere," di
"convincere" o altro. Nel primo caso, "permettere,"
si usa Let: "fammi vedere le tue foto" let me see
your photos — "fammi sapere quando arrivi" let
me know when you arrive.
Nel secondo caso, "causare o
costringere" si usa make: "mi ha fatto perdere
tempo" he made me waste my time "Solo tagliare le
cipolle lo fa piangere" Only cutting onions makes him cry.
Si noti che il verbo che segue let e make è alla
forma semplice, ossia all’infinito senza il to: he
made me waste my time (non *to waste), only
cutting onions makes him cry (non *to cry).
Nel senso di "ottenere e
convincere" si usa GET; "mi ha fatto accettare il
suo invito" she got me to accept her invitation; "la
mamma ha fatto fare la spesa a Mary" mother got mary to do
the shopping. Qui avrete notato che invece l’infinito è
con il to: got me to accept, got mary to do. Degli
altri casi parleremo un’altra volta, se no ci complichiamo
troppo la vita.
Desidero concludere invece con un
cenno alla parola shopping che stasera ho usato in un paio di
esempi. Da noi la adoperiamo per le spese nei negozi del centro,
soprattutto per regali e generi voluttuari. Per un inglese going
shopping vuol dire semplicemente andare a far le compere,
comprese quelle per la spesa quotidiana di cibo e di articoli per la
casa. È il solito uso, sempre più frequente da noi, di
parole inglesi per ciò che dà un certo tono e di quelle
italiane per le occupazioni quotidiane, senza tener conto più
di tanto del significato originale.
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La pronuncia di O
Per una serie di vicende storiche
che qui non è il caso di analizzare, molte parole inglesi
scritte con la lettera o si pronunciano con la stessa vocale
che troviamo in parole scritte con la u come bus,
l’autobus. Ci sono in questo gruppo parole molto frequenti,
come il verbo"venire," come, il participio passato
di do, done "fatto," mother e brother,
"madre e fratello," love, "l’amore"
e il verbo "amare," e numerose altre. Un caso particolare
riguarda le parole son e sun: scritta con la o è
"il figlio," scritta con la u è "il
sole," ma la pronuncia è identica. A queste parole
bisogna aggiungere quelle che ne derivano, come lover, lovely
e lovable da love.
Ho fatto questa premessa per
segnalare un errore frequente nella pronuncia di parole come company
la società in senso commerciale o la compagnia in genere, del
nome della città di Londra, London, e di comfort
che si usa spesso per i servizi, le attrezzature e le comodità
offerte da un albergo o da altre strutture ricettive. Ripeto che la
pronuncia inglese di comfort ha nella prima sillaba la stessa
vocale di much love, e sottolineo che prima della F in inglese
c’è una M e non una N come nel finto inglese degli
opuscoli turistici.
Un’altra parola di questo tipo
è cover, nota da noi soprattutto nel senso di
"copertina delle riviste" e nei composti cover girl,
la "ragazza di copertina," e cover story, l’articolo
più importante richiamato dal titolo sulla prima pagina. Da
cover deriva il verbo TO discover, "scoprire,"
e da questo Discovery, che è il nome di una delle
navicelle spaziali americane.
Un’altra sera ho parlato di in
front of per dire che non significa "di fronte" ma
"davanti:" the seat in front of you è "il
posto davanti a voi" (la frase la sentiamo in aereo quando ci
viene indicato dove possiamo mettere il bagaglio a mano). Qui la
ripeto per far notare la pronuncia di front.
Certamente ci troviamo di fronte a
una difficoltà di pronuncia, nel senso che la grafia non ci
aiuta: cover e lover si pronunciano come abbiamo detto,
mentre Dover, la città delle bianche scogliere, e
rover, negli scout e nella Land Rover si pronunciano
con il dittongo [ou]. In story,
che abbiamo detto a proposito di cover story, la pronuncia
della o è [o:] (o lunga) e tutti questi suoni vocalici sono
diversi dalla pronuncia più frequente della lettera o
in parole come stop o non-profit. Questi problemi li
ritroviamo per tutte le vocali inglesi, e ci sarà ancora molto
da dire.
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In attesa della Natività
E’ tempo di Avvento e
dedicheremo alcune trasmissioni al Natale così come si
presenta nella lingua e nella tradizione inglese. Cominciamo proprio
dalla parola Christmas, il Natale, una parola che conosciamo
anche attraverso canzoni molto popolari negli Stati Uniti come White
Christmas, Bianco Natale. Christmas si compone del
nome di Cristo, Christ, e del suffisso -mas che ha la
stessa origine della parola Mass, "la messa," ma si
scrive con una S sola e significa "festività."
Troviamo questo suffisso anche per altre ricorrenze come Candlemas,
la Candelora (la festa della Purificazione, il 2 febbraio) e
Michaelmas, San Michele — 29 settembre — data
tradizionale dei trasferimenti nel settore agro-pastorale e usata
anche per indicare l’inizio dell’anno scolastico e
accademico. In varie istituzioni il semestre autunnale si chiama
tuttora Michaelmas Term.
Tornando al Natale, o meglio al suo
nome inglese, notiamo per prima cosa che il nome di Cristo, Christ
[kraist], nelle parole composte e
derivate si pronuncia o [krist],
come in Christian, "cristiano," e Christianity,
il "cristianesimo," o [kris]
senza la [t] in Christmas, Christendom, "la
Cristianità," e christen "battezzare."
Esistono anche le parole di origine greca baptize e baptism
per "battezzare" e "battesimo," ma si
preferiscono christen e christening, rispettivamente.
Il “nome di Battesimo” è il Christian name
ma nei documenti ufficiali questo termine non si può più
usare perché non è politically correct nei
riguardi dei non-cristiani.
Avrete forse notato una divergenza
tra italiano e inglese: da noi la Cristianità è
l’insieme dei cristiani di tutto il mondo e dei paesi che essi
abitano; in inglese questo è il Christendom, con lo
stesso suffisso che troviamo in kingdom il "regno"
da king "re:" è il territorio, in senso lato,
su cui regna il Cristo. La parola Christianity indica invece
il "cristianesimo," la religione cristiana nelle sue varie
confessioni.
E a questo proposito sarà
utile sapere che professarsi cristiani, ad esempio in Irlanda,
dicendo I am a Christian significa avere molte probabilità
di essere ritenuti protestanti, mentre un cattolico di solito si
dichiara tale: I am a Catholic. Molti inglesi usano poi Roman
Catholic, "cattolico romano," proprio perché un
tratto caratteristico è la fedeltà al Papa e alla
Chiesa di Roma.
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Riesco a farmi capire?
Ritorniamo sul verbo "fare"
e sulle sue traduzioni in inglese per occuparci del caso in cui è
seguito da un altro verbo, all’infinito, con significato
passivo. Si tratta di frasi come "ho fatto lavare l’automobile:"
il verbo lavare ha valore passivo perché l’automobile
non lava ma viene lavata. Il contrario avviene in "ho fatto
partire l’automobile" dove l’automobile parte e
quindi il verbo partire è attivo. Una frase come "ho
fatto lavare l’automobile" oppure "ha fatto riparare
il tetto" richiede che "fare" sia tradotto con la
forma appropriata del verbo HAVE oppure GET, a cui
seguono, nell’ordine, l’oggetto che riceve l’azione
e il participio passato del verbo che corrisponde all’infinito
italiano:
I had my car
washed, He got the roof mended
Qui è importante l’ordine
delle parole: they have cleaned their room vuol dire che
"hanno pulito la loro camera;" they have their room
cleaned vuol dire che la fanno pulire da qualcun altro.
Una frase che in italiano è
ambigua, come "ho fatto avviare il motore" in inglese ha
due traduzioni: I have started the engine se il motore l’ho
avviato io, e I have had the engine started se l’ho
fatto avviare da qualcun altro.
Un caso ancora diverso riguarda il
verbo "fare" alla forma riflessiva, in frasi come "farsi
capire" o "farsi rispettare;" in inglese abbiamo il
verbo make seguito dal pronome riflessivo e dal participio
passato dell’altro verbo. "Riesco a farmi capire in
inglese" è I can make myself understood in English,
e "si fa amare e rispettare da tutti i suoi scolari" è
she makes herself loved and respected by all her pupils.
Infine ci sono casi in cui abbiamo
verbi specifici che traducono in inglese il nostro "fare"
seguito da infinito; uno l’abbiamo già visto, ed è
quello di start per "far partire." Un altro caso è
quello di "far pagare" che in molti casi corrisponde al
verbo inglese charge: "Quanto fanno pagare per entrare?"
How much do they charge for the entrance?
Un altro esempio: The hotel charged me 20 pounds for the
extras, "l’albergo mi ha fatto pagare 20 sterline per
gli extra."
Spero di essere riuscito a dipanare,
almeno in parte, una matassa molto ingarbugliata; ho fatto del mio
meglio — I have done my best.
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Affari, notizie e informazioni
Sere fa parlavamo di società
e imprese e ho usato la parola businesses, al plurale, per
dire "le aziende;" ricordavo anche il detto business is
business, "gli affari sono affari," che non mi piace
come concetto ma che illustra molto bene il fatto che business
in questo senso è singolare, seguito dal verbo is,
anche se corrisponde a un plurale in italiano "affari."
Ci sono altri casi del genere:
parole come information, le "informazioni," news,
le "notizie" e advice, i "consigli:"
This information is very useful
"Queste informazioni sono molto utili"
This is very
good news "Queste sono ottime
notizie"
Your advice was precious "I
tuoi consigli sono stati preziosi"
Di solito possiamo usare questi
singolari con valore collettivo anche quando parliamo di
un’informazione, di una notizia o di un consiglio al singolare.
Se mi viene data un’informazione, posso dire Thank you for
the information. Se proprio occorre specificare che ci riferiamo
a elementi singoli possiamo ricorrere a a piece of information,
"un’informazione," a piece of news, "una
notizia," a piece of advice, "un consiglio." Si
ricorre a queste forme quando si specifica il numero: "Ho due
notizie per te" I’ve got two pieces of news for you.
L’opposto avviene con people,
"la gente, le persone," che è sempre plurale in
questo senso. "Molta gente era in ritardo a causa della neve"
Many people were late because of the snow — dove many
e were sono forme plurali che concordano con people.
People si può adoperare con un numero: There were
ten people in the waiting-room "c’erano dieci persone
nella sala d’attesa;" qui si può anche adoperare
persons ma è meno frequente: there were ten
persons... Person è il singolare di people:
"conosco molte persone, ma una sola ti può aiutare"
I know a lot of people, but only one person can help you.
Ci sono dei singolari con valore
collettivo, come Parliament e police; sono usati al
singolare quando li si descrive nel loro complesso: "il
parlamento britannico si compone della Camera dei Comuni e della
Camera dei Lord" The British Parliament consists of the House
of Commons and the House of Lords. Quando invece ci si riferisce
all’attività dei componenti si usa il plurale: "la
polizia ha arrestato un delinquente pericoloso" The police
have arrested a dangerous criminal — have arrested,
non has.
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Un nome al giorno
I nomi dei giorni in inglese si
richiamano alla mitologia germanica, ma con curiose affinità
con i nostri perché in buona misura modellati sull’uso
dei Romani, i quali a loro volta avevano ereditato l’uso dei
Babilonesi. Cominciamo con la domenica, che nell’uso inglese è
il primo giorno della settimana. Nella nostra lingua è la dies
dominica, il giorno del Signore, in inglese, come in Latino, è
il giorno del sole, il Sunday.
Poi viene il lunedì o giorno
della Luna — in inglese Moon, da cui Monday, con
una variazione nella vocale di Moon. Il giorno del primo
sbarco sulla luna, nel 1969, negli Stati Uniti era lunedì (da
noi, per la differenza di fuso orario, era già martedì)
e quel giorno venne proclamato il Moon Day.
Il dì di Marte è
dedicato a un dio guerriero della mitologia nordica, Tiw, da
cui Tuesday. Tiw era uno dei figli di Odino o Woden,
in antico inglese, da cui Wednesday, anche qui con una
variazione nella vocale. La somiglianza con Woden si coglie di
più nella grafia, visto che nella pronuncia la prima D di
Wednesday è muta. Il dì di Giove tonante è
Thursday, il giorno di Thor, il dio del tuono che in
inglese si chiama infatti thunder.
Arriviamo a venerdì, che
anche in inglese è dedicato a una donna, Frigg la
moglie di Odino, dea dell’amore e della bellezza, come Venere;
da Frigg a Friday c’è una normale
evoluzione della vocale [i] in [ai].
Saturday, il sabato, viene da
Saturn, Saturno, e anche qui è stata preservata la
mitologia romana. Noi abbiamo chiamato questo giorno “sabato”
dall’ebraico Shabbat (che deriva da shavat,
"smettere," o "astenersi").
Il martedì grasso, ultimo
giorno di carnevale, si chiama Shrove Tuesday, da un verbo
shrive che significava "far penitenza, confessarsi;"
il cibo tradizionale sono le frittelle, fatte con le uova e il grasso
proibiti durante la Quaresima.
Ash Wednesday e Palm
Sunday corrispondono esattamente al mercoledì delle Ceneri
e alla Domenica delle Palme.
Il giovedì santo è
detto anche Holy Thursday ma più tradizionalmente
Maundy Thursday, dove maundy viene da mandatum:
"Mandatum novum do vobis" ("vi do un comandamento
nuovo;" dal Vangelo di Giovanni al cap. 13).
I nomi dei giorni in inglese sono
tutti neutri, in italiano sono sei maschili e uno femminile, con
buona pace della logica. I nomi inglesi dei mesi sono del tutto
simili ai nostri e se da un lato sono quindi meno interessanti,
dall’altro sono molto più facili da imparare.
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Avere o non avere...
TO BE OR NOT TO BE... no, non vi
recito l’Amleto, ci mancherebbe altro, ma vi parlo dei tanti
usi del verbo TO BE e in particolare di quelli in cui non corrisponde
al nostro verbo "essere." Cominciamo con l’aver fame,
sete e sonno: I AM HUNGRY, "ho fame," I AM THIRSTY, "ho
sete," I AM SLEEPY, "ho sonno."
E poi aver freddo o caldo: I’M
COLD, "ho freddo," ARE YOU WARM? "Hai abbastanza
caldo?" ARE YOU HOT? "Hai troppo caldo?" — Apro
una parentesi per sottolineare, attraverso i due ultimi esempi, che
in inglese abbiamo due aggettivi per caldo: WARM è il caldo
che fa piacere, il tepore confortevole; HOT è il caldo
eccessivo, fastidioso, almeno se stiamo parlando di clima. Infatti se
uno ama il tè ben caldo, la HOT WATER, "l’acqua
bollente," è tutt’altro che sgradita. Se vi dicono
che un cibo è HOT prendete in considerazione l’ipotesi
che HOT non voglia dire "bollente" ma "piccante"
— ad esempio un piatto indiano col CURRY.
Ma torniamo al nostro TO BE che
significa avere anche in TO BE AFRAID, "avere paura:"
ARE YOU AFRAID OF THE DARK? "Hai paura del
buio?" WHO’S AFRAID OF THE BIG BAD WOLF? "Chi
ha paura del grosso lupo cattivo?" Ma anche qui c’è
un altro uso: se cercate una persona e la sua segretaria vi dice I’M
AFRAID HE’S OUT intende dire "Mi dispiace ma non c’è."
Anche l’aver ragione o aver
torto si esprimono con TO BE: YOU ARE RIGHT, "hai ragione,"
HE WAS QUITE WRONG, "aveva completamente torto."
Soprattutto all’imperativo, TO
BE seguito da un aggettivo può tradurre FARE: BE GOOD, "fa’
il bravo," DON’T BE SILLY "non fare lo sciocco,"
ARE YOU BEING DIFFICULT? "Stai facendo il difficile?"
Un altro uso importante è
quello di TO BE seguito dall’infinito di una altro verbo; in
questo caso c’è un’idea di obbligo, che deriva da
una norma o da un accordo. Vi do qualche esempio: THE ROOMS ARE TO BE
VACATED BEFORE TEN "Le camere devono essere lasciate libere per
le dieci;" THESE DOORS ARE NOT TO BE LOCKED "queste porte
non devono essere chiuse a chiave;" I AM TO SEE MY SISTER AT
FIVE "devo trovarmi con mia sorella alle cinque." Tipico è
l’uso da parte dei dottori nelle prescrizioni: YOU ARE TO TAKE
THESE PILLS TWICE A DAY "Deve prendere queste pillole due volte
al giorno."
WHAT ELSE AM I TO
SAY? Che altro devo dire? Solo augurarvi la buonanotte...
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Rime e allitterazioni (2)
Fin da bambini ci abituiamo ad
accorgerci delle rime, non solo nelle poesie e filastrocche ma nella
lingua di ogni giorno — ad esempio nei nomi, da Eta Beta a
Oriella Dorella, da Adriano Celentano a Cirino Pomicino. Gli inglesi
hanno lo stesso tipo di attenzione per la allitterazione, che è
una specie di rima all’inizio delle parole. Topolino è
Mickey Mouse e Paperino è Donald Duck; tra i personaggi dello
spettacolo, possiamo ricordare Charlie Chaplin e Doris Day, Diana
Dors e Marilyn Monroe, Robert Redford e Stephen Spielberg. Buona
parte della poesia inglese più antica è allitterativa,
cioè basata sulle allitterazioni e non sulle rime; e in tutte
le epoche successive è rimasta questa particolare sensibilità
al ripetersi delle consonanti iniziali.
La cosa curiosa è che in
italiano abbiamo anche noi moltissime allitterazioni. Le troviamo nei
proverbi e in frasi fatte come "fare le fusa, sano e salvo, vivo
e vegeto, tagliare la testa al toro;" nei nomi di personaggi
noti, da Federico Fellini a Marcello Mastroianni, da Claudia
Cardinale a Pamela Prati (non fate caso agli accostamenti che sono
puramente casuali) e numerosissimi altri; e in slogan politici, dal
"Trento e Trieste" degli irredentisti alla "strage di
stato" dei sessantottini — anche qui vi prego di non dare
interpretazioni che sono totalmente al di fuori delle mie intenzioni.
Però da noi le allitterazioni passano molto spesso
inosservate, perché manca l’abitudine a notarle e a
coglierne l’effetto.
Delle opere
teatrali di Shakespeare, quattro hanno titoli allitterativi: Love’s
Labour’s Lost, Measure for Measure, The Merry Wives of Windsor,
All’s Well that Ends Well. A
meno che vi siano ripetizioni, come in "Tutto è bene quel
che finisce bene" o "Misura per Misura" (ma un titolo
più frequente per quest’ultima è "La legge
del taglione"), le allitterazioni vanno perdute nella traduzione
("Le allegre comari di Windsor") o vengono recuperate
parzialmente e un po’ per caso, come in "Pene d’amore
perdute."
Molti titoli di giornale sono
allitterativi: una piccola indagine per campione condotta su sedici
pagine di The European vecchio formato ha trovato 21 titoli
con allitterazioni più o meno marcate, una delle quali nel
titolo di una rubrica: World Watch, ossia "osservatorio
mondiale." Gli argomenti vanno dal British beef ban, la
messa al bando della carne bovina britannica, a The trials and
tribulations of a footballer and a president "le prove e le
tribolazioni di un calciatore e di un presidente." C’è
una sensibile maggiore concentrazione nella cronaca sportiva (8
titoli in 4 pagine), ma la presenza delle allitterazioni è
notevole ovunque.
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Volli, sempre volli
In italiano, il verbo "volere"
è entrato nei proverbi: "L’erba voglio..." con
quel che segue. In inglese non abbiamo nulla del genere perché
il verbo want non è altrettanto perentorio, e può
essere usato in molte circostanze senza rischiare di essere scortesi
o aggressivi. Oltre a "volere" significa anche "occorrere,"
"aver bisogno di" e può avere per soggetto una cosa
e non una persona. Se dico this umbrella wants mending voglio
dire che "quest’ombrello ha bisogno di essere riparato."
I manifesti americani per il
reclutamento dei soldati hanno lo slogan tradizionale Uncle Sam
Wants You, “lo Zio Sam ha bisogno di te”. Zio Sam
deriva dalla sigla U.S.Am per United States of America —
S Am si sono unite ed è venuto fuori il nome Sam
e la U è stata reinterpretata come abbreviazione di
uncle, "zio."
Dai film western conosciamo poi la
forma WANTED del participio passato che spicca sui manifesti
dei ricercati seguita spesso dalle parole DEAD OR ALIVE,
"morto o vivo." Noi diciamo "vivo o morto," una
traduzione che non rispetta l’ordine originale ma rispecchia la
priorità delle scelte. Già è brutta l’ipotesi
di dover ammazzare qualcuno, sia pure un bandito. Che questa
alternativa preceda addirittura l’ipotesi della cattura del
ricercato vivo mi sembra inquietante. Ma torniamo al verbo "volere."
Al condizionale, cioè in
forme come "vorrei, vorresti, ecc." il verbo want è
solitamente sostituito da like, "gradire, piacere."
"Vorrei andare al cinema, I’d
like to go to the cinema; "vorresti
un gelato?" would you like to have
an ice-cream?
C’è un altro verbo,
wish, che a volte viene presentato come il corrispondente di
"desiderare." In realtà, wish si usa
soprattutto in due casi:
il primo è come
corrispondente di "magari" in frasi come "magari
avessi più tempo libero" I wish I had more spare time
e "magari l’avessi saputo prima" I wish I had
known before;
l’altro uso è per
augurare e in questo caso wish è anche un nome, cioè
l’augurio: una frase di stagione è my best wishes for
Christmas and the New Year "i miei migliori auguri per il
Natale e l’anno nuovo." Best wishes sono anche i
"cordiali saluti" come chiusura di una lettera amichevole.
Tornando a wish come verbo, vi auguro una dolcissima serata, I
wish you a very sweet night.
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Le festività invernali
Ritorniamo sull’argomento del
Natale e questa volta ci occupiamo dei canti natalizi in lingua
inglese. Ho fatto questa precisazione e non ho detto "canti
inglesi" perché molti tra i più noti e diffusi
sono versioni inglesi di canti natalizi a volte classici, come Adeste
Fideles (O Come All Ye Faithful) a volte più
recenti ma ormai tradizionali come Silent Night che è
il tedesco Stille Nacht.
Ci sono poi dei canti che vengono
contrabbandati per natalizi e invece sono semplicemente invernali,
come Jingle Bells, una canzone del filone "nonsense"
sul piacere dell’andare su a one-horse open sleigh, su
una slitta aperta trainata da un cavallo — che poi si scopre
essere un povero ronzino che crea parecchi guai. Non è nemmeno
la slitta di Babbo Natale il quale almeno è un personaggio che
deriva dalla versione nordica della figura di san Nicola —
Santa Claus da St. Nicholas.
E’ come quando andiamo a
cercare un cartoncino di auguri natalizi: sempre più spesso,
nei supermercati e in molti negozi, cercano di venderci immagini di
paesaggi invernali, con la neve e i bambini imbacuccati, senza nessun
riferimento alla Sacra Famiglia e alla grotta di Betlemme o almeno
alla stella cometa che guidò i Magi — e quando faccio
presente che per il Natale voglio un’immagine della Natività
(se no, perché dovremmo chiamarlo Natale?) tante volte vengo
guardato come uno che ha pretese strane. E mi viene fatto di pensare
che se più persone facessero come me, rifiutando di augurare
un buon inverno e di fare acquisti in quei negozi, forse vedremmo una
maggiore attenzione al Natale cristiano — se non altro per non
perdere i clienti.
Scusate la digressione, ma era solo
per dirvi come anche tra le musiche cosiddette natalizie cercano di
contrabbandarci canzoni che con la Natività hanno poco a che
fare. La stessa White Christmas, “Bianco Natale”,
è il lamento di una persona trasferita in una zona meridionale
degli Stati Uniti — può essere la California o la
Florida — che rimpiange i luoghi dove cade la neve e i bambini
possono aspettarsi di sentire i campanelli della slitta: in altre
parole, ogni cartoncino di auguri gli fa venire la nostalgia
dell’inverno tradizionale, ma senza nessun riferimento alla
Natività che invece è altrettanto vera all’equatore
come al polo.
Fortunatamente la tradizione inglese
ci ha consegnato delle bellissime Christmas Carols, ma di
questi canti autenticamente natalizi parleremo un’altra volta
perché ho esaurito il tempo a mia disposizione.
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GET
Un verbo molto usato in inglese e
con parecchi significati è get. Come verbo transitivo
corrisponde a "ricevere" in frasi come I got your letter
yesterday, "ieri ho ricevuto la tua lettera," e a
"prendere," in vari sensi — "guadagnare,"
"comperare" o "procurarsi:" he gets four
hundred pounds a month "guadagna 400 sterline al mese;"
where do they get all those nice dresses? "Dove prendono
tutti quei bei vestiti?"
In inglese britannico, got
accompagna spesso have sia nel significato di "avere,
possedere," I’ve got a lot of friends here, "ho
molti amici qui," sia nel senso di "dovere," he’s
got to leave at once, "deve partire immediatamente."
Get viene anche usato, e forse qualcuno ricorda che ne abbiamo
parlato qualche tempo fa, nelle espressioni con "fare"
seguito da un altro verbo, quando "fare" ha il significato
di "ottenere" o di "convincere" we got her to
help us "ci siamo fatti aiutare da lei."
Vicino a questo significato è
il get che troviamo in get things done, "realizzare"
nel senso di "ottenere che sia fatto ciò che deve essere
fatto:" she can get things done è detto di una che
ha buone capacità realizzative, che sa come si fa a tradurre
in pratica i progetti e a far eseguire gli ordini.
Anche get, come molti verbi
di uso frequente, entra a far parte di verbi frasali, alcuni dei
quali sono molto usati come et up "alzarsi dal letto."
He gets up at six every morning "si alza alle sei ogni
mattina" (ho precisato "alzarsi dal letto" perché
"alzarsi da seduti" è stand up).
Come verbo intransitivo GET
indica l’arrivare: they got home at five, "arrivarono
a casa alle cinque." Get è anche il "farsi,"
il "diventare:" it’s getting late, "si
sta facendo tardi;" he got very angry "si arrabbiò
molto;" the soup is getting cold "la minestra si
raffredda." A volte si associa l’idea del riuscire a fare
qualcosa superando qualche difficoltà. "Non avevo la
chiave e allora sono entrato dalla finestra" I hadn’t
got my key so I got in through the window — got in
invece di went in che sarebbe l’entrare normale, senza
fatica né problemi. Come abbiamo sentito dagli esempi, get
seguito da un aggettivo corrisponde spesso a un verbo che deriva
dall’aggettivo stesso: old è "vecchio"
e get old è "invecchiare;" tired è
"stanco" e get tired è "stancarsi."
Ma before you get tired — "prima che vi
stanchiate," concludo...
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Grande!
Ci sono almeno tre aggettivi inglesi
che corrispondono all’italiano "grande" e sono big,
great e large. Big si usa per le forme che
corrispondono agli accrescitivi italiani: "uno scatolone" a
big box, "una ragazzona" a big girl; big
è qualcosa di grandi dimensioni anche in verticale, al
contrario di large che si riferisce all’estensione in
orizzontale: "una grande casa con un grande giardino" sarà
a big house with a large garden.
Con riferimento alle persone big
si riferisce all’importanza e alla notorietà: Charlie
Chaplin was a very big film star, "Charlie Chaplin fu una
grandissima stella del cinema," ma big non indica
necessariamente qualità intellettuali e morali, anzi, in
alcuni contesti è lievemente dispregiativo: he considers
himself a big shot but he is only a fool "si ritiene un
‘pezzo grosso’ ma è solo uno sciocco."
Davanti ai nomi che indicano attività big indica che è
svolta in notevole quantità: Americans are big coffee
drinkers "gli americani sono dei grandi bevitori di caffè."
In alcuni casi big significa "grosso:" a big
mistake "un grosso sbaglio," big-game hunting la
caccia grossa" (qui GAME è la "selvaggina").
Noi abbiamo importato questo aggettivo e lo usiamo come nome, ad
esempio quando parliamo dei big dello spettacolo.
Great si usa con riferimento
alla qualità morale e intellettuale delle persone: I think
John Kennedy was a great president "ritengo che John Kennedy
sia stato un grande Presidente." Si usa anche per certi gradi di
parentela my great-grandfather was a great musician "il
mio bisnonno era un grande musicista." Great si trova
anche in molti nomi propri, da Great Britain "la Gran
Bretagna" a Alexander the Great, "Alessandro Magno."
Inoltre esprime apprezzamento: that’s a great idea "è
una splendida idea;" horse-riding is great fun
"l’equitazione è un grande divertimento;"
colloquialmente si usa anche come esclamazione: I’ve bought
a cake. Great! "Ho comperato una torta. Evviva!"
Large, invece, non è
mai riferito a persone ma a cose e specificamente alla loro
dimensione fisica; Piazza Duomo is a large square significa
che è ampia, di grandi dimensioni — se avessi detto a
great place l’avrei descritta come luogo importante, di
notevole valore (artistico, in questo caso). Conosciamo large
e extra-large per le taglie più grandi dei capi di
vestiario.
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Mi seguite? E se mi fossi perso?
Una pubblicità molto diffusa
riguarda dei rubinetti che si vantano di non saper perdere. Lo slogan
non sarebbe traducibile in inglese, dove "perdere" riferito
ai rubinetti e ai contenitori di liquidi si dice leak ossia
"colare" mentre negli altri casi si usano altri due verbi.
Il contrario di "vincere" è lose (lost - lost).
They lost the match "hanno perso la partita." Lose
è anche lo "smarrire," sia in senso proprio,
materiale he lost his wallet "ha perso il portafoglio,"
sia in espressioni come I’ve lost my patience "ho
perso la pazienza." Lost and Found è l’insegna
dell’ufficio oggetti smarriti, che in effetti è
l’ufficio degli oggetti ritrovati.
In un tema un ragazzino inglese ha
scritto che John Milton dopo essersi sposato ha scritto Paradise
Lost, il “Paradiso Perduto”, e dopo essere rimasto
vedovo ha scritto Paradise Regained, il “Paradiso
Riconquistato”. Il gusto della battuta, oltre tutto facile e
scontata, gli è costato un brutto voto perché le date
non coincidono. Get lost corrisponde al nostro "Sparisci!"
E ora qualcuno lo traduce con "Sperditi!"
Si può usare lose solo
per qualcosa che ci appartiene; altrimenti, in frasi come "perdere
il treno" o "perdere un’occasione" dobbiamo
usare miss: to miss the train, to miss an opportunity.
Se l’oggetto di miss è una persona, questo verbo
significa "sentire la mancanza:" I miss you "sento
la tua mancanza." Per estensione, lo si usa anche per oggetti o
luoghi a cui si è affezionati: he misses his home village
"Sente la mancanza del suo villaggio natio." Miss è
anche il mancare il bersaglio, spesso col valore di "mancare di
poco, sfiorare." Ma a coloro che recriminano che non ce l’hanno
fatta per poco a raggiungere qualcosa, un proverbio ricorda che a
miss is as good as a mile, l’andare molto vicini allo scopo
senza raggiungerlo vale quanto restarne lontano un miglio — e
vorrei fare notare come nel proverbio le due parole chiave, miss
e mile, sono legate tra loro dall’allitterazione, ossia
dal ripetersi dell’iniziale M. Della allitterazione, che in
inglese è più importante della rima, abbiamo già
parlato ma sicuramente è un argomento che ritorna spesso.
Concludo con un ultimo esempio sull’uso di miss:
I miss my radio when I’m
not in Milan, "mi manca la mia radio quando non sono a
Milano."
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Espressioni imperfette
Nell’italiano colloquiale,
soprattutto settentrionale, si usa spesso l’imperfetto al posto
di forme verbali più complesse — in casi come "se
lo sapevo non ci andavo" invece di "se l’avessi
saputo non ci sarei andato" oppure come "lei doveva
scendere due fermate prima" per "lei sarebbe dovuto
scendere due fermate prima." Come sempre, parliamo della lingua
italiana per capire meglio le analogie e le differenze rispetto
all’inglese. In questo caso abbiamo una forte differenziazione,
perché in inglese abbiamo sempre bisogno delle forme che
corrispondono ai nostri congiuntivi e condizionali e non possiamo
semplificare, nemmeno nei dialoghi tra amici.
La prima frase, "se lo sapevo
non ci andavo," sarà quindi if I had known (“se
l’avessi saputo”) I wouldn’t have gone there
("non ci sarei andato" — più letteralmente,
"non sarei andato là"), e la seconda frase, "doveva
scendere due fermate prima," è you should have got off
two stops before. Il segreto per impadronirsi di queste forme è
quello di non partire dalla lingua italiana, della quale tante volte
ci sfuggono i meccanismi, ma di fare molto esercizio direttamente in
inglese con frasi complete che si riferiscono a situazioni ben
precise. Per esempio, ci sono forme di rimprovero come "me lo
dovevi dire" you should have told me che hanno un loro
preciso uso e significato.
Ritornando per un attimo ancora sul
primo esempio, "se lo avessi saputo," voglio far notare che
quel "lo" che in italiano abbiamo prima del verbo "sapere"
in inglese non compare: if I had known... Il nostro "lo
so" è semplicemente I know.
Questi usi colloquiali
dell’imperfetto sono da tenere distinti dagli usi più
normali, che sono soprattutto due: il primo è quello che
esprime ciò che stava accadendo in un certo momento del
passato: "pioveva" it was raining; l’altro si
riferisce a azioni che erano abituali: "da bambino giocavo con
le automobiline" I used to play with toy cars when I was a
child. Come abbiamo sentito, nel primo caso abbiamo il passato
progressivo: "pioveva" equivale a "stava piovendo"
it was raining — ricordiamoci che se in italiano si PUÒ
usare la forma "stare facendo" in inglese si DEVE usare la
forma progressiva; nel secondo caso abbiamo la forma used to:
"giocavo" sta per "ero solito giocare" I used
to play.
Ancora una volta la lingua inglese
ci è servita per accorgerci delle ricchezze nascoste nella
nostra — nelle forme dell’imperfetto che adoperiamo
spesso a preferenza di altre più precise ma meno vive e
immediate.
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Luci rosse e altri colori
Adult Contemporary, tra poco,
con F. L. e tanta bella musica — musica dolce, che anche un
ex-giovane come me ama ascoltare. Ma stiamo attenti a non
descriverlo, in inglese, come un adult programme perché
purtroppo adult in molti contesti ha assunto il valore di
"vietato ai minori" ossia osceno e chi non conoscesse la
trasmissione e questa radio potrebbe avere un’impressione del
tutto sbagliata.
Tra gli eufemismi a cui prestare
attenzione c’è anche blue, il colore,
nell’espressione blue movies, che sono i film a luci
rosse. Non è il solo caso in cui l’uso dei colori
diverge — per esempio, "giallo d’invidia" è
green with envy, ossia, letteralmente, "verde di
invidia," e il giallo del semaforo è detto amber,
"color ambra" (che in effetti è una descrizione più
accurata).
Tra le espressioni idiomatiche
curiose c’è paint the town red, letteralmente
"dipingere di rosso la città" ma in effetti "darsi
alla pazza gioia e combinarne di tutti i colori."
Tornando a blue, questa
parola corrisponde non solo al nostro blu ma anche all’azzurro
— the sky is blue "il cielo è azzurro."
Per il blu scuro e il blu più chiaro in Inghilterra si parla
anche rispettivamente di Oxford Blue e Cambridge Blue, dai colori
degli emblemi delle due università ripresi soprattutto in
certe competizioni sportive. Il celeste è lo sky blue e
qui apro una parentesi per ricordare che sky è il cielo
visibile, mentre c’è un’altra parola, heaven
per il cielo invisibile, il Regno celeste.
Blue ha anche un significato
tutto diverso, di "triste, malinconico." I blues
sono i canti malinconici degli americani di origine africana. La
terra dei blues, il sud degli Stati Uniti, è detta
Dixieland, dove Dixie è il nomignolo che viene da
Dixon, l’inglese che insieme a Mason ha stabilito il confine
tra il Maryland e la Pennsylvania. Insieme al fiume OHIO, la Mason
and Dixon Line, lunga 375 chilometri, è stata la linea di
demarcazione tra gli stati schiavisti a sud e quelli liberisti a nord
e il termine è tuttora usato per ricordare questa divisione
che il secolo scorso condusse alla guerra civile.
Questo come origine del nome
Dixieland; in quanto al genere musicale, vi lascio in
compagnia di chi ne sa molto più di me e conduce questa dolce
serata...
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Christmas carols
Ho promesso che in prossimità
del Natale avrei parlato di canti natalizi inglesi e questa sera vi
dirò di una Christmas carol, Good King Wenceslas.
Questo canto, molto noto in Inghilterra e che risale al secolo scorso
[XIX], ricorda la vita di San Venceslao, un re boemo del decimo
secolo, martire e patrono della Cecoslovacchia. Il suo nome in lingua
boema è Vàclav, che è anche il nome del primo
presidente della Repubblica Ceca Vàclav Havel.
La nonna di Venceslao, Ludmilla, era
cristiana e aveva fatto crescere il nipote nella fede; ma la mamma di
lui, Dragomira, pagana e ambiziosa, la fece uccidere — anche
Santa Ludmilla martire è venerata tra i patroni della Boemia.
Dragomira assunse il ruolo di reggente ma i suoi intrighi di corte e
il desiderio del popolo di porre fine alle lotte tra cristiani e
non-cristiani portarono Venceslao, non appena maggiorenne, a prendere
in mano le redini del governo. Era un uomo pio, che pare avesse fatto
voto di castità e che favorì l’opera dei
missionari tedeschi per l’evangelizzazione della Boemia.
Tuttavia il suo zelo per la
diffusione del cristianesimo rese più aspra l’opposizione
dei suoi avversari. Di fronte alle invasioni tedesche del 929,
Venceslao si sottomise al re di Sassonia Enrico I l’Uccellatore,
ma questo indusse alcuni nobili a cospirare contro di lui
contrapponendogli il fratello Boleslao, fino a convincere
quest’ultimo ad assassinarlo. Venceslao fu ucciso in un agguato
presso la porta di una chiesa, mentre stava andando a Messa. Aveva
circa 22 anni.
Spaventato dalle notizie dei
miracoli che si verificavano sulla tomba di Venceslao, Boleslao fece
traslare la sua salma nella chiesa di San Vito a Praga, che divenne
uno dei grandi santuari mete di pellegrinaggi nel medioevo. Venceslao
venne considerato il santo patrono della Boemia quasi subito dopo il
suo assassinio.
Il percorso che ha condotto questo
giovane martire vissuto nel cuore dell’Europa a diventare uno
dei personaggi più celebri e cari del Natale inglese è
un percorso in buona parte avvolto nel mistero, come quello che ha
fatto sì che San Nicola, Vescovo di Mira in Asia Minore e
patrono di Bari, desse origine alla figura di Santa Claus, poi
banalizzata e sfruttata a fini commerciali come Babbo Natale. Ma del
resto questo anno santambrosiano ci ha portato a riflettere sulle
vicende che hanno fatto incontrare a Milano Ambrogio nato a Treviri,
nell’attuale Germania, e Agostino nato a Tagaste in Nordafrica.
Piccoli misteri segni del grande Mistero che con il Natale ha preso
dimora in mezzo a noi.
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Lavorare stanca
Un poster che ho visto in un ufficio
diceva I LIKE MY JOB — IT’S THE WORK I HATE "mi
piace il mio posto di lavoro, è l’attività di
lavoro che detesto." Job è il lavoro come
occupazione, è il posto, mentre work è l’agire
nel lavoro. Il lavoro intenso, che stanca, è hard work
e le due parole si usano anche in espressioni come they work hard,
"lavorano sodo."
Entrambe le parole hanno anche altri
significati. Job può significare "impegno
difficile, impresa" in frasi come convincing him was quite a
job "convincerlo è stata una bella impresa." Job
è anche il singolo lavoro; lavorare a cottimo implica to be
paid by the job, ossia essere pagati per ogni pezzo prodotto o
per ogni lavorazione effettuata.
Work significa "lavorare"
se il soggetto è una persona: Frank works for a radio
network "Franco lavora per una rete radiofonica." Work
significa "funzionare" se il soggetto è una cosa —
una macchina, un progetto, ecc. Your plan will never work "il
tuo piano non funzionerà mai," the lift is not working
today "oggi l’ascensore non funziona."
Work è anche l’esito
dell’agire e operare e quindi significa "opera" in
espressioni come a work of art "un’opera d’arte"
o this is the work of the devil "questa è opera
del diavolo."
Clockwork è il
meccanismo a orologeria. The Clockwork Orange è stato
tradotto come "Arancia meccanica" ma forse "Arancia a
orologeria" avrebbe conservato meglio il valore originale, visto
che "a orologeria" lo diciamo soprattutto delle bombe —
anche se il clockwork è il motore a molla che azionava
le automobiline e tutto ciò che veniva caricato con una
chiave.
C’è una terza parola,
labour, che si riferisce al lavoro come manodopera, la forza
lavoro che si oppone al capitale: capital and labour sono i
capisaldi del dibattito in economia politica. Da questa parola viene
il nome del Partito britannico del Lavoro, il Labour Party,
che noi abbiamo tradotto come "Partito Laburista." In
tutt’altro contesto, labour è il travaglio del
parto e per estensione la pena e il dolore che possono derivare da
ciò che è difficile da compiere.
Per questa sera ho finito il mio
lavoro — my job is finished tonight; vi saluto...
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Ancora sui "frasali"
Alcuni ascoltatori mi hanno fatto
sapere che seguono regolarmente queste conversazioni sull’inglese.
Li ringrazio e mi scuso con loro se qualche volta mi trovo a
riprendere argomenti che almeno in parte sono già stati
trattati. Il fatto è che la lingua inglese, come ogni lingua,
è un organismo molto complesso nel quale ogni aspetto si
interseca con tutti gli altri e le questioni di grammatica si
intrecciano con quelle che riguardano i vocaboli.
Qualche ripetizione è anche
necessaria per garantire che chi ascolta per la prima volta o
saltuariamente possa capire ciò che si dice.
Questa sera riprendiamo il discorso
sui verbi frasali, quelli che si compongono di una parte verbale e di
una particella o di una preposizione — verbi come stand up
"alzarsi in piedi (da seduti)" e look after "badare
a qualcuno o occuparsi di qualcosa."
Badare alla differenza tra una
particella come up in stand up e una preposizione come
after in look after serve per collocare esattamente gli
elementi della frase. Con molti verbi transitivi (quelli seguiti da
un complemento oggetto), una particella può seguire
immediatamente il verbo: "Cerca questa parola sul dizionario"
look up this word in the dictionary oppure può essere
messa dopo l’oggetto look this word up in the dictionary
— ripeto la parte essenziale perché si senta bene la
differenza: look up this word e look this word up. Se
l’oggetto è un pronome — ossia se invece di dire
"questa parola" uso il pronome "la" — il
pronome deve stare tra il verbo e la particella: "cercala sul
dizionario" look it up in the dictionary (non posso dire
*look up it).
Invece un verbo preposizionale è
sempre seguito dalla preposizione in ogni caso: "guarda queste
foto" look at these photos; "guardale" look
at them.
Lo stesso vale per i verbi seguiti
sia da particella che da preposizione come TO look down upon
somebody che vuol dire "guardare qualcuno dall’alto in
basso" nel senso di "disprezzare e sentirsi superiori."
Some people look down upon all immigrants "alcune persone
disprezzano tutti gli immigranti" — Some people look
down upon them all "alcune persone li disprezzano tutti."
Look
presenta casi sia di uso frasale look
up, look
down upon, sia di uso preposizionale
look at,
look for,
look after,
look into.
Quello di look non è comunque un caso
eccezionale, anzi è frequente che i verbi più usati
abbiano forme sia frasali che preposizionali.
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Onomatopee
Alcune parole hanno un suono che
ricorda ciò che descrivono: parole come "tintinnare"
o "sussurro;" i linguisti le chiamano onomatopee e
alcune di esse si riferiscono a rumori tipici, versi di animali, e
simili. Sembrerebbe che queste forme debbano essere uguali, o almeno
simili, in tutte le lingue, perché descrivono gli stessi
oggetti, ma un gallo fa “chicchirichì” in
italiano, “cocoricò” in francese e
cock-a-doodle-doo in inglese. La vocale dominante è la
I in italiano, la O in francese e la U in inglese, anche se i galli
cantano più o meno tutto allo stesso modo (apro una parentesi
per dire che in inglese per il cantare del gallo non si usa il verbo
TO sing ma un verbo apposta, TO crow).
Da noi il cane fa bau-bau o bù-bù
e in inglese le forme corrispondenti sono bow-wow e arf,
quest’ultima soprattutto per i cani più grossi. I gatti
fanno mew [miau] e il verbo miagolare è TO mew
[mju] — è curioso notare come esattamente lo stesso
verbo viene usato per lo stridere del gabbiano.
Molto onomatopee le abbiamo apprese
dai fumetti. La porta che sbatte fa "slam" e in inglese TO
slam the door è proprio "sbattere la porta."
Un’esplosione fa "boom," e la parola boom è
anche un termine di economia per la fase di rapida espansione del
sistema economico-finanziario di una nazione. Un’altra
onomatopea diventata poi vocabolo comune è zip per la
cerniera lampo — che in realtà in inglese inglese si
chiama zip fastener e in inglese americano zipper.
Ci sono almeno un paio di casi in
cui il passaggio da una lingua all’altra ha dato luogo a esiti
forse imprevisti e comunque particolari. In inglese la tosse è
cough [kòf]; è
uno dei casi in cui gh finale si pronuncia f, come in
enough "abbastanza" e rough "ruvido,
agitato;" ne è nata una parola pseudo-italiana che, nel
linguaggio dei fumetti rappresenta il lamento delle persone che
stanno soffocando. Abbastanza simile è il caso del sospiro di
disappunto o di rimpianto per qualcosa che è andato male o è
stato irrimediabilmente perduto. Il sospiro in inglese è sigh
[sai], una parola come high che termina in -igh
pronunciato [ai];
nei fumetti questa parola è diventata [sig],
il sospiro è diventato un sussulto o un singulto ma ormai
quest’uso è radicato e ce lo teniamo.
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Ci facciamo una birra?
Da qualche tempo anche da noi si
sono diffusi i pub simili a quelli inglesi e irlandesi. Simili
ma diversi soprattutto in un aspetto: da noi il locale è unico
mentre in Inghilterra la maggior parte dei PUB si compone di ambienti
diversi. C’è il public bar che è il più
modesto come arredamento, il meno confortevole — pochi
tavolini, sgabelli di legno, ecc.; invece il saloon bar
e il lounge sono più accoglienti, coi divani di
velluto, più spazio, più tavoli. Naturalmente le stesse
bevande hanno un prezzo diverso a seconda del locale in cui si entra.
Nel Far West, dove il bar è come da noi un locale unico, hanno
adottato il termine più elegante saloon
indipendentemente dal grado di eleganza e accoglienza dell’ambiente.
In un classico pub inglese si
ordinano (e pagano) le bevande al banco e poi ci si va a sedere —
se si trova posto; è un modo di gestire il servizio molto
diverso dal nostro, e che spesso causa malintesi. Un inglese che
ordina da bere al bar e poi va a sedersi non fa altro che seguire le
sue abitudini — c’è sempre chi non si rende conto
che da noi l’uso è diverso.
Col diffondersi dei pub si è
scoperto che chiedere a beer, “una birra” è
come da noi entrare in un’osteria e chiedere del vino. Bisogna
almeno precisare la quantità — un calice, un quarto, e
così via, e il colore, bianco, rosso, rosé.
In inglese abbiamo a pint,
una pinta (poco meno di mezzo litro) e a glass —
letteralmente, un bicchiere — che corrisponde a mezza pinta. La
birra, che gli inglesi più tradizionalisti preferiscono
chiamare ale invece di beer, è di diversi tipi.
La birra alla spina, draught beer, può essere bitter,
che è la più diffusa, o mild, più scura e
più leggera. In molti pub si può trovare anche
una birra nera e molto forte, stout, anch’essa from
draught. La più celebre è la Guinness
irlandese ma ce ne sono molte. La bitter (birra amara) non
c’entra nulla con gli aperitivi che noi chiamiamo "bitter."
In bottiglia, le birre chiare sono
light ale o pale ale (letteralmente, birra leggera o
birra pallida) e quelle scure si chiamano brown ale (birra
marrone). Poi ogni birreria dà nomi più o meno
fantasiosi ai propri prodotti ma, come dice un libro sui pub
inglesi, a pale ale by any name tastes the same, "una
pale ale con qualsiasi nome ha lo stesso gusto."
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A, ma non come Ancona
Quando Berlino era una città
divisa dal Muro, il punto di passaggio più importante, vicino
alla porta di Brandeburgo, era il Checkpoint Charlie.
Checkpoint è il "punto di controllo" —
ma perché Charlie? Semplicemente perché era il
terzo e i militari, come i controllori del traffico aereo, adottano
un alfabeto nel quale a ciascuna lettera corrisponde una parola.
L’alfabeto è:
Alpha – Bravo – Charlie
– Delta – Echo – Foxtrot – Golf – Hotel
– India – Juliett – Kilo – Lima – Mike
– November – Oscar – Papa – Quebec –
Romeo – Sierra – Tango – Uniform – Victor –
Whiskey – X-ray – Yankee – Zulu
Questo alfabeto comprende parole di
origine diversa: ci sono nomi di personacome Charlie, Mike, Oscar
e Victor e un chiaro riferimento a Romeo and Juliet di
Shakespeare; nomi geografici come India, Lima, Quebec and Sierra;
lettere dell’alfabeto greco (Alpha, Delta); parole che
si riferiscono a balli e altre attività del tempo libero
(Fox-Trot, Golf, Tango) e altre di varia origine.
All’origine c’è
l’uso inglese di servirsi dei nomi di persona dove noi usiamo
le città (A come Ancona B come Bari, ecc.). Sono state
sostituite le parole che potevano essere confuse tra loro e quelle
che non sono note internazionalmente.
E’ così importante la
chiarezza, che nelle comunicazioni tra aerei e torri di controllo è
stata cambiata anche la pronuncia di alcuni numeri: 4 e 9 four
e nine sono diventati fower e niner, con
l’aggiunta di una sillaba. Il 5 da five è
diventato fife e 3 e 1000 (che iniziano con un suono di TH
difficile per molti stranieri) three e thousand sono
diventati tree e tousand.
In questo linguaggio non si risponde
yes o no, troppo brevi e confondibili; no è
negative, mentre a yes corrispondono varie parole da
roger a wilco, a seconda che si voglia dire
semplicemente che il messaggio è stato ricevuto, oppure che
l’ordine verrà immediatamente eseguito, oppure ancora
che sarà eseguito in futuro, quando sarà il momento
giusto, e altri ancora.
Se si pensa che alcuni gravissimi
incidenti sono stati probabilmente causati o almeno favoriti da
errori nella comunicazione tra terra e bordo, si capisce come lo
sviluppo di un linguaggio molto preciso, che parte dall’inglese
ma lo modifica in misura sensibile, sia un elemento molto importante
nella sicurezza della navigazione.
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Parlare con l’accento giusto
Contrariamente a quanto molti
pensano, le difficoltà maggiori per imparare la pronuncia
inglese e soprattutto per comprendere gli inglesi quando parlano non
derivano né dai rapporti problematici tra grafia e pronuncia
delle parole né dalla presenza di suoni che noi non abbiamo,
come quelli rappresentati dalle lettere th in parole come
three e thursday ("tre" e "giovedì")
o this e that ("questo" e "quello"),
ma dipendono dalla variazione notevole tra le sillabe e le parole
accentate, da una parte, e quelle non accentate dall’altra.
Intendo dire che una parola come
"banana" in italiano ha lo stesso suono di A nelle tre
sillabe, mentre in inglese la seconda sillaba, accentata, ha una
vocale diversa dalle altre due: [b@na:n@].
Un’alternanza simile la
troviamo anche nella pronuncia di alcune parole che hanno soprattutto
una funzione grammaticale: articoli, congiunzioni, verbi ausiliari e
simili.
In un’espressione come rock
’n’ roll ("dondola e rotola") la
congiunzione and viene spesso scritta come ’n’
per segnalare anche nello scritto che la pronuncia si riduce alla
consonante n: rock ’n’ roll; questo
indebolimento da and a n avviene regolarmente, anche
quando nello scrivere usiamo la grafia normale, da Tom and Jerry
a whisky and soda.
Altro esempio: "Ti piace questo
programma? Sì, moltissimo:" Do
you like this programme? Yes, I do, very much. La
prima volta l’ausiliare DO è pronunciato [d]: d’you
like... La seconda volta ha la forma forte [du:] perché è
accentato: yes, I do.
Così posso parlare del modale
must, the modal must con la forma forte [mast];
ma all’interno di una frase come "devo andare" la
pronuncia è diversa: I must [ms]
go, dove must ha perso la t finale e la vocale è
molto più debole. Questo è un caso tipico nel senso che
non si usano grafie alternative, con apostrofi o altro, per segnalare
la forma debole — semplicemente il modale si pronuncia così
quando non è in una sillaba accentata, e cioè nella
maggioranza dei casi.
Questi indebolimenti possono
sommarsi e quello che viene effettivamente detto risulta molto
diverso da quello che ci si potrebbe attendere da una pronuncia in
cui ogni parola viene accentata: mi riferisco alla differenza tra why
- don’t - you - tell - him ("perché non glielo
dici?") e [wainciutelim].
Il fatto è che la pronuncia normale e corretta è la
seconda e non la prima...
Anche questo è un argomento
su cui ritorneremo, dopo questo primo assaggio.
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Prêt-à-porter
Una delle parole italiane che creano
qualche problema quando le si deve tradurre in inglese è il
verbo "portare." Una distinzione che la nostra lingua non
opera ma in inglese a volte è essenziale riguarda la direzione
del movimento di portare: verso la persona che parla o lontano da
essa. Nel primo caso il verbi più usato è bring
(che ha la forma brought al passato e al participio passato):
un insegnante può dire allo scolaro "portami il tuo
quaderno" bring me your copybook; e su certi inviti a
feste tra a amici c’è l’indicazione bring a
bottle "Porta una bottiglia" — e si intende...
non di gazzosa.
Portare via da chi parla è
take took taken: "porta questo pacco alla posta"
take this parcel to the post office. Lo stesso verbo si usa
per persone, nel senso di accompagnare: can you take me to the
station? "puoi accompagnarmi alla stazione?." take
ha anche il significato di "prendere" in vari casi: con i
mezzi di trasporto — don’t take the bus, take a taxi
"non prendere l’autobus, prendi un tassì;" can
I take your umbrella? "posso prendere il tuo ombrello?"
Dove sono distribuiti cataloghi o altri omaggi si trova la scritta
Please Take One "Prego prendetene uno." take
è anche usato con riferimento al tempo in espressioni come
take your time "fai con calma, prenditi il tempo che ti
occorre" e come How long does it take to get to the airport?
"Quanto tempo ci vuole per arrivare all’aeroporto?"
Portare nel senso di indossare è
wear wore worn "Portava un cappellino rosa" She
wore a pink hat — è il verbo che troviamo anche in
wash and wear, "lava e indossa," per i capi che non
hanno bisogno di essere stirati.
Nel senso di "trasportare o
reggere," "portare" è carry: "questo
ascensore porta sei persone" this lift carries six people;
i cash and carry sono quegli empori in cui si paga per
contanti e si porta via da sé la merce acquistata.
Bring,
take,
wear,
carry —
basta? No, ci sono molte altre espressioni; ad esempio, se vi
chiedessi di "portare pazienza," vi direi be patient
— letteralmente, "siate pazienti." Ma a questo punto
ne avete portata abbastanza, il resto ve lo dirò un’altra
sera.
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Old London
Ritorniamo a spasso per Londra,
questa volta non in cerca di monumenti o luoghi famosi ma per
osservare alcuni oggetti caratteristici, che ormai fanno anch’essi
parte del paesaggio — quelli, per intenderci, che insieme al
traffico che tiene la sinistra ci fanno capire che siamo nella
capitale dell’Inghilterra quando vediamo la scena di un film o
di un documentario. Cominciamo con il più vistoso, l’autobus
rosso a due piani o double-decker. Deck è una
delle molte parole che traducono la parola italiana "piano"
e di cui ci occuperemo domani sera; deck è anche, direi
soprattutto, il ponte della nave e la parola double-decker
mette assieme deck con l’aggettivo double
"doppio" e la desinenza -er che in questo caso
significa "ciò che ha" — double-decker
è "ciò che ha un doppio ponte."
Sempre rosse, almeno nella versione
tradizionale che molti vogliono preservare dagli assalti della
modernizzazione, sono le cabine telefoniche pubbliche o telephone
boxes; e qui c’è da dire che la parola box in
inglese significa molte cose, tranne quello che noi chiamiamo il box
— la rimessa per l’auto di solito nel piano interrato
delle case. Nel caso dei telefoni, si chiama box la cabina
pubblica, mentre le cabine telefoniche situate all’interno
degli edifici si chiamano telephone booths.
Ancora rosse, e ancora boxes
sono (da qualche parte, purtroppo, dobbiamo dire erano) le pillar
boxes, le tradizionali e monumentali cassette per le lettere a
forma di colonnina — da cui il nome: pillar è il
pilastro, la colonna — piantate sui marciapiedi ben in vista,
testimoni di una nazione di persone che hanno sempre avuto — e
in certa misura conservano — il gusto del letter-writing,
della corrispondenza epistolare.
Del tutto simili a quelli inglesi
sono i double deckers, le telephone boxes e le pillar
boxes nella Repubblica d’Irlanda, ma tutti rigorosamente
dipinti di verde smeraldo, non di rosso. E sia in Gran Bretagna che
in Irlanda, come da noi, c’è la trasformazione da
veicoli pubblici a veicoli pubblicitari, coperti quasi completamente
dai poster che reclamizzano qualche prodotto.
Del paesaggio londinese fanno anche
parte integrante i monumentali taxi neri, di cui esisteva una
versione ancor più monumentale della quale sopravvivono solo
pochi esemplari, ormai troppo dispendiosi da mantenere e far
circolare, e usati soprattutto come auto per cerimonie particolari,
soprattutto matrimoni.
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Piano, piano, piano...
Ieri sera ho promesso che avrei
parlato delle traduzioni in inglese della parola "piano;" è
la prima parola che cerco in un dizionario bilingue italiano-inglese
quando voglio vedere se è un dizionario ricco, abbastanza
completo e ben organizzato. Infatti "piano" è un
nome, un aggettivo e un avverbio e in tutti e tre i casi ha molti
significati. Questa sera ne potremo esaminare solo alcuni, quelli in
cui è usato come nome.
"Piano" può
significare "progetto" — in inglese, plan,
project, scheme; "il comune ha varato un piano di sviluppo"
the Municipality have launched a development scheme. "Piano"
è anche un termine della geometria: plane, che si usa
anche in senso figurato the talks were on a friendly plane "le
conversazioni furono su un piano amichevole." Il piano di una
casa è floor e anche, specialmente in inglese
americano, storey. My flat is on the sixth floor "il
mio appartamento è al sesto piano" (tra parentesi, floor
è anche il pavimento). Deck, come si diceva ieri sera,
è il piano di un autobus London buses are mostly
double-deckers "la maggior parte degli autobus di Londra
sono a due piani." Una frase come "le pecore scesero al
piano" (ossia in pianura) in inglese è the sheep came
down to the plain dove plain si pronuncia come il piano
geometrico plane.
Il piano di un mobile è il
top: "il piano di questo tavolo è di marmo"
the top of this table is marble. Il piano come strumento
musicale, abbreviazione di pianoforte è piano —
come per molti termini musicali, la lingua inglese ha adottato la
parola italiana.
Quando "piano" significa
"livello" in inglese troviamo proprio level: "mette
i fumatori sullo stesso piano dei bracconieri" he considers
smokers on the same level as poachers.
Il "primo piano" in senso
cinematografico è un close-up — un vocabolo che
qui da noi è stato usato per il nome di un dentifricio. Il
secondo piano, lo sfondo, è invece il background, e
anche questa è una parola che si usa in senso figurato per
indicare ciò che sta dietro agli aspetti più visibili —
ad esempio l’esperienza passata di una persona, lo sfondo in
cui si inquadra una ricerca, e così via.
Gli altri usi di questa parola li
esamineremo un’altra sera; la lingua inglese va presa a piccole
dosi — piano piano!
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Usi locali e traducibilità
Mi è capitato di recente di
sentire una conversazione in tram in una lingua che non ho
riconosciuto – ho capito solo passport, una delle parole
"internazionali," e subito dopo MARCADABOLLO, in italiano —
detta come un’unica parola. E’ un’espressione
intraducibile nella maggior parte delle lingue perché tipica
del nostro sistema burocratico. Parlando con gli inglesi e gli
americani mi ci vuole sempre un po’ di tempo per spiegare che
cos’è una carta da bollo – e non riesco a spiegare
(anche perché non è chiaro nemmeno a me) perché
mai si usi ancora un sistema di prelievo fiscale inventato quando si
scriveva con penna e calamaio.
Alcune parole e espressioni
risultano quindi intraducibili direttamente; altre corrispondenze
sono ampiamente imperfette. Ad esempio, da noi nel contesto
scolastico si usa il verbo "copiare" per indicare quello
che gli studenti non dovrebbero fare durante il compito in classe.
Nello stesso contesto, in inglese si usa il verbo cheat che
significa propriamente "imbrogliare" e mette in rilievo la
disonestà dell’azione. Dietro queste parole c’è
una mentalità diversa: la persona a cui fai copiare è
l’amico, quella di cui rilevi l’imbroglio è la
persona con cui sei in competizione, prima nella scuola e poi nella
vita di lavoro.
Un’espressione interessante,
in questo quadro, è civil servant che si riferisce ai
funzionari statali – una categoria che in Inghilterra ha sempre
escluso molti di coloro che da noi erano o sono "statali"
come i postini, i ferrovieri o gli insegnanti. Il "servitore
civico" è al servizio della cittadinanza – anche se
sulla carta intestata si vede OHMS che sta per On Her Majesty’s
Service – "al servizio di Sua Maestà." E’
investito di poteri e quindi deve esercitare la sua autorità,
ma questo si inquadra in un clima di rispetto dei diritti delle
persone che entrano in rapporto con la pubblica amministrazione. Il
tutto, senza carte o marche da bollo.
Concludo con un rapido cenno a altre
parole che fanno riferimento alle tradizioni britanniche. La House
of Commons è la Camera dei Comuni, dove per "comuni"
non si intendono le Municipalities, le municipalità, ma
i commoners ossia le persone comuni che non hanno titoli
nobiliari. Per i nobili, i Pari d’Inghilterra, c’è
The House of Lords, la Camera dei Lord.
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Tutto il mondo è paese?
Questa sera vi racconto il mio primo
impatto con l’Inghilterra. Dopo 23 ore di viaggio in treno,
nave e treno – erano anni in cui si usava ancora molto poco
l’aereo – dopo 23 ore, dicevo, arrivo a Londra alla
Victoria Station dove mi aspetta una coda di mezz’ora
per prendere il taxi. Infine viene il mio turno, salgo con le due
valigie e la sacca a tracolla su uno di quegli enormi taxi neri che
ora si vedono solo nei film e do all’autista l’indirizzo
della mia destinazione, una casa di Highgate che è un
quartiere settentrionale di Londra.
Dopo qualche minuto l’autista
si ferma, mi dice di aver forato una gomma e mi chiede se preferisco
cambiare taxi o aspettare che lui cambi la ruota. Io non so dove sono
e dove cercare un taxi, sono stanchissimo e gli dico di cambiare la
ruota.
Lui scende, apre il cofano,
inserisce una leva, solleva il taxi, me e tutto il bagaglio e in un
attimo cambia la ruota; dopo di che, altrettanto alla svelta, compie
le operazioni inverse e risale. E a questo punto mi dice che non può
proseguire senza ruota di scorta, mi chiede di scendere e di pagare
la cifra segnata dal tassametro, che nel frattempo ovviamente era
aumentata.
Intanto per curiosità mi ero
messo a leggere l’avviso con l’indicazione dell’ufficio
oggetti smarriti (lost and found: smarriti e ritrovati) e
altre notizie utili, tra cui un indirizzo per i reclami. E allora gli
rispondo che prima di scendere volevo annotare questo indirizzo. What
for? mi chiede: "perché?" Per fortuna (ero
ancora studente), mi viene in mente il verbo to complain "per
reclamare" e lo dico — probabilmente il tono non era
proprio dolce e gentile, data la stanchezza e l’irritazione.
Allora di colpo il tassista smette di fare storie e mi porta subito a
destinazione.
Così, appena arrivato a
Londra ho imparato tre cose: che certi comportamenti uno se li può
aspettare in qualsiasi parte del mondo; che però in
Inghilterra i reclami venivano presi sul serio e potevano avere
conseguenze gravi; e quindi che il verbo to complain è
molto importante. Per questo stasera gli ho dedicato tutto il tempo a
disposizione.
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Discorsi bestiali
Molte delle similitudini, delle
metafore e delle espressioni idiomatiche fanno riferimento al mondo
animale, alle qualità vere o presunte che le varie bestie
mostrano di avere. In tanti casi c’è somiglianza tra
inglese e italiano: "furbo come una volpe" as sly as a
fox, "coraggioso come un leone" as brave as a lion,
ma ci sono anche delle differenze. "Forte come un toro" in
inglese è as strong as a horse — ossia come un
cavallo, mentre "matto come una cavalla" è as mad
as a March hare (oltre che as mad as a hatter). La Lepre
Marzolina (March hare) e il Cappellaio matto (mad hatter)
sono due personaggi di Alice in Wonderland, “Alice nel
Paese delle Meraviglie”.
Da noi si dice "curioso come un
gatto" e un proverbio inglese rincara la dose: curiosity
killed the cat "la curiosità uccise il gatto."
L’animale timido per
eccellenza è il coniglio — in italiano. In inglese,
invece, in questo caso si parla di chickens (galli, galline,
polli e pulcini). He’s a chicken "è un
coniglio" ossia un pauroso — non "un pollo" che
è un ingenuo. La parola chicken viene usata anche come
verbo in espressioni come chicken out of something, ritirarsi
da qualcosa (per esempio, da a fight “una lotta”)
per paura. I pulcini li ritroviamo in don’t count the
chickens before they’re hatched — "non contare i
pulcini prima che siano usciti dal guscio" che equivale al
nostro "non dire quattro se non li hai nel sacco."
E a proposito di uova, "meglio
un uovo oggi che una gallina domani" corrisponde come
significato globale a a bird in the hand is worth two in the bush,
“un uccello catturato ne vale due ancora liberi” —
letteralmente in the hand è "in mano" e in
the bush è "tra i cespugli." Un altro notissimo
proverbio consiglia don’t put all your eggs into one basket,
"non mettere tutte le uova in un cestino solo" ossia non
affidare tutte le tue sorti a un’unica possibilità. Per
concludere col pollame, parliamo di oche; in inglese la gallina dalle
uova d’oro è the goose that lay the golden egg "l’oca
che depose l’uovo d’oro." E per dire che non si
fanno differenze o favoritismi si dice che what’s sauce for
the goose is sauce for the gander "la salsa che va bene per
l’oca va bene anche per il papero."
C’è da farsi venire la
pelle d’oca goose bumps...
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Stiamo scherzando?
Gli inglesi raccontano sugli
irlandesi le stesse barzellette che i tedeschi raccontano dei
polacchi e i francesi dei belgi. In tutti e tre i casi si tratta del
paese cattolico più vicino e quindi potrebbe trattarsi di un
lascito delle guerre di religione e delle lotte dei tempi passati. E
gli Irlandesi? ATTRIBUISCONO le stesse caratteristiche agli abitanti
della contea del Kerry, i Kerrymen.
La contea del Kerry ha
rispetto all’Irlanda più o meno la stessa posizione,
nell’angolo sud-ovest, che la provincia di Cuneo ha rispetto al
Piemonte. Sono gli abitanti delle aree decentrate e più
isolate a fare le spese dell’ironia degli abitanti della
capitale e delle zone più centrali.
A loro volta, naturalmente, i
Kerrymen dicono che agli altri piacciono le barzellette sui
Kerrymen perché sono facili da capire...
Come dicevo, le barzellette sono più
o meno le stesse in tutti i Paesi, salvo piccoli adattamenti locali —
ed è incredibile con quale rapidità si diffondano le
migliori al di là dei confini delle nazioni.
Invece i giochi di parole sono
intraducibili, sia perché si basano su rime, scambi di lettere
e altri meccanismi che non reggono alla traduzione, sia perché
la sensibilità varia molto da paese a paese. Inglesi e
francesi sono molto sensibili al calembour, al gioco di
parole, anche perché quelle lingue si prestano molto più
della nostra, perché sono moltissimi i casi di parole diverse
per grafia e per significato ma pronunciate allo stesso modo, come,
in inglese, il verbo TO SEE "vedere" e SEA "il mare."
Do un esempio — "qual è
la differenza tra un marinaio in pensione a retired sailor e
un cavallo cieco a blind horse?" a retired sailor
cannot go to sea and a blind horse cannot see to go, con la
contrapposizione fra go to sea "andar per mare" e
see to go "vederci a camminare." Vi chiedo scusa:
analizzare le barzellette è il modo più sicuro per
ucciderle — ma anche chi ha colto subito la battuta non l’ha
trovata gran che divertente: da noi i giochi di parole di questo tipo
ottengono al massimo un mezzo sorriso.
Tutto quello che ho detto finora
secondo me ha molto poco a che vedere con l’English sense of
humour che è il senso dell’umorismo inteso come
capacità di cogliere il lato comico della vita, il ridicolo
che spesso si nasconde anche nelle situazioni drammatiche. L’inglese
sa far emergere questi aspetti paradossali attraverso rapidi accenni,
poche parole dette a mezza voce, spesso con ironia, e facendo ricorso
all’understatement, al dire meno di quel che in realtà
si intende.
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Lei parla itang’liano?
Mi ero ripromesso di non tornare sul
tema delle parole inglesi usate per snobismo e spesso a sproposito in
italiano, ma ho cambiato idea quando ho scoperto che c’è
un libro che ha analizzato da questo punto di vista il linguaggio
delle riunioni aziendali.
Il libro si intitola Parlare
Itang’liano e "itang’liano" è la
lingua ibrida di coloro che danno l’impressione che si
farebbero tagliare una mano piuttosto di rinunciare a usare le parole
inglesi di moda nel gergo dei dirigenti aziendali — quelli che
ritengono disonorevole essere "dirigenti" perché
loro sono executives, managers, staff eccetera.
Ebbene, una delle parole "inglesi"
citate nel libro c’è la parola quorum, in
espressioni come "raggiungere il quorum per la validità
della seduta." E in altri contesti ho trovato che sono state
considerate inglesi parole come sponsor e monitor. In
altre parole, il vecchio latino, buttato via come un ferrovecchio,
sta rientrando alla grande attraverso la lingua di moda.
Un dizionario elettronico che ho
consultato, alla richiesta di trovare le parole di etimo latino
presenti in inglese ne trova 15120, e sono solo quelle nelle quali
l’origine latina è più direttamente
riconoscibile. Manca, ad esempio, la parola table che deriva
dal latino tabula ma è entrata in inglese nel periodo
medievale attraverso il francese table. Molte di queste 15000
parole hanno conservato la grafia latina senza alterazioni.
La prima di queste che si incontra
in ordine alfabetico è abacus, l’abaco per fare i
calcoli. E’ una parola adottata come nome da varie ditte (solo
a Milano ce ne sono cinque o sei) e non credo che sia stato per amore
del latino.
Per qualche tempo è stata
pubblicata una rivista di divulgazione scientifica la cui testata era
Genius. Nel primo editoriale il direttore diceva chiaramente
che la parola latina era stata riportata a nuova vita dalla sua
presenza nella lingua inglese — e a questo punto uno non sa più
se dirla all’italiana o all’inglese.
Un certo numero di questi vocaboli
sono nomi neutri appartenenti alla seconda declinazione; terminano in
-um al singolare e in -a al plurale. I due più
usati sono datum -a e medium -a. Per entrambi la forma
plurale pronunciata più o meno all’inglese è
quella entrata nell’uso italiano, rispettivamente per i dati
elaborati da un computer e per i mezzi di comunicazione sociale;
qualche volta li si trova usati come se fossero singolari —
anche in inglese inglese: your data isn’t enough "i
tuoi dati non sono sufficienti."
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Retroformazioni
"Marconi Disco EDIT..."
Quante volte sentiamo questa frase, che annuncia "in un minuto,
un disco"! La parola edit è spesso citata nei
libri sulla lingua inglese perché è una di quelle che
hanno compito un percorso contrario a quello della maggioranza delle
altre parole. Mi spiego: è frequente che da un verbo derivi il
nome di chi compie quell’azione — come in italiano
abbiamo “insegnante” da "insegnare" e
"lavoratore" da "lavorare," così in
inglese abbiamo teacher da teach, worker da
work, assistant da assist e così via, per
parecchie centinaia di casi.
Invece per edit è
successo il contrario: la parola editor esisteva da prima che
per "retroformazione" si ottenesse il verbo edit. Il
caso è analogo a quello di baby-sitter da cui, in
inglese, deriva il verbo babysit per indicare l’attività
di accudire ai bambini.
Editor è anche uno dei
"falsi amici," nel senso che non vuol mai dire "editore"
ma solo altre cose. L’editore, colui che pubblica, in inglese è
il publisher. Editor può essere il direttore di
un giornale (e le letters to the editor sono le "Lettere
al Direttore") oppure è un redattore o caporedattore —
in questo caso di solito viene precisato l’argomento di cui si
occupa: sports editor è il redattore sportivo o il capo
della redazione sportiva.
Editor è anche il
curatore di un libro, ossia chi raccoglie in volume dei brani
d’antologia, o una serie di saggi su un certo argomento o gli
atti di un convegno, oppure colui che produce un’edizione
critica di qualche classico.
Un film editor è lo
specialista del montaggio, colui o colei che ricuce i vari frammenti
di film, le singole scene girate, ordinandoli in sequenze e, sotto la
guida del regista, li organizza nella forma definitiva.
Il verbo edit, in questo
contesto, vuol dire quindi inizialmente "organizzare i
frammenti" e poi, come tutte le parole, vive di vita propria in
patria e all’estero, entra in combinazione con altre parole, si
riconverte da verbo a nome e alla fine ce lo ritroviamo assieme a due
parole italiane in "Marconi disco edit."
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Lingue e nazioni
In italiano, una stessa parola (ad
esempio, "spagnolo") indica sia l’abitante di una
nazione ("è arrivato uno spagnolo"), sia la lingua
("conosco bene lo spagnolo"), e si usa anche come
aggettivo, come quando parliamo di "vino spagnolo."
In inglese di solito la lingua e
l’aggettivo coincidono, mentre per il nome dell’abitante
si ricorre spesso a una parola diversa. Uno spagnolo è a
Spaniard, ma "parlo spagnolo" è I speak
Spanish e "vino spagnolo" è Spanish wine.
Ricordo, prima di vedere altri esempi, che in inglese si scrivono
obbligatoriamente con l’iniziale maiuscola tutti i nomi e gli
aggettivi di nazionalità, in ogni loro uso — e quindi
anche per indicare la lingua.
Alcuni aggettivi che terminano per
-sh come English o per -ch come French
aggiungono man e woman per ottenere i nomi degli
abitanti: un inglese è an Englishman e una francese è
a Frenchwoman. Molti altri sono analoghi a Spanish e
c’è una parola apposta per l’abitante: abbiamo
quindi frasi come a Swede speaks Swedish (uno svedese parla
svedese) e analogamente per danesi e finlandesi a Dane speaks
Danish, A Finn speaks Finnish.
Abbiamo quindi bisogno di parole
diverse per dire, ad esempio:
The Pope Is From Poland "Il
Papa proviene dalla Polonia"
The Pope is a Pole "Il
Papa è un polacco"
The Pope is Polish "Il
Papa è polacco"
The Pope speaks Polish "Il
Papa parla polacco" — come lingua materna, e poi, come
sappiamo, parla tante altre lingue.
Al plurale, abbiamo regolarmente
Spaniards, Danes, Poles ecc. mentre Englishmen e
Frenchwomen seguono le forme irregolari del plurale di man
e woman, ossia men e women.
Il caso più semplice è
quello delle parole che terminano in -ese come Japanese
e Chinese, che sono sia nomi che aggettivi e che restano
invariati anche al plurale: i cinesi e i giapponesi the Chinese
and the Japanese. Quelli che terminano in -an come
Russian, russo, Albanian, albanese e Italian
sono anche loro sia nomi che aggettivi, e prendono regolarmente la s
al plurale: we are Italians, I speak Italian, I like Italian
music, mi piace la musica italiana — ma anche l’altra,
tutta la dolce musica di questo programma.
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Etimi greci e latini
Qualche sera fa ho detto che sarei
tornato sulla presenza di parole di origine greca e latina nella
lingua inglese. E’ una presenza non solo massiccia ma anche
tipicamente conservatrice, nel senso che la grafia adottata dalla
lingua inglese spesso riproduce esattamente o molto da vicino la
grafia originale. Lo vediamo da qualche tempo anche nel film che
parla delle fatiche di Ercole — la forma latina Hercules
si è trasferita in inglese e la stessa parola indica anche un
grande aereo da trasporto, soprattutto militare.
La pronuncia è invece
anglicizzata: Hercules [h3:kj@li:z];
analogamente, il thesaurus, che a seconda dei contesti può
significare varie cose, dall’antologia al dizionario dei
sinonimi — conserva la grafia latina e si pronuncia [TIsO:r{s].
Se pensiamo alla parola italiana "tesoro" vediamo come
questa si è trasformata rispetto al latino: il TH è
diventato T, il dittongo AU è diventato O e a una O si è
ridotta anche la desinenza US.
La pronuncia anglicizzata a volte
rende irriconoscibili le parole latine quando le si sentono dire
dagli inglesi. Ad esempio, la prima parola di Habeas Corpus,
[heibias] è poco riconoscibile. La seconda, [kòps]
lo è un po’ di più. L’Habeas Corpus
è la legge sulla carcerazione preventiva: occorre subito una
sentenza del magistrato perché si possa privare una persona
della libertà, si possa trattenerlo corporalmente.
Dicevo prima che la riproduzione
delle parole di origine classica non sempre può essere esatta
— questo vale ad esempio per le parole greche. Quando era in
voga il rhythm and blues, ho visto almeno un centinaio di
copertine di dischi stampate in Italia e nemmeno una aveva la parola
rhythm scritta giusta; rhythm è una
traslitterazione accurata dal greco, molto più precisa della
parola italiana "ritmo."
Anche il titolo di un film di
Hitchcock, Psycho, è un esempio di una parola
trascritta molto accuratamente, ma con una pronuncia [saikou]
molto diversa dal nostro "psico;" lo stesso per pseudo
che è scritto allo stesso modo dell’italiano ma si
pronuncia [sju:dou]
.
C’è quindi un grande
patrimonio della cultura europea che molti italiani ignorano e che
qualche volta non riconoscono quando se lo trovano riproposto
attraverso la lingua inglese. Forse, basterebbe un po’ di
attenzione.
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Una gita in Svizzera
Il nome ufficiale della nazione
svizzera è il latino CONFEDERATIO HELVETICA, da cui anche la
targa automobilistica CH. Però se uno guarda la crosta del
formaggio trova il marchio Switzerland che è il nome
inglese della Svizzera, e anche l’aggettivo inglese Swiss
è sempre più usato per dire "svizzero" senza
far torto a nessuna delle quattro lingue ufficiali della
confederazione.
Una nota marca di orologi è
formata fondendo tra loro le parole inglesi Swiss e watch.
A proposito di watch ricordo che in inglese le parole che
corrispondono a "orologio" sono due: watch è
quello che si porta addosso, normalmente al polso; una volta si
usavano gli orologi da tasca, che gli uomini tenevano nel taschino
del panciotto — adesso non si usa più nemmeno il
panciotto. E sempre nell’ambito dei watches ci sono
quelli da donna incorporati negli anelli.
L’orologio che non si porta
addosso è il clock; può essere piccolo come una
sveglietta da viaggio o grande come quello della Clock Tower —
la torre dell’orologio — del Palazzo del Parlamento di
Londra, ma ha la caratteristica di essere posto su una parete o
posato su una mensola o un comodino.
O’clock, ossia of
the clock "dell’orologio" si usa per dire le ore
intere: it’s five o’clock "sono le ore
cinque" — letteralmente "è cinque
dell’orologio." Per le frazioni di ora, ci sono due modi
di dirle; il primo, più tradizionale, usa past dall’ora
alla mezz’ora e to dalla mezza all’ora successiva,
dicendo prima i minuti e poi le ore: le otto e dieci sono ten past
eight "dieci (sottinteso: minuti) dopo le otto; le sei e un
quarto sono a quarter past six; le undici meno un quarto a
quarter to eleven.
Oggi, con la diffusione degli
orologi digitali, si sta estendendo un modo più diretto di
dire l’ora, mettendo semplicemente in sequenza ore e minuti: le
sei e quindici sono six-fifteen e le ventidue e quarantacinque
sono ten-forty-five. Gli inglesi preferiscono il sistema
basato sulle dodici ore, non sulle ventiquattro. Solo se c’è
pericolo di confusione si precisa in the morning "di
mattina" in the evening "di sera" ecc. Nello
scritto si usano le abbreviazioni a.m. per le ore
antimeridiane e p.m. per quelle pomeridiane.
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E’ ora di...
Ieri sera ho parlato di ore e
orologi e questa sera vorrei aggiungere qualche piccola curiosità.
Anzitutto a proposito della Clock Tower, la torre
dell’orologio del Palazzo del Parlamento (The Houses of
Parliament) di Londra: originariamente il Big Ben non è
la torre e nemmeno l’orologio, ma il campanone da 13 tonnellate
che batte le ore. Ben è il diminutivo di Benjamin,
Beniamino, e Sir Benjamin Hall era il sovrintendente ai lavori
all’epoca dell’installazione dell’orologio nel
1859. Pare che la stazza di Sir Benjamin fosse tale da
ricordare la mole della campana. In seguito il nomignolo Big Ben
ha finito per indicare l’orologio.
Una seconda curiosità. Credo
che vi sia capitato di vedere qualche scena di cartone animato in cui
un orologio si anima, il quadrante diventa una faccia e le lancette
diventano mani. Se vi è sembrato che il cartoonist,
l’animatore, abbia avuto una fantasia particolarmente
sbrigliata, sappiate che in lingua inglese il quadrante di un
orologio si chiama face, "faccia", e le lancette
sono hands, "mani". Quindi questa ‘umanizzazione’
dell’orologio è già nella lingua inglese di ogni
giorno, e gli animatori non hanno fatto altro che visualizzarla
graficamente. Questo spiega anche come mai la scena si ritrova in
vari cartoni animati di diversi autori.
E ora, "Quel treno per Yuma."
E’ il titolo di un film western di parecchi anni fa. Il
leitmotiv della colonna sonora è una canzone che ha lo
stesso titolo del film: nella versione originale, The Three-Ten to
Yuma, letteralmente "il tre e dieci per Yuma." In
inglese anche gli orari possono essere usati come aggettivi e messi
prima del nome a cui si riferiscono: five o’clock tea il
tè delle cinque; the eleven o’clock news il
notiziario delle 23. Nel caso del three-ten to Yuma la parola
train è sottintesa perché il contesto è
chiarissimo e non occorre precisare che si sta parlando di un treno.
Infine una curiosità storica.
Un grande orologio che si trovava in molte locande era detto Act
of Parliament Clock, ossia "orologio del decreto
legislativo." Nel 1797 venne imposta una tassa di cinque
scellini a tutti i possessori di orologi — molti dei quali se
ne sbarazzarono, con effetti disastrosi sull’industria del
settore, al punto che la legge fu abrogata l’anno successivo.
L’orologio delle taverne poteva servire quindi a far
risparmiare ai clienti l’imposta. In realtà quegli
orologi erano entrati in uso prima della legge, quando le diligenze
cominciarono a viaggiare a orari prestabiliti.
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Viaggiare apre la mente — ma non sempre
Una volta sono andato per lavoro in
una città sul mare da cui un tempo partivano per terre lontane
le navi cariche di emigranti. Scendendo da un taxi ho chiesto la
ricevuta e l’autista mi ha dato un pezzo di carta, non
intestato, spiegazzato e scribacchiato sul retro, su cui ha scritto
il prezzo della corsa e una specie di sigla, ma senza né data
né numero di taxi — insomma una cosa che non avrei mai
potuto presentare per avere il rimborso. Ho cercato di protestare ma
con un sorriso e qualche battuta l’autista mi ha fatto
chiaramente capire che potevo scordarmi di avere una ricevuta
regolare.
Avevo già rinunciato a quei
soldi; ma un po’ più tardi, alla fine del pranzo con
cinque colleghi, il gestore del ristorante ci ha presentato un conto
unico per tutti. Gli abbiamo chiesto di farci conti separati e lui ci
ha dato sei ricevute in bianco, dicendoci di metterci noi la cifra
che volevamo. Allora io ho scritto un importo che comprendeva il
costo del pasto e quello del taxi e così ho avuto il rimborso
di tutto.
Una domanda: in quale città è
successo tutto questo? Siccome sapete che vi parlo dell’inglese
e dell’Inghilterra la risposta è facile: ero a
Liverpool. Se per caso avete pensato a un’altra città,
italiana, all’ombra del Vesuvio, vi siete sbagliati.
Mi spiace raccontare questi episodi
perché apprezzo e stimo gli inglesi. In più, amo la
lingua inglese, e non solo per motivi professionali. Però non
sono d’accordo con gli esterofili che parlano degli altri paesi
come se lì tutto fosse molto meglio che da noi.
Si usa dire che travelling
broadens the mind "viaggiare allarga la mente;" ma da
un’altra università inglese ho ricevuto un ritaglio di
giornale col titolo Travelling narrows the mind "viaggiare
restringe la mente." Che cos’era successo? Un professore
di francese aveva portato un gruppo di suoi studenti a passare un
week-end in Francia. Questi ragazzi, che avevano scelto di studiare
lingue per interesse e stima verso gli altri popoli, si sono dovuti
accorgere che anche dall’altra parte della Manica ci sono
quartieri poveri con sporcizia e degrado, negozianti disonesti,
baristi scortesi, e così via, e una certa immagine della
Francia idealizzata si era molto appannata. Le Havre non è
molto meglio di Portsmouth.
Studiare le lingue vuol dire anche
costruirsi un’immagine realistica degli altri popoli, una
visione equilibrata delle luci e delle ombre. Così possiamo
apprezzare davvero gli altri Paesi e anche la nostra Italia, dove
molti stranieri preferiscono venire ad abitare.
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Regole di pronuncia
La lingua inglese è
ricchissima di regole di pronuncia. Non sono quelle che gli studenti
stranieri vorrebbero, ossia quelle che consentono di ricavare con
sicurezza la pronuncia dalla grafia. Del resto queste regole non le
abbiamo nemmeno per l’italiano: lo straniero vede parole che si
assomigliano moltissimo, come "pausa" e "paura" e
non ha nessuna regola che gli spieghi perché non si dice
*"paùsa" come "paura" o *"pàura"
come "pausa." L’idea che l’italiano "si
legge come si scrive" è un’illusione.
Quali sono allora le regolarità
che troviamo in inglese? Alcune riguardano la pronuncia del plurale
dei nomi (che è anche la pronuncia della terza persona del
presente dei verbi) e del passato regolare dei verbi. Per cogliere
queste regolarità bisogna prima avere distinto i suoni in due
gruppi, a seconda che nel pronunciarli vengano fatte vibrare le corde
vocali oppure no. Il primo gruppo comprende tutte le vocali e i
dittonghi e la maggior parte delle consonanti. Dopo questi suoni la
desinenza -s si pronuncia [z] (che è il simbolo della s
di “rosa”) e la desinenza -ed si pronuncia [d] —
a call, two calls [kòlz]
— I call, I called [kòld];
I live, he lives, they lived [liv
livz livd]. Se però la parola finisce con un suono
sibilante, la desinenza -s si pronuncia [iz] glass glasses,
rose roses, dish dishes, watch watches, orange oranges. E se il
verbo finisce per [t d] anche qui aggiungiamo una sillaba [id]:
want wanted, intend intended.
Dopo una consonante del secondo
gruppo, ad esempio [p t k], la desinenza -s si pronuncia [s] e
la desinenza -ed si pronuncia [t]: look, looks, looked
[luk luks lukt]; laugh laughs
laughed [la:f la:fs la:ft].
Quest’ultimo, il verbo "ridere," l’ho scelto
come esempio proprio perché sottolinea che non è alla
grafia che dobbiamo badare ma alla pronuncia: termina per [f] che è
una consonante analoga a [p t k] (si parla di consonanti sorde)
e ne segue la stessa regola. In questo senso tecnico, sordo è
il contrario di sonoro: le vocali, i dittonghi e la maggior
parte delle consonanti sono sonore.
Esercizio
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Invito a palazzo
Dal 1931 e fino al 1954, il
grattacielo più alto dell’isola di Manhattan, con i suoi
381 metri senza contare l’antenna televisiva installata alla
sommità, è stato l’Empire State Building,
il "palazzo dello stato-impero."
Lo stato-impero è lo stato di
New York, e la parola building indica i palazzi pubblici, o,
come nel caso dei grattacieli, anche gli edifici aperti al pubblico,
senza distinzioni relative alla proprietà, pubblica o privata.
La parola building è di origine germanica ed è
una forma del verbo TO build "costruire;" al
building si contrappone la parola palace, di
derivazione latina attraverso il francese, che indica i palazzi reali
o le residenze di nobili o vescovi. La regina d’Inghilterra
risiede a Buckingham Palace, il palazzo residenza dei duchi di
Buckingham finché nel 1761 re Giorgio III non lo
acquistò per farne dono alla moglie; la residenza ufficiale
tradizionale della corte d’Inghilterra, che per questo veniva
anche detta Corte di San Giacomo, è St. James’s
Palace, il "Palazzo di S. Giacomo," da molti
considerato la più brutta reggia d’Europa. E’ per
evidenti ragioni di prestigio che la parola Palace viene usata
nella denominazione di molti alberghi.
Tornando a New York City,
notiamo anzitutto che la dicitura corrente è appunto New
York City, per distinguere la città dallo stato omonimo.
Infatti una persona può dire I live in New York anche
se abita a Buffalo o Rochester, esattamente come un
abitante di San Diego può dire I live in California —
tra parentesi, proprio la California ha superato New York come stato
più popoloso degli Stati Uniti nel 1970. Oltre a Manhattan,
di New York City fanno parte altri quattro distretti o
boroughs: Brooklyn, The Bronx, Queens, e
Staten Island (chiamato Richmond fino al 1975), e
tuttavia quando si pensa a New York di solito ci si riferisce
a Manhattan. A sua volta quest’isola è tutt’altro
che uniforme, perché al suo interno ci sono Chinatown,
Little Italy, la Harlem negra e quella ispanica, ecc. I
gruppi etnici si sono addensati in aree precise per difendersi in un
clima ostile, ma questo ha perpetuato le divisioni e i sospetti. Se
c’è una lezione da imparare, è quella di non
commettere lo stesso errore, ghettizzando gli immigrati.
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"Ladies" e "Gentlemen"
Questa sera parlerò di un
argomento che non è il massimo della finezza ma che pure ha
una sua precisa importanza per il viaggiatore e il turista. E’
utile sapere, ad esempio, che se negli Stati Uniti avete bisogno di
una toilet dovete cercare la restroom — la
traduzione letterale sarebbe "camera da riposo." Sulle
porte, se non c’è qualche immagine o pittogramma,
troverete di solito le scritte GENTLEMEN e LADIES. A
volte si trova GENTS, come plurale di gent
abbreviazione di gentleman, e anche MEN e WOMEN,
ma questo negli ambienti meno formali.
A meno che non vi troviate a
Disneyland: — perché il quel caso si è
PRINCES o PRINCESSES, principi o principesse. E in un
locale per giovani in California alla fine degli anni ’60 sulle
due porte c’erano le scritte BONNIE e CLYDE con
riferimento ai protagonisti di un film allora molto in voga.
Ma viaggiando si trova di tutto —
dalle scritte in lingue sconosciute (se siete in Ungheria, ricordate
che la parola che comincia per F NON si riferisce alle
femmine) a piccoli quiz — come quando ci abbiamo messo un po’
di tempo a capire come stessero le cose nella toilette di un
ristorante francese, finché un collega ha notato che una porta
era rosa e l’altra era azzurra.
Nei locali pubblici inglesi
l’accesso alle toilets richiedeva l’inserimento di
una moneta da un penny — una di quelle vecchie, grosse,
di rame — e to spend a penny, "spendere un penny,"
è rimasto come eufemismo per "recarsi ai servizi."
Come il nostro "vado a lavarmi le mani," anche l’inglese
I’m going to wash my hands è un’espressione
corrente tra persone educate. Un’altra forma usata dalle
signore è I’m going to powder my nose "vado
a incipriarmi il naso" e in alcuni ambienti molto formali e
tradizionalisti si parla tuttora di powder room, "il
locale della cipria" per indicare la toilette femminile.
Nelle case inglesi, invece, spesso
vi sono due locali separati per bathroom e toilet, e
quindi se chiedete del bagno per usare la forma più educata
può darsi che vi indichino la porta sbagliata. L’espressione
water closet, da cui viene WC, non la usa più nessuno;
la sigla la si trova quasi esclusivamente nella descrizione di case
in vendita o di alberghi.
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Consonanti a coppie
In una recente trasmissione ho
accennato indirettamente al fatto che abbiamo coppie di suoni
consonantici; provate a pronunciare due parole italiane come "fino"
e "vino:" potete notare che all’inizio, per entrambe
le consonanti iniziali, i denti superiori sono a contatto con il
labbro inferiore e l’aria spira per tutta la durata delle
consonanti stesse. Potete fare un’altra prova tenendo più
lunghe le consonanti, per esempio in "beffe" (plurale di
"beffa") e "bevve," passato di "bere."
Qual è allora la differenza tra f e v, se entrambe sono, per
dirla in termini tecnici, spiranti labiodentali? La differenza è
che mentre pronunciamo il suono [f] le corde vocali non vibrano,
mentre pronunciando [v] vibrano. Potete avvertire la differenza
appoggiando le dita sul pomo d’Adamo mentre pronunciate le due
consonanti. Riprendendo due termini già usati in precedenti
occasioni, diciamo che [f] fa parte delle consonanti sorde e
[v] delle consonanti sonore.
Anche alla grafia th
corrispondono due suoni: quello sordo lo troviamo in three, il
numero 3 e Thursday, "giovedì." Quello sonoro
nell’articolo the e nei dimostrativi this e that
— e entrambi si ritrovano in molte altre parole.
Tutta questa premessa ci serve per
sottolineare un’altra regolarità della pronuncia
inglese: la presenza di una consonante sorda alla fine dei nomi o
degli aggettivi e della sonora alla fine dei verbi corrispondenti. In
qualche caso la grafia rimane identica: to use con la [z]
sonora è il verbo "usare," the use con la [s]
sorda è il nome "l’uso." Lo stesso in close
[klouz] the door "chiudi
la porta" e a close [klous]
friend "un amico intimo."
Ci sono altri casi in cui
l’alternanza tra sonora e sorda viene indicata anche nella
grafia: the extent (con la [t] sorda finale) è
"l’estensione" e to extend, con la sonora [d],
è il verbo "estendere." Proof è la
prova, la dimostrazione, e to prove è il verbo
"provare" nel senso di "dimostrare:" nella
pronuncia c’è solo l’alternanza tra la consonante
sorda e la sonora [pru:f pru:v],
nella grafia cambiano un paio di lettere. Teeth (col th
finale sordo) sono i denti e to teethe (col th finale
sonoro) è il "mettere i denti" del bambino piccolo.
In qualche caso c’è
anche un cambiamento di vocale: l’esempio più importante
è life [laif] "la vita" e to live
[liv] "vivere."
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Con le migliori qualifiche
In italiano gli aggettivi che
accompagnano i nomi a volte possono precederli o seguirli senza
grosse differenze nel significato: "una dolce serata" o
"una serata dolce" sono espressioni che molto spesso si
possono scambiare tra loro. In inglese si può dire solo a
sweet night con l’aggettivo sweet sempre prima del
nome night. Questo vale anche quando gli aggettivi sono più
di uno "un nuovo libro, molto interessante" è a
new, very interesting book. Adult e contemporary
sottintendono la parola music che viene dopo i due aggettivi.
Ci sono poche eccezioni e si
riferiscono tutte a cariche ufficiali come quella di Pubblico Notaio
notary public, Console Generale Consul General,
Presidente eletto President Elect, erede presunto (al trono)
heir apparent, e così via. Queste forme si sono per
così dire cristallizzate nel tempo e risalgono a quando dopo
la conquista normanna il francese era la lingua ufficiale
dell’amministrazione pubblica e della burocrazia in
Inghilterra.
In inglese oggi è rimasta
qualche espressione francese come force majeure "un caso
di forza maggiore."
Al di fuori di questi casi,
l’aggettivo segue il nome solo in presenza di certi verbi o di
usi particolari di quei verbi; darò alcuni esempi: se dico
Charlie painted the white door intendo dire che "Charlie
ha dipinto la porta bianca" — e non è detto se
l’abbia dipinta ancora di bianco o di un altro colore; mentre
invece Charlie painted the door white significa che ha dipinto
di bianco la porta che probabilmente prima era di un altro colore. Un
caso analogo l’abbiamo col verbo to find trovare: Se
Chiara deve fare una ricerca e deve trovare i libri sull’argomento,
la frase Clare found the relevant books vuol dire che Chiara
ha trovato i libri adatti, pertinenti; li ha trovati materialmente,
in biblioteca o in libreria; invece la frase Clare found the books
relevant vuol dire che esaminandoli o leggendoli ha trovato (nel
senso che ha scoperto o accertato) che i libri sono pertinenti.
Se trovate gradevole questo
programma if you find this programme pleasant l’appuntamento
è per domani sera. I like the music sweet "mi
piace che la musica sia dolce..."
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Superlativo!
Può darsi che a quest’ora,
dopo una giornata di lavoro, di studio o di altre attività,
qualche nostro ascoltatore sia stanco, molto stanco, stanchissimo,
stanco morto. In inglese "stanchissimo" e "molto
stanco" si esprimono allo stesso modo: very tired —
non c’è una desinenza che corrisponda al nostro -issimo
ma solo l’avverbio che corrisponde a "molto" cioè
very (tra parentesi, l’avverbio che corrisponde a
"veramente" non è very ma really).
Anche in inglese abbiamo l’espressione dead tired, che
corrisponde esattamente al nostro "stanco morto" tranne che
nell’ordine delle parole: dead, "morto," viene
prima di tired "stanco," e non dopo.
Se per "stanchissimo" si
dice "stanco morto," perché per "lentissimo"
non si può dire "lento morto"? In inglese si può,
e in effetti la conversazione di stasera ha preso lo spunto da un
segnale con la scritta DEAD SLOW che ho visto recentemente
all’ingresso del parcheggio di un club — da noi si usa
un’espressione come "a passo d’uomo." Dead
si usa come rafforzativo in vari altri casi: "Elena era
totalmente contraria alla proposta" Helen was dead against
the suggestion; "l’autobus si fermò
completamente" the bus came to a dead stop. A dead loss è
"una perdita netta," non solo in senso commerciale ma anche
figurato, ossia un evento negativo senza nessuna contropartita
positiva.
A volte dead significa
"esattamente" — "Venere era esattamente al
centro del telescopio" Venus was dead in the centre of the
telescope; "arrivammo esattamente in orario" we
arrived dead on time.
Il colmo della notte è the
dead of night e il colmo dell’inverno è the dead
of winter. Dead si dice anche di linee telefoniche
interrotte o che comunque non funzionano the line went dead
"la linea si è interrotta" (letteralmente "andò
morta"). Dead end è la strada senza uscita,
anche in senso metaforico, ossia detto di un’iniziativa senza
sbocco, che non approda a niente.
La parola dead ha ancora vari
altri usi e significati, ma siccome avevo cominciato con l’ipotesi
che chi è all’ascolto possa essere dead tired non
mi pare il caso di insistere.
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Parole in catene
In inglese è molto più
facile che in italiano costruire catene di parole in cui la prima si
accoppia con la seconda, la seconda con la terza, e così via.
Un esempio è compact disk jockey club house organ music
master piece e la serie potrebbe continuare a lungo.
In questa catena si riconoscono
parole composte molto usate anche da noi, come compact disc
(CD per gli amici) e disc jockey — anche
quest’espressione è spesso abbreviata alle iniziali D.
J.; jockey è in origine il fantino e Jockey Club
è il circolo ippico presente in tutti gli ippodromi e da cui
prende nome un importante gran premio. Club house è
nei centri sportivi — dai maneggi ai campi di golf — il
locale di ritrovo con il bar, la segreteria, ecc. La club house
di un campo di golf ha spesso il nome The 19th Hole, "la
diciannovesima buca."
House organ è nelle
maggiori imprese la rivista interna prodotta dall’ufficio delle
relazioni pubbliche, l’organo aziendale. A proposito, ormai in
italiano si parla di "relazioni" invece che di "rapporti"
con il pubblico, per via dell’inglese relations; in
compenso le relazioni, nel senso di resoconti, si chiamano "rapporti"
sulla base dell’inglese reports. E mentre da noi "Un
PR" è la persona che svolge questa attività, in
inglese PR è solo l’attività in sé.
Da house organ proseguiamo
con organ music che è semplicemente — e
letteralmente — la musica per organo, così come music
master è il maestro di musica. masterpiece, scritto
spesso come una parola sola, tutta unita, è il "capolavoro"
ossia, come in italiano, o l’opera più importante di un
artista o comunque qualcosa di molto ben riuscito.
Abbiamo messo insieme, abbastanza
casualmente, nove parole — ripeto la catena: compact disk
jockey club house organ music master piece, un po’ per
ribadire che la lingua inglese ha un alto grado di componibilità
e un po’ per dare un filo conduttore ai nostri vagabondaggi tra
le parole. Se avete voglia, provate a trovare qualche catena del
genere.
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DEAL
Quando il Presidente Roosevelt negli
anni ‘30 cambiò il corso della politica economica con
interventi pubblici in un sistema che era sempre stato rigorosamente
privatistico, si parlò di New Deal e il termine è
entrato nell’uso internazionale e, ormai, nei libri di storia.
Deal è una parola che si usa come nome e come verbo e
ha vari significati. Si adopera spesso nel senso di "quantità"
nell’espressione a great deal: "ci vuole molta
pazienza con lui" you need a great deal of patience with him.
Un affare grosso, una trattativa importante, è a big deal.
Il verbo deal corrisponde in
buona misura al nostro verbo "trattare" sia nel senso di
"avere per argomento" che in senso commerciale. Non però
nel senso di "trattare bene o male qualcuno" o "curare
una malattia," per cui si usa treat. Vi do alcuni esempi,
pregandovi di fare attenzione alla parola che segue deal.
"Questo libro tratta di
problemi sociali" this book deals with social problems.
In italiano abbiamo "trattare di," in inglese deal with.
With lo ritroviamo in frasi
come "Trattiamo con il Giappone e altri paesi orientali" we
deal with Japan and other Eastern countries e "non so come
trattarlo" I don’t know how to deal with him. Il
tipo di merce trattata è invece introdotta dalla preposizione
in: "trattiamo merci di cotone" we deal in cotton
goods. Dealer è il commerciante in genere e, in
qualche caso, è il distributore: "abbiamo rivenditori in
tutte le città principali" we have dealers in all the
major cities.
Il senso di "distribuire"
lo troviamo anche nei giochi di carte, dove deal è
appunto il "dare le carte" e dealer è il
mazziere.
Deal a blow significa "dare
un colpo" sia in senso fisico che in senso morale: "la
notizia diede un colpo mortale alle mie speranze" the news
dealt a mortal blow to my hopes. Dealt è il passato
irregolare di deal.
Quindi c’è
molto da dire trattando di to deal:
there’s a great deal to say
dealing with deal.
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CAN
Una delle parole più usate
nella lingua inglese è il modale can. I modali sono
quei verbi ausiliari che indicano volontà, possibilità,
obbligo, permesso, ecc. e che quindi corrispondono ai nostri "potere,
volere e dovere" seguiti da un altro verbo.
Can esprime la possibilità
di fare qualcosa: "stasera sono libero, possiamo andare al
cinema" I’m free tonight: we can go to the cinema;
esprime anche la capacità di fare qualcosa e in questo caso
corrisponde all’italiano "sapere:" "Chiara sa
guidare molto bene" Clare can drive very well.
Can si usa anche per chiedere
e per dare il permesso: "posso prendere a prestito la sua penna,
per favore?" Can I borrow your pen,
please? "Ora potete andare"
you can leave now.
Un altro uso riguarda il valore di
verità che si attribuisce a un’affermazione. Come in
italiano: se dico che "il treno è in ritardo" faccio
un’affermazione; se dico che "il treno può essere
in ritardo" faccio un’ipotesi, ad esempio per spiegare
come mai una certa persona non sia ancora qui. In inglese the
train is late esprime certezza — the train can be late
introduce un elemento di dubbio, una supposizione. In questo caso si
usa spesso may, invece di can, ma ce ne occuperemo
un’altra sera — i modali è meglio studiarli uno
per volta.
Il modale can ha una forma
could che corrisponde al nostro "potrei, potresti,"
ecc. e come il condizionale italiano attenua la forza di can e
quindi viene usata, ad esempio, per essere più gentili nel
chiedere un favore: could I borrow your pen please? "potrei
prendere la sua penna, per favore?"
La forma negativa di can è
cannot, scritta come una parola di sei lettere, e la forma
contratta è can’t. Vediamo ora un gioco di
parole: chi può dire we eat what we can and we can what we
can’t? Per capirlo bisogna sapere che can è
anche il barattolo o la lattina, da cui deriva il verbo to can
"inscatolare." La frase allora significa "mangiamo
quel che possiamo” we eat what we can “e
inscatoliamo quel che non possiamo” we can what we can’t
— sottinteso eat, “mangiare”. Sono contadini
che inscatolano ciò che producono e che loro stessi non
riescono a mangiare.
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Complimenti?
Una delle espressioni inglesi che
spesso vengono fraintese è il With Compliments sui
biglietti che accompagnano certi oggetti che ci vengono dati. Nessuno
ci sta facendo i complimenti o si sta congratulando con noi:
semplicemente si intende dire che la cosa viene offerta in omaggio —
una traduzione accurata sarebbe quindi "con i nostri omaggi."
Lo stesso vale per l’aggettivo che ne deriva, complimentary:
una copia omaggio (di una pubblicazione) è una complimentary
copy e un campione gratuito di un prodotto è un
complimentary sample.
I complimenti, nel senso di
felicitazioni o rallegramenti per qualche successo o fatto positivo
sono congratulations: "complimenti per la promozione"
congratulations on your promotion.
L’espressione “fare
complimenti” è intraducibile in inglese semplicemente
perché non si usa la manfrina di fingere di rifiutare sapendo
che chi ospita insisterà perché si accetti: in
Inghilterra un no, thank you viene preso alla lettera, come
desiderio di non avere ciò che viene offerto. Per non
rischiare di restare senza qualcosa che vi va di avere, rispondete
subito YES, PLEASE — avrete notato la differenza tra yes
please e no thank you, mentre in italiano è "sì
grazie / no grazie;" se dite solo thank you la persona a
cui rispondete resterà incerta ma è più facile
che lo prenda per un "no" che per un "sì."
Quando un inglese dice make yourself at home "fa’
come se fossi a casa tua" dice sul serio; quando durante un
party si servono i rinfreschi chi ospita non si preoccupa più
di tanto di badare che ognuno si serva a proprio gradimento, lo dà
per scontato. Per inciso, l’inglese ha due parole diverse per
chi ospita: host, femminile hostess, e chi viene
ospitato: guest, mentre l’italiano "ospite" è
ambiguo.
Tornando ai complimenti, in inglese
non abbiamo nemmeno un’espressione che traduca direttamente
"fare i complimenti" nel senso di dire cose carine a
qualcuno — a proposito del suo aspetto, della sua simpatia o
altro. Non intendo dire che gli inglesi o gli americani non sappiano
fare i complimenti: di espressioni gradevoli dette per far piacere
agli altri esprimendo apprezzamento ce ne sono fin che se ne vuole.
Solo manca una parola che esprima l’idea globale e collettiva
che in italiano si riassume nei "complimenti."
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MUST (e dintorni)
Per dire che qualcosa è
d’obbligo, perché è molto bella, importante o
prestigiosa, si dice che è un must — e un
produttore di beni di lusso ha dato questo nome a una sua linea di
prodotti. In questo caso si usa come nome una parola, must,
che di solito è un verbo modale, il modo più comune in
inglese per esprimere "dovere."
Più precisamente, must
indica di solito un obbligo che sorge dalla persona che parla: se in
italiano dico che "Giorgio deve andarsene subito," non è
chiaro se se ne deve andare perché lo voglio io o perché
altre circostanze glielo impongono; o meglio, la frase in sé è
ambigua, poi di solito il contesto ci permette di capire in che senso
"deve." In inglese, invece, cambia anche il verbo: George
must go at once indica che sono io a obbligarlo, mentre George
has to go at once vuol dire che qualcos’altro, diverso
dalla mia volontà, lo costringe ad andare.
Se parlo in prima persona, come ad
esempio in "questa sera devo restare a casa," con I must
stay at home tonight indico che sono io a imporlo a me stesso
mentre I’ve got to stay at home tonight vuol dire che mi
tocca stare a casa perché c’è qualche circostanza
che mi costringe a non uscire.
Come l’italiano "dovere,"
must viene usato non solo per esprimere obbligo ma anche
supposizione; se dico di una tale che "deve avere più di
50 anni" she must be over fifty, evidentemente non le
impongo niente — voglio solo segnalare che non sono
perfettamente sicuro di quello che sto dicendo, se no, userei la
forma senza "dovere" e direi "ha più di 50
anni" she is over fifty.
Negli esempi abbiamo sentito che per
segnalare un obbligo esterno si usa il verbo have,
eventualmente accompagnato da got, seguito dall’infinito
col TO del verbo. "Devi stare attento"
you’ve got to be careful,
"deve preparare un esame" she
has to prepare an exam.
Ora il mio tempo sta per finire, my
time is up, devo terminare I have to stop: chi ama la
radio sa che questa trasmissione è un must.
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Ma loro, come lo dicono?
Dedico la conversazione di stasera
alla pronuncia di parole inglesi note anche a noi per motivi diversi
ma solitamente rese in modo distorto. Ho già chiarito qual è
il mio punto di vista su questo problema, ma lo ripeto per coloro che
non avessero ascoltato altre mie trasmissioni sull’argomento.
Sono del parere che quando parliamo
in italiano dobbiamo dire le parole inglesi come le dicono tutti —
se vogliamo farci capire e non fare gli snob. Le Cascate del Niagara
sono le cascate del Niagara e non le cascate del [naiègara].
Però se ci capita di andare negli Stati Uniti o in Canada
dobbiamo chiedere delle Niagara Falls, altrimenti se diciamo
Niagara all’italiana faranno molta fatica a capirci. Così
come, ne parlavo un’altra sera, se dobbiamo recarci a Derby
in Inghilterra sarà bene che diciamo [da:bi],
ma Milan-Inter è il derby e non il DERBY [da:bi]—
e tanto meno il [doeurbi] che non
esiste proprio come pronuncia.
Il transatlantico che affondò
tragicamente nella traversata inaugurale si chiamava, in inglese,
TITANIC [taitènik], da TITAN [taitn] che nella mitologia
antica era il titano; in anni più recenti, TITAN è
anche il nome del missile americano delle prime missioni spaziali.
La città dell’Arizona
che da noi viene detta [tukson] o
[takson] dai suoi abitanti è
chiamata TUCSON [tu:sa:n] — e
lo stato che si scrive ARKANSAS si deve pronunciare [arkanso:];
pare che ci sia una legge, vecchia ma mai abrogata, per cui è
illegale, nello stato dell’ARKANSAS, usare una pronuncia
scorretta.
La strada di Londra con i club più
esclusivi si chiama Pall Mall e la pronuncia più
tradizionale è [pel mel] — il suo nome deriva dal gioco
della palla-maglio di origine francese. Una pronuncia americana [po:l
mo:l] esiste ma non si riferisce alla via di Londra ma alle
sigarette.
Non è un caso che quasi tutte
le parole di cui ci siamo occupati questa sera siano nomi propri.
Sono i nomi che più di altri seguono percorsi alternativi e si
allontanano dalle regole più diffuse. E non soltanto quelli
geografici, ma anche i cognomi. Lo scrittore CRICHTON che molti
chiamano [kric’ton] in realtà
si chiama [kraitn]. E un attore
americano di origine italiana, DON AMECHE [don
amici] proprio da noi trovava il cognome storpiato in Ameche o
anche alla francese, Amèche. E a questo proposito, uno dei più
noti popoli nativi nord americani si chiama APACHE [apèci]
e non Apache, alla francese, come diciamo noi.
Sono solo esempi, mi basta segnalare
il problema e semmai raccomandare l’uso di qualche buon
dizionario della pronuncia inglese.
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Se plurale deve essere...
Ho ricevuto recentemente una lettera
in cui la parola computers è scritta con la esse del
plurale inglese anche se in quel contesto si parla di un solo
computer, al singolare. E in un’intervista un personaggio dello
spettacolo ha detto "un mio fans." In quest’ultimo
caso può trattarsi benissimo di un lapsus — so per
esperienza diretta come sia facile prendere delle papere, e in quanto
alle lettere, ho l’impressione che sempre meno persone
rileggano quello che hanno scritto, prima di spedirlo. In ogni caso
mi pare significativo che si sia commesso proprio quell’errore,
che rivela non solo una conoscenza approssimativa dell’inglese
ma anche uno scarso rispetto della grammatica italiana.
Non capita spesso, ma una volta
tanto ci sono due regole abbastanza chiare e precise. La prima è
che in italiano le parole di origine straniera o che comunque
finiscono con una consonante sono invariabili — e quindi
diciamo (o dovremmo dire) "praticare molti sport," "ci
sono in giro dei bei film," eccetera. Finora non ho sentito dire
*”i gases” per "i gas" o *“gli autobuses”
per "gli autobus" ma ho paura che arriveremo anche a
questo.
L’altra regola è che le
parole importate da altre lingue, i cosiddetti "prestiti,"
seguono le norme della lingua che li accoglie.
In inglese troviamo il plurale
all’inglese dei prestiti italiani: ad esempio, le pizze sono
PIZZAS, gli affreschi sono FRESCOS e le terrecotte sono TERRACOTTAS.
Un caso a parte sono quelle parole che non si usano al singolare se
non in rari casi e che sono state importate in inglese direttamente
al plurale, parole come SPAGHETTI, MACARONI, ZUCCHINI e CONFETTI (che
però non sono quelli che noi chiamiamo "confetti,"
ma i coriandoli).
La regola del plurale inglese dei
prestiti non vale solo per quelli italiani ma per tutte le lingue
moderne. I primi satelliti sovietici erano detti *“sputniks”
e non “sputniki”. Se si volesse essere corretti
bisognerebbe conoscere le regole della formazione del plurale di
tante lingue. "Yogurt" è una parola di origine turca
— ma come fa al plurale in turco? Non sapendolo, seguiamo le
regole: in inglese, caso mai venisse usato il plurale, sarebbe
yoghurts e in italiano "gli yogurt". Non avrebbe
senso usare in italiano il plurale inglese per una parola turca.
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Plurali classici
Parlando ieri sera di prestiti,
ossia di parole importate in inglese da altre lingue ho precisato a
un certo punto che le regole del plurale valevano per le lingue
moderne. Era una precisazione importante a cui non ho dato rilievo
per mancanza di tempo e perché avevo deciso di riprendere il
discorso stasera. Per i prestiti da lingue classiche, infatti, si
seguono spesso le regole di quelle lingue.
In questi quattro mesi di
conversazioni radiofoniche sulla lingua inglese ho già
ricordato un paio di volte una parola come medium, e
soprattutto il suo plurale media, molto importante per via dei
mezzi di comunicazione sociale o mass media. Medium ha
tuttavia altri significati; come da noi "medium," indica la
persona che avrebbe il potere di mediatore tra noi e gli spiriti dei
trapassati — in questo senso si usa spesso il plurale
all’inglese mediums; in inglese medium è
anche un termine scientifico per indicare una sostanza che fa da
ambiente a un processo biologico (come il "brodo di coltura"
delle cellule) o comunque considerata come mezzo di trasmissione di
una forza o di un effetto.
Un altra parola che ha entrambe le
forme plurali è formula; nel senso di formula
matematica o chimica si usa il plurale alla latina formulae e
pronunciato con una i prolungata come suono finale; nel linguaggio
quotidiano formula viene usata per indicare il preparato per
l’allattamento artificiale che viene somministrato con il
biberon, e qui il plurale più frequente è quello
all’inglese, formulas.
La parola data vive ora di
vita propria indipendente da datum, di cui è il plurale
alla latina. Si usa come nome plurale, col verbo alla forma del
plurale e con modificatori come these, many, a few ma non è
mai preceduta dai numerali; e si usa come nome astratto solo
singolare, con verbi e modificatori singolari (come this, much,
little), e richiamandola col pronome it. Entrambi gli usi
sono corretti e correnti, ma la forma plurale è più
frequente nei testi a stampa, evidentemente perché la
impongono molti editori.
Il plurale terminante in -a
lo troviamo anche in parole di origine greca come phenomena —
qui il plurale è abituale perché di solito, nelle
scienze e in filosofia non si parla di casi isolati ma di fenomeni
complessi. La parola phenomenon, al singolare e spesso
abbreviata in phenom, la si usa invece per indicare individui
eccezionali, strani o molto particolari — anche in italiano si
può dire in questo senso che una certa persona "è
un fenomeno" o "ha un talento fenomenale."
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Ancora sui prestiti classici
Per la terza trasmissione
consecutiva torno a parlare delle parole straniere, classiche e
moderne, presenti in inglese. Ieri sera non ha fatto tempo a dire
delle parole di origine latina che sono originariamente dei plurali
neutri in -a ma che ormai si usano come singolari. Una di
queste parole è agenda (anche in italiano "agenda"
è un nome singolare); in inglese indica non il taccuino ma
quello che noi chiamiamo "l’ordine del giorno" di una
riunione o il programma di lavoro in un progetto.
Una parola dello stesso gruppo, che
si usa sempre meno, come l’oggetto a cui si riferisce, è
candelabra che è il candeliere a più braccia.
Un’altra lingua classica da
cui provengono parole col plurale irregolare è l’ebraico.
Cherub ha il plurale cherubim per indicare i cherubini,
e seraph ha seraphim per i serafini. Notiamo che in
italiano "cherubino" e "serafino" sono parole
singolari che si sono modellate sul plurale ebraico e non sul
singolare. Il plurale all’inglese cherubs è usato
solo per gli angioletti nella pittura o nella scultura e, per
traslato, per le persone che hanno l’aspetto roseo e ingenuo di
un bambino.
Il plurale in -im lo troviamo
anche in un’altra parola ebraica ma questa volta moderna, nata
nel 1944: si tratta del kibbutz. Un po’ perché la
stampa inglese ne ha parlato subito al plurale adottando la forma
ebraica, un po’ perché il plurale all’inglese, che
sarebbe *kibbutzes, suona male, kibbutzim è
ormai entrato stabilmente nell’uso.
Visto che siamo tornati ai giorni
nostri, ricordo che in italiano abbiamo le quattro forme degli
aggettivi come "buono, buona, buoni, buone" mentre in
inglese c’è solo good, maschile femminile e
neutro, singolare e plurale.
Un esito curioso riguarda la parola
bravo, o, più spesso, bravò con l’accento
in fondo alla francese (!), usata insieme agli applausi per esprimere
l’apprezzamento da parte del pubblico. In inglese si applica la
regola per cui gli aggettivi sono invariabili e quindi si grida bravo
anche se l’artista è femmina o se sono in più di
uno. bravo, quindi, (e non *brave) anche alle Spice
Girls — se vi piacciono...
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Conosci la Gran Bretagna?
Qualche tempo fa è stata
condotta un’inchiesta tra gli studenti di una Facoltà
per Interpreti e Traduttori per verificare la loro conoscenza del
Regno Unito. Si trattava quindi di studenti accuratamente selezionati
in base alle loro conoscenze linguistiche e presumibilmente molto
interessati verso i Paesi stranieri — proprio per questo i
risultati sono stati molto deludenti.
Le domande erano di vario tipo:
alcune di carattere tradizionale, come quella di indicare il capo del
governo — e una persona su cinque o non ha risposto o ha
indicato la regina invece del Primo Ministro (che allora era Mrs
Thatcher); altre chiedevano di segnare su una cartina muta la
posizione delle città più importanti e il corso dei
cinque fiumi principali. Non pochi hanno fatto sfociare il Tamigi nel
Canale della Manica, e alcuni hanno dato l’idea o di non sapere
dove si trova Londra o di non ricordare che il Tamigi la attraversa.
Alla domanda di indicare quale sia
la seconda città britannica per popolazione, solo uno studente
su sei ha dato la risposta esatta. E’ come se l’84% degli
studenti stranieri di italiano non sapesse che dopo Roma in Italia
c’è Milano. Si tratta di una grande città
industriale, con oltre un milione di abitanti, gemellata con Milano
come tutte le seconde città dei grandi paesi europei (assieme
a Barcellona, Lione e Francoforte) ma da noi quasi sconosciuta.
Non ho né la voglia né
i titoli per fare la predica a nessuno, ma se abbiamo problemi nei
rapporti con l’Europa — dagli immigrati alle quote latte
— forse un po’ dipende dal fatto che conosciamo poco e
male gli altri Paesi e magari ci importa poco di eleggere
rappresentanti al Parlamento Europeo sulla base delle capacità
dei candidati come negoziatori e amministratori e non sulla base
degli schieramenti interni. L’Inghilterra è entrata
nella Comunità nel 1973 dopo anni di discussioni se fosse
meglio importare il burro dalla Germania e Danimarca o continuare a
farlo arrivare dalla Nuova Zelanda — e questioni simili, che
almeno dimostrano concretezza e la consapevolezza che la Comunità
ha le sue regole, i suoi pregi e i suoi difetti.
Alle ultime elezioni europee in
Irlanda si sono scelti i candidati indipendentemente dai partiti pur
di garantire la presenza di persone preparate. Da noi, forse qualcuno
lo ricorda, c’erano appena state le elezioni politiche, e le
europee sono state utilizzate come una specie di esame di riparazione
pro o contro Berlusconi.
Sapere le lingue, e in particolare
l’inglese, dovrebbe proprio servire ad aprirsi verso gli altri
popoli e paesi.
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Errori maiuscoli
Parlando di popoli e di lingue
qualche sera fa ho detto che in inglese tutti i nomi e gli aggettivi
di nazionalità si scrivono con l’iniziale maiuscola
anche quando gli aggettivi sono usati per indicare la lingua: in ogni
caso, quindi, English si scrive con la E maiuscola e Italian
con la I maiuscola.
Si scrivono maiuscoli anche gli
aggettivi riferiti alle religioni: Christian, Catholic,
Protestant, Muslim, eccetera. Lo stesso vale per gli aggettivi
riferiti ai partiti e movimenti politici: Conservative,
Republican, Socialist, Communist, ecc. Per essere più
precisi, queste parole si scrivono con la minuscola se non c’è
un riferimento politico diretto o nei loro altri significati —
per esempio, per dire che una stima dei danni è cauta e
moderata si parla di a conservative estimate of the damages,
intendendo con questo che la cifra è probabilmente stimata per
difetto. Le maiuscole si usano sempre, in particolare, nei nomi dei
partiti e nelle designazioni dei governi, come in "Partito
Democratico" The Democratic Party, "governo
laburista" The Labour Government.
Sempre maiuscoli devono essere
scritti anche i nomi dei giorni e dei mesi — e non chiedetemi
perché invece quelli delle stagioni no. E tra le parole che si
scrivono sempre maiuscole c’è il pronome I, "io".
Nei titoli dei libri e anche in
molti titoli di giornali si usa spesso l’iniziale maiuscola per
tutte le parole importanti — nomi, verbi, aggettivi e avverbi —
mentre restano minuscoli gli articoli, gli ausiliari, le preposizioni
e le congiunzioni, a meno che non siano la prima parola del titolo,
che comincia sempre con la maiuscola.
Per il resto l’uso inglese è
simile a quello italiano. "Lettera maiuscola" si dice
capital letter e l’aggettivo capital si usa per
"maiuscolo" anche in senso metaforico: a capital joke
"uno scherzo maiuscolo" o "una battuta
divertentissima." Per indicare che qualcosa deve essere scritto
in tutte maiuscole, come su certi moduli, si usa l’espressione
block capitals. La lettera minuscola è semplicemente
una small letter una lettera piccola. Termini più
tecnici per maiuscole e minuscole sono rispettivamente upper-case
letters e lower-case letters.
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Città britanniche
Qualche sera fa ho parlato di una
ricerca per vedere quale immagine ha della Gran Bretagna un certo
numero di italiani selezionati su un campione di studenti. Riferivo
che alla domanda di indicare quale sia la seconda città
britannica per popolazione, solo uno su sei ha dato la risposta
esatta. E osservavo che è come se l’84% degli stranieri
non sapesse che dopo Roma in Italia c’è Milano. Si
tratta di una grande città industriale, con oltre un milione
di abitanti, gemellata con Milano come tutte le seconde città
dei grandi paesi europei (assieme a Barcellona, Lione e Francoforte)
ma da noi quasi sconosciuta.
Non ho detto di quale città
si tratta e quindi questa sera do la soluzione per chi avesse dei
dubbi: la città è Birmingham, nella regione
delle Midlands o "terre di mezzo," nel cuore
dell’Inghilterra. Una delle ragioni della scarsa notorietà
di questa città può essere il fatto che non se ne parla
nelle cronache sportive — a differenza di quanto avviene per
Manchester, Liverpool, Newcastle, Nottingham o Leeds.
Infatti la squadra di calcio di prima divisione di Birmingham
si chiama Aston Villa. Aston è un importante
quartiere nella zona nord della città, con la seconda
università e altre istituzioni importanti. In parte è
un caso analogo a quello della Sampdoria, con la prima parte del nome
che si riferisce a Sampierdarena. E non sapere in quali città
giocano l’ Arsenal, il Crystal Palace, il Celtic
o i Rangers è come non sapere quale sia la città
di Inter, Juventus, Lazio o Atalanta.
Alcune squadre di Londra prendono il
nome dal quartiere di origine: Chelsea, Tottenham e Wimbledon
— ma quest’ultimo è molto più noto per il
torneo di tennis.
Prima ho citato Celtic e
Rangers che non giocano nel campionato inglese English
League ma in quello scozzese Scottish League perché
sono le squadre di Glasgow. Oltre che dalla normale rivalità
sportiva sono divise dal fatto di essere le squadre preferite
rispettivamente dai cattolici e dai protestanti e quindi non è
raro che le partite tra queste due squadre si carichino anche di
tensioni sociali. La capitale della Scozia, Edimburgo Edinburgh
è detta The Heart of Midlothian "il cuore della
contea del Lothian centrale" e da questo prende il nome la
squadra, Hearts of Midlothian, detta semplicemente Hearts,
i cuori.
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Motivazione
Mi è stato chiesto, in
privato, se queste lezioni di inglese per radio possono davvero
servire per imparare l’inglese. La domanda mi è sembrata
interessante e vorrei dare una risposta rivolgendomi a tutti gli
ascoltatori. Anzitutto io non ho mai usato la parola "lezioni"
ma semmai ho parlato di "conversazioni" che hanno per
argomento la lingua inglese e qualche volta anche la cultura, la
storia, la geografia e le istituzioni dei paesi di lingua inglese.
Una lezione ha una durata diversa,
fa parte di un ciclo di interventi ossia di una serie ben
organizzata, prevede degli esercizi e soprattutto, nel caso delle
lingue straniere, prevede una possibilità di dialogo —
per imparare a parlare l’inglese bisogna avere l’occasione
di parlarlo, di far pratica; la radio offre solo la possibilità
di un ascolto. Ho l’impressione — ma è solo
un’impressione che non posso verificare — che chi mi ha
seguito con una certa regolarità probabilmente ha imparato due
frasi: quella con cui vi saluto all’inizio, Good evening,
ladies and gentlemen! e quella conclusiva che riprende il "dolce
è la sera, dolce è la notte" di questa
trasmissione: sweet is the night on Circuito Marconi! In
entrambi i casi, e specialmente nel secondo, non si tratta di
espressioni che possono servire nella vita di ogni giorno.
Queste conversazioni si ascoltano
nell’atmosfera rilassata del programma, come diversivo e come
accompagnamento di altre attività — a questo proposito,
una collega mi ha detto di avermi ascoltato in taxi e vorrei mandare
un cordiale saluto ai tassisti sintonizzati sul Circuito Marconi. E’
molto facile dimenticare quello che si ascolta per passatempo, senza
un particolare impegno e senza una vera necessità di
ricordarlo — direi anzi che è normale dimenticarlo.
Però qualcosa può colpire l’attenzione, può
far scattare un ricordo o chiarire un dubbio, può suscitare
una curiosità o stimolare una riflessione — e questo
qualcosa è diverso per ciascun ascoltatore.
Forse una sola cosa vorrei riuscire
a comunicare: il fascino che esercitano le lingue, come espressione
dell’anima degli altri popoli. Per imparare qualsiasi lingua la
premessa essenziale è proprio questa sensazione di attrazione,
di solidarietà verso gli altri, questa voglia di conoscere
modi di esprimersi diversi da quelli a cui siamo abituati. E’
stato ampiamente dimostrato che se si ha un’avversione, anche
inconscia, rispetto a una lingua e al popolo che la parla, non la si
impara mai davvero — al massimo si mettono assieme quelle poche
frasi che servono per sopravvivere.
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Ancora itang’liano
Ho detto più volte da questi
microfoni che stiamo cambiando la lingua italiana a causa degli
influssi dell’inglese; ho fatto l’esempio dei profughi,
che adesso si chiamano "rifugiati" per via dell’inglese
refugees — e potrei aggiungere il fatto che nessuno
prende più provvedimenti, ma tutti adottano "misure,"
dall’inglese measures che vuol dire "provvedimenti;"
in inglese la "misura" nel senso di "misurazione"
è measurement e nel senso di "taglia," ad
esempio di un abito, è size.
In inglese l’ansia si chiama
anxiety e oggi molti dicono "ansietà" quando
in realtà vorrebbero dire "ansia." Un caso ancora
più notevole è l’aggettivo "prospero,"
riferito ad esempio a un paese ricco. In inglese si dice prosperous
— a prosperous country e ora mi capita abbastanza spesso
di sentire dire "prosperoso" come sinonimo di "ricco."
Qui non si tratta di capire l’inglese ma di conoscere
l’italiano, di sapere la differenza tra "prospero" e
"prosperoso," tra "una nazione prospera" e "una
balia prosperosa" (di quelle che ormai non esistono più
se non nei vecchi romanzi e nei film storici).
Il fatto strano è che siccome
nella lingua inglese ci sono molte parole di una o due sillabe,
un’imitazione dell’inglese dovrebbe portare a accorciare
le parole italiane, non ad allungarle. Ma l’adozione delle
forme pseudo-inglesi per questioni di prestigio si associa a un altro
fatto: e cioè che sempre per ragioni di prestigio si
preferisce la parola più lunga, soprattutto se in apparenza è
un termine che suona più tecnico o scientifico. Il verbo che
significa "chiarire" in inglese è clarify; un
po’ per ricalcare la forma inglese e un po’ per usare un
termine in apparenza più dotto molti ora preferiscono
"chiarificare" anche se si passa dalle tre sillabe di
"chiarire" e di clarify a cinque — o forse
proprio per questo.
All’inglese specifically
corrisponde l’italiano "specificamente," ossia "in
modo specifico;" per qualche motivo che mi sfugge molti
preferiscono dire "specificatamente" che pure esiste ma
significa "in modo specificato" e quindi non è la
stessa cosa di "specificamente."
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PULL!
Recentemente un quotidiano
commentava le divergenze tra politici e magistrati con una vignetta
in cui un Pubblico Ministero punta la doppietta contro due leader
politici e grida: POOL! con due o e con evidente
riferimento a "mani pulite." La parola usata da chi fa tiro
al piattello è un’altra, molto simile, ossia pull!
"tira" — cioè "tira la corda che fa
scattare il meccanismo di lancio del piattello."
Pull è infatti il
verbo "tirare" e lo ritroviamo nel pullover, che è
quel capo che viene indossato tirandolo al di sopra della testa —
over vuol dire "al di sopra."
La parola pool è
diversa da pull nella grafia, nella pronuncia e nel
significato. In origine pool è la pozzanghera o il
laghetto naturale; poi è stata usata per le cisterne e i
bacini di raccolta artificiali, che consentono di riunire tutta
l’acqua disponibile per poi ridistribuirla a seconda delle
necessità per i diversi impieghi. La piscina si chiama
swimming-pool, da swim, nuotare.
Una seconda parola pool, di
origine francese, indica la "puglia" cioè l’insieme
dei soldi scommessi nel gioco d’azzardo. Anche qui c’è
un’idea di raccolta e di assegnazione; secondo alcuni, la
fusione e confusione tra le due parole pool è stata
accentuata dal fatto che il francese fiche, il gettone nel
gioco a soldi, assomiglia all’inglese fish, pesce, che
può trovarsi in un pool naturale.
Da questa comune idea di raccolta,
messa in comune e ridistribuzione nasce l’uso della parola pool
in economia, per indicare i consorzi di imprese e altri organismi che
riuniscono e coordinano realtà diverse per trarne il massimo
vantaggio e poi dividere equamente i benefici. Uno dei progenitori
del Mercato Comune Europeo è stato il pool del Carbone
e dell’Acciaio.
Oggi alcune linee aeree sono gestite
in pool da compagnie diverse, ognuna delle quali fornisce una
parte dei servizi e alcuni voli. In molte aree urbane degli Stati
Uniti sono state lanciate iniziative di car pool: i pendolari
di una zona residenziale che devono raggiungere lo stesso quartiere
di lavoro sono incoraggiati a mettersi a turno a disposizione di
altri, così che circolano meno auto e ognuno guida la sua una
volta ogni tre o quattro giorni. Il superamento dell’individualità
e la gestione al meglio delle risorse sta anche alla base del pool
che si è costituito al Palazzo di Giustizia.
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BOWL (Super e non)
Il mese scorso negli Stati Uniti si
è disputato il Super Bowl, che è l’incontro
che decide il campionato di football americano professionistico. La
Lega Nazionale, National Football League, si divide in due
gironi, la American Football Conference e la National
Football Conference, che fino al 1966 erano due campionati
distinti. Le squadre vincitrici dei due gironi si incontrano per la
Super Coppa — questo è infatti il significato di Super
Bowl.
Bowl, la parola di cui ci
occupiamo stasera, è infatti la coppa, ma ha anche altri
significati. Il più noto da noi è quello di "boccia"
nel gioco del bowling che in inglese si pronuncia [boulin’]
e che da noi è diventato [buling].
In realtà bowling è
qualsiasi gioco di bocce; in Inghilterra e Stati Uniti il gioco delle
bocce è simile al nostro ma le bocce hanno all’interno
un peso che le sbilancia e le fa curvare quando rallentano —
non è facile dosare il tiro ma se si è bravi si può
andare a punto anche aggirando le bocce già giocate.
Il gioco dei birilli che noi abbiamo
importato nella versione meccanizzata e che chiamiamo [buling]
per gli inglesi è tenpin bowling, dove tenpin
indica appunto i dieci birilli; un tempo i birilli erano nove ma una
legge puritana proibì il gioco del ninepin; la legge
venne aggirata aggiungendo il decimo birillo.
Tornando a bowl, oltre alla
coppa (sia per il vino che come trofeo) la parola indica molti
oggetti che hanno una forma analoga, semisferica: la sugar bowl
è la zuccheriera; in un territorio montuoso bowl è
la conca. La Hollywood Bowl è un enorme teatro
all’aperto che ha il palco racchiuso da un fondale emisferico,
in modo che suoni e voci siano proiettati verso il pubblico. E il
nome di bowl è stato dato anche a altre costruzioni
simili: stadi sportivi — ad esempio per il baseball —
arene, palazzetti e simili.
La parola baseball —
come football — contiene la parola ball "palla"
che non va confusa con bowl anche se la pronuncia è
abbastanza simile.
Ricordo infine che per "coppa"
nel senso di "trofeo sportivo" si usa anche la parola cup,
che nell’inglese di ogni giorno significa invece "tazza"
— una tazza di tè o di caffè sono a cup of
tea, a cup of coffee.
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GUYS and DOLLS
Abbiamo già parlato delle
varie scritte sulle porte delle toilets: GENTLEMEN e
LADIES, di solito; PRINCES e PRINCESSES
(principi e principesse) a Disneyland; BONNIE e CLYDE
in un bar beat degli anni ’60, eccetera. Un’ascoltatrice
mi ha segnalato che nella serie televisiva Happy Days ci sono
GUYS e DOLLS, anche qui con riferimento a un film di
successo che da noi è stato tradotto come “Bulli e
Pupe”. E’ una buona traduzione: dolls sono le
bambole in generale, comprese quelle di cui cantava Fred Buscaglione
nel suo Ehi, bambola!
L’origine di guy è
interessante. La radice è la stessa del nome italiano Guido e
la forma è la stessa del nome francese Guy, un nome portato
anche da personaggi noti, come lo scrittore Guy de Maupassant e lo
stilista Guy Laroche. Guy Fawkes è quello della
congiura delle polveri (ne abbiamo parlato alla fine di ottobre) e da
lui viene il nome comune guy per indicare il fantoccio
bruciato nei falò che ricordano e festeggiano la scoperta
della congiura. Per estensione guy si adopera correntemente
nel linguaggio familiare per dire "un tizio, un tale" —
è una di quelle parole da non adoperare se non si è ben
sicuri di non offendere nessuno: dire there’s a guy that
wants to talk to you è come dire "c’è un
tizio che ti vuol parlare."
La regola generale a cui vale la
pena di attenersi è quella di evitare le espressioni
idiomatiche e gergali se non si è ben sicuri del fatto
proprio. Tornando a guy, la parola è stata ed è
adoperata in vari modi soprattutto nel linguaggio giovanile,
specialmente americano; una ragazza può dire my guy per
indicare "il mio ragazzo, il mio ‘lui’."
Nell’ambiente del film Guys and Dolls o della serie
Happy Days queste parole hanno un valore molto vicino a quello
del romanesco "bulli e pupe," un valore che il film ha
contribuito a diffondere e rafforzare.
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Da verbi ad aggettivi
In inglese, per dire "una
ragazza dagli occhi azzurri" si può dire a blue-eyed
girl, dove dal nome dell’occhio eye si deriva un
aggettivo eyed costruito aggiungendo la desinenza -d
come se si trattasse del participio passato di un verbo. A sua volta,
eyed è preceduto da blue, il colore azzurro, e
l’espressione blue-eyed è usata come un unico
qualificativo davanti a girl. Non è questo il solo
caso: una questione che può essere esaminata da molti lati è
a many-sided question; "Papà Gambalunga," il
protagonista del vecchio film omonimo, in inglese è Daddy
Long-Legs; un uomo come lui, con le gambe lunghe, può
essere descritto come a long-legged man, mentre uno sgabello a
tre gambe è a three-legged stool.
Queste forme in cui nomi come eye,
side e leg diventano participi (eyed, sided
e legged) prendono a modello altre forme in cui il participio
passato funziona da aggettivo: "stanco" è tired,
dal verbo tire "stancare"; "perplesso" è
puzzled dal verbo puzzle — che corrisponde al
nome puzzle (in inglese questa parola indica tutti i
rompicapi, non solo quello dei pezzettini da incastrare: un
cruciverba è un crossword puzzle). Da un verbo come
interest "interessare" derivano i participi
interesting e interested, entrambi usati come
aggettivi, per "interessante" e "interessato."
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Politically Correct
Questa sera voglio spigolare alcune
curiosità da un libro che si intitola The Official
Politically Correct Dictionary and Handbook, pubblicato a New
York nel 1992 e che di ufficiale non ha proprio niente. Sulla quarta
pagina di copertina, in piccolo e in un angolo, la parola humor
chiarisce a quale genere appartiene il libro.
Molti degli esempi riportati nel
libro sono comunque tratti da documenti reali, come quello di una
Società che annunciava il licenziamento di un certo numero di
dipendenti con l’espressione career-change opportunity,
ossia l’occasione buona per cambiare carriera. E la NASA
parlando del disastro del Challenger ha detto che stava
conducendo una anomaly investigation, una "indagine
sull’anomalia." Ricordo che l’anomalia, il
difettuccio, è costata la vita a cinque persone. Sono chiari
tentativi di mascherare realtà di tipo ben diverso.
Se da un lato abbiamo la
sostituzione, più o meno ipocrita, di termini forti ed
espliciti con altri meno forti, dall’altra abbiamo l’operazione
contraria di chi vuole richiamare certe problematiche anche usando
termini particolarmente duri.
Si propone, ad esempio, di non usare
più la parola zoo (abbreviazione di zoological
garden), ma, ad esempio, animalcatraz che ricorda l’isola
di Alcatraz nella baia di San Francisco, un tempo sede di un
famoso penitenziario; una proposta alternativa è zulag,
fusione di zoo e gulag.
Alcuni vegetariani la carne
cucinata, meat, la chiamano invece flesh, che è
la parola che indica la carne viva, o anche processed animal
carcasses, "cadaveri di animali lavorati." E c’è
chi chiama "beni rubati," stolen goods, le uova, il
latte, la lana e tutto ciò che è stato tolto agli
animali vivi.
L’espressione processed
tree carcasses, "carcasse di alberi lavorate," viene
usata da alcuni ecologisti per ricordare che i libri sono fatti di
carta che a sua volta è frutto dell’abbattimento degli
alberi. Assault with a deadly weapon, "assalto con
un’arma mortale," è l’espressione con cui è
stato definito il fumare le sigarette in un ambiente pubblico.
Ogni volta che affronto questi temi
ci tengo a chiarire che non metto in discussione la validità,
o quantomeno la legittimità, delle argomentazioni degli
ecologisti, degli animalisti, dei vegani, ecc. Ne parlo solo dal
punto di vista linguistico, come fenomeno sempre più diffuso e
di cui si deve tenere conto, indipendentemente dal giudizio che si
può esprimere su certe posizioni estreme. E sperando che
l’attenzione alle parole sia seguita dall’attenzione ai
fatti.
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L’inglese settoriale
La parola italiana "gergo"
ha tre significati diversi che corrispondono a tre diverse parole in
inglese. Jargon è il gergo come linguaggio
specialistico: i medici usano tra loro il medical jargon,
avvocati e giudici usano il legal jargon e così via non
solo per le professioni ma un po’ per tutte le attività,
comprese quelle del tempo libero.
Slang è il gergo nel
senso di "linguaggio colloquiale e familiare;" qualche sera
fa abbiamo parlato di guy come parola che può
sostituire man o boy in certi contesti — si
parlava di Guys and Dolls, "bulli e pupe." In
italiano sappiamo quando possiamo permetterci di usare parole di
slang più o meno dialettali, o con richiami più
o meno espliciti a argomenti che possono essere tabù in certe
circostanze: sappiamo quando possiamo dire "Gli hanno fregato il
motorino" e quando invece dobbiamo dire "Gli hanno rubato
il ciclomotore." Dicevo, e ripeto, che usare voci di slang
in inglese è molto rischioso a meno che non si sia ben
inseriti in una cerchia di amici; in tutti gli altri casi è
meglio evitare.
Infine esiste il cant che è
il gergo della malavita e che per definizione è segreto: se
voi sapete — in italiano, in inglese o in qualsiasi altra
lingua — qual è la parola segreta che indica la cocaina,
o fate parte del "giro" della droga oppure vi è
stata detta una parola che i criminali non adoperano più.
Lo studio dei jargons, ossia
dell’inglese specialistico, è molto interessante e
adesso abbiamo delle analisi non solo del fenomeno nel suo complesso
ma anche di settori specifici. Nel 1997 mi sono occupato in
particolare dell’inglese dei mass media e
dell’informatica — e anche in queste conversazioni ho
fatto cenno a temi variamente collegati a questa materia, dal
computer alla comunicazione tra aerei e torri di controllo.
A chi mi ha chiesto dove trovare
un’esposizione sistematica mi permetto di segnalare un libro
uscito da poco, The English of Communication and Information
Sciences, pubblicato a Milano dalle Edizioni Sugarco. Non
richiede una conoscenza avanzata dell’inglese — tutti i
termini tecnici sono spiegati e chiariti nel testo — e contiene
anche letture di vario tipo (il sottotitolo è Analysis and
examples, analisi ed esempi). Ho riportato nel libro brani di una
certa estensione perché i linguaggi specialistici non sono
solo una questione di vocaboli o di fraseologia, ma anche di
organizzazione del discorso. Capire bene il senso globale e la logica
del testo è la premessa indispensabile per capire il senso
delle singole parole.
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Verso l’infinito
Una delle difficoltà che si
incontrano a un certo punto dello studio dell’inglese riguarda
la forma da usare per i verbi che seguono altri verbi. In italiano di
solito c’è l’infinito; in inglese qualche volta
troviamo la forma dell’infinito col to: "voglio
partire subito" I want to leave at once, "cominciò
a piovere" it began to rain; a volte c’è la
forma semplice, senza il to: "fammi vedere le tue foto"
let me see your photos; altre volte ancora c’è la
forma in -ing "smettila di parlare" stop talking.
In qualche caso ci sono delle regole
precise che aiutano: se il verbo regge una preposizione, la
preposizione a sua volta regge una forma in -ing: "sta
pensando di cambiare l’auto" he is thinking of changing
his car; "ha insistito per andare in treno" she
insisted on going by train — to think of e to insist on
vogliono dopo di sé la -ing form del verbo che segue.
Con i verbi come "vedere"
e "sentire" — verbi di percezione — si usa la
forma semplice senza to se l’azione è percepita
completamente, dall’inizio alla fine: "ho visto cadere il
bambino" i saw the child fall; si usa la forma in -ing
se l’azione è percepita in un certo momento del suo
svolgersi: "vedevamo cadere le foglie" we could see the
leaves falling (il cadere delle foglie di un albero può
durare giorni e non è un’azione che si vede dall’inizio
alla fine); se poi il verbo di percezione è alla forma
passiva, è seguito da un infinito col to: "Alex è
stato visto uscire" Alex was seen to go out.
In qualche caso ci sono variazioni
nel senso del verbo; abbiamo detto sopra stop talking,
"smettila di parlare;" ma in he stopped to talk to the
stranger , to stop non significa "smettere di"
ma "fermarsi per:" "si fermò per parlare con lo
sconosciuto."
Dobbiamo evitare di confondere
queste forme we must avoid confusing these forms;
nell’esempio, ho usato confusing perché il verbo
avoid è uno di quelli che reggono la forma in -ing
per motivi propri, lessicali, e non sulla base di regole di
grammatica. Questi verbi, purtroppo, vanno imparati uno per uno.
La -ing form si trova spesso
usata dopo verbi che esprimono il continuare o il cessare di una
azione: "continuò a leggere" she went on reading;
"ha smesso di fumare" he quit smoking o he gave
up smoking o he cut off smoking — è diverso
da he stopped smoking, che è detto di chi
momentaneamente spegne la sigaretta per poi riprendere a fumare alla
prima occasione. Nel caso di go on, give up e cut off
la forma in -ing dipende anche dal fatto che si tratta di
verbi frasali; nel caso di continue, keep, quit e stop
è data dall’idea di proseguimento o cessazione.
Un verbo che cambia significato a
seconda della forma da cui è seguito è remember;
cominciamo con un esempio, confrontando due frasi: "si è
ricordato di imbucare la lettera" he remembered to post the
letter; "si ricordava di aver imbucato la lettera" he
remembered posting the letter. Per dire che ci si ricorda di fare
qualcosa si usa remember seguito da infinito col to:
"per favore ricordatevi di spegnere la luce" please
remember to switch off the light; ma il ricordare di aver fatto
qualcosa in precedenza è indicato dal fatto che il verbo che
segue è alla forma in -ing: "ricordi di aver
spento le luci?" do you remember switching off the lights?;
"ricordo di averlo conosciuto a Venezia" I remember
meeting him in Venice.
Sul verbo remember, già
che ci siamo, diciamo qualcos’altro. Anzitutto che in italiano
posso dire indifferentemente "mi ricordo di te" e "ti
ricordo;" in inglese è sempre e solo I remember you.
L’italiano "ricordare" può anche significare
"rammentare" come in "ricordami di comperare del
formaggio" e in questo caso in inglese abbiamo un altro verbo,
remind: remind me to buy some cheese “ricordami
di comperare del formaggio”. Un reminder è un
promemoria, e in particolare una lettera commerciale in cui si
sollecita il pagamento di un debito; in questo caso il first
reminder è un semplice promemoria, in tono cortese; il
second reminder è in toni più decisi e cita il
fatto che il primo sollecito non ha avuto esito; il third reminder
di solito ha un carattere ultimativo e minaccia un’azione
legale legal steps se la fattura non viene saldata in tempi
rapidi.
Ora devo smettere di parlare I
must give up talking now...
…Questa
volta affronto il tema dell’infinito dei verbi italiani e delle
forme inglesi corrispondenti per parlare delle forme che seguono le
preposizioni — per chi non lo ricordasse, e al termine di una
giornata faticosa si può benissimo non averlo presente, le
preposizioni sono le parole come "di, a, da, per, con, su"
e le altre che hanno la stessa funzione nella frase.
L’infinito italiano preceduto
da "di, a, da, per" spesso corrisponde all’infinito
inglese preceduto da to:
"Spero di andare" I
hope to go; "vieni a trovarmi" come to see me;
"ho molto da fare" I have a lot to do; "studiamo
per imparare" we study to learn. Quando ci sono altre
preposizioni, rette da nomi o da verbi o richieste dal senso della
frase, si usa la forma in -ing:
"Prima di partire chiudi tutto"
close everything before leaving.
"Dopo aver bevuto la birra si
sentì meglio" after drinking the beer, he felt better.
"Ascoltò
la radio invece di guardare la TV" he
listened to the radio instead of watching tv.
"Se ne andò
senza parlare" he went away without
speaking.
"Avevo paura
di offenderla" I was afraid of
hurting her.
Riascoltiamo le
ING FORMS che abbiamo usato: before
leaving "prima di partire;"
after drinking
"dopo aver bevuto;" instead of
watching "invece di guardare;"
without speaking
"senza parlare;" afraid of
hurting "timoroso di offendere."
Con i verbi di moto, a volte si
preferisce sostituire l’infinito del verbo che segue con una
forma coordinata: "vai a dirglielo" go and tell him
— letteralmente, "vai e diglielo." Il "vieni a
trovarmi" che prima avevamo reso con come to see me può
essere anche come and see me.
So che la grammatica è un
argomento faticoso da seguire e quindi non proseguo oltre, almeno per
stasera. D’altra parte, come abbiamo visto più volte,
una certa conoscenza delle regole è importante; non è
solo questione di correttezza o addirittura di eleganza: molte
distinzioni sono indispensabili per evitare di fraintendere quello
che sentiamo o leggiamo, e di dire una cosa per l’altra.
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Che vuol dire NATO?
La conversazione di stasera prende
spunto dalla tragedia di Cavalese e da un paio di parole inglesi che
abbiamo sentito ripetere in quella occasione.
La prima è la parola NATO, di
cui sappiamo che indica l’Alleanza atlantica o Patto Atlantico.
E’ una di quelle parole che nascono come sigle, pronunciate poi
come se si trattasse di parole come le altre — una categoria di
parole a cui appartengono anche radar e laser, scritte
normalmente con le minuscole, accanto ad altre scritte con le
maiuscole e quindi ben riconoscibili come sigle — la RAF, la
CIA, ecc. Tecnicamente distinguiamo questi acronimi, ossia
nomi costruiti con le iniziali, dalle abbreviazioni
pronunciate lettera per lettera, come BBC o CNN.
La pronuncia inglese di NATO è
[neitou] e la sigla sta per North
Atlantic Treaty Organization, "Organizzazione del Trattato
dell’Atlantico del Nord" — se l’avessimo
tradotta, come hanno fatto i francesi, la NATO la chiameremmo OTAN,
che è l’esatto contrario. In inglese abbiamo la
costruzione a sinistra o premodificazione, in italiano la
costruzione a destra o postmodificazione,
Già che parliamo di sigle,
preciso che due di quelle che ho citato prima sono acronimi in
italiano ma abbreviazioni in inglese: la RAF, la Royal Air Force
ossia l’aviazione britannica, in inglese è detta [ar
ei ef]; la CIA, la Central Intelligence Agency
americana, è detta in inglese [si:
ai ei]. In entrambi i casi si fa lo spelling, ossia si
dice la parola lettera per lettera.
L’altra parola è il
nomignolo dato al tipo di aereo che ha causato l’incidente: è
il Prowler [praula]; deriva
dal verbo prowl, predare, con il suffisso -er che
indica chi compie l’azione: quindi è il "predatore."
Nell’uso quotidiano si parla di prowlers con riferimento
agli "sciacalli," nel senso di persone che rubano dalle
case rimaste incustodite per qualche motivo. THE PROWLER è
anche il titolo di un film del 1951 di Joseph Losey, sulla corruzione
nella polizia. prowler o prowl car è uno dei
nomi in gergo dell’auto della polizia — che anche da noi
ha preso il nome da un predatore, la pantera. E’ curioso che
invece altri corpi di polizia abbiano scelto per le loro auto nomi
non di predatori ma di prede, come gazzelle e zebre.
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L’inglese nei cieli
Ieri sera ho parlato del Prowler
"il predatore," un tipo di aereo militare. L’uso di
chiamare in modi particolari alcuni modelli di auto, treno o aereo è
molto diffuso e questa sera parliamo di alcuni altri nomignoli di
aerei, non solo militari.
Il Grumman A-6 è detto
Intruder, letteralmente "intrusore" e come il
Prowler fa riferimento alla capacità di penetrazione in
territorio nemico. Altri nomi sono invece di tono molto più
familiare, come l’F-14 detto Tomcat, ossia il gattone,
il gatto maschio. Alcuni modelli sono noti con il nome di uccelli,
soprattutto rapaci: l’F-15 è detto Eagle,
l’aquila, e l’F-16 viene chiamato Fighting Falcon,
il falcone da combattimento.
L’idea di "battaglia"
la troviamo anche in Starfighter, letteralmente, "combattente
tra le stelle" — il nome del Lockheed F-104. Altri aerei,
come il militare Galaxy e i civili Constellation e
Comet hanno nomi che richiamano le stelle. E ancora prima
degli aerei invisibili al radar della serie Stealth c’erano
apparecchi difficilmente localizzabili, a cui era stato dato il nome
di Phantom, "fantasma."
Anche nell’aviazione civile a
volte ci si serve di soprannomi: il BOEING 747 è detto jumbo
jet. Jumbo era il nome di un enorme elefante esibito dal
circo americano Barnum nel 1883 e da allora la parola viene
usata per indicare oggetti di dimensioni molto superiori a quelle
abituali.
I clipper sono stati i
velieri dell’ultima generazione, le navi a vela più
veloci e funzionali che la marineria abbia mai prodotto e che per
qualche tempo hanno conteso ai piroscafi il ruolo di transatlantici.
Alcuni tra i primi aerei di linea capaci di trasvolare gli oceani
sono stati chiamati Stratoclipper, i clipper della
stratosfera. Un richiamo alla navigazione si è avuto anche col
francese Caravelle.
Altri nomi di aerei hanno avuto o
hanno nomi patriottici come il Britannia o di prestigio come
il Viscount, "il visconte." Oggi si preferisce usare
le sigle che descrivono i vari modelli, a meno che un nome
particolare non corrisponda al marchio stesso, come nel caso
dell’Airbus, l’autobus dell’aria — un
nome rassicurante che suggerisce il volare come attività
quotidiana.
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Lettere da non dire
In un mondo ideale, le lingue si
imparano anzitutto ascoltandole e parlandole, e solo in seguito
leggendole e scrivendole. Questo vale in particolare per una lingua
come l’inglese in cui le corrispondenze tra grafia e pronuncia
sono spesso incerte e problematiche. Nel mondo reale, capita a molti
di dover cominciare a leggere in inglese per motivi di studio e di
lavoro, e poi di cercare di costruirsi un inglese parlato per
comunicare anche oralmente. In questo caso, molti errori di pronuncia
nascono dalla presenza nella grafia di lettere mute, alle quali non
corrisponde nessun suono. In questa trasmissione comincerò a
parlarvi di alcuni dei casi più frequenti.
la <b> è
spesso muta quando è finale preceduta da <m>: bomb
[bom] "bomba", comb
"pettine", dumb "muto, lamb "agnello;"
- e quando è seguita da <t>,
soprattutto se è la penultima lettera: debt [det]
"debito," doubt "dubbio," subtle
"sottile," ecc.;
la <p> è muta
in posizione iniziale davanti a <s>: psychology,
"psicologia," pseudonym. "pseudonimo"
ecc.;
la <g> spesso è
muta in penultima posizione seguita da <n>: foreign,
"straniero," sign, "segno," reign,
"regno," design, ecc. e in posizione iniziale
seguita da <n>: gnome, "gnomo," gnu,
"gnu," e così via;
- la <g> resta muta nella
maggior parte dei derivati (foreigner [fòrina],
"straniero," designer, "disegnatore" o
"progettista") ma è pronunciata in altri, come
signal "segnale;"
la <k> è muta
in posizione iniziale seguita da <n>: know, "conoscere,
sapere," knee, "ginocchio," knife,
"coltello" ecc.
la <l> è
spesso muta in posizione prefinale davanti a <k>: talk,
"parlare," walk, "camminare," folk,
"popolo" ([fouk] è
la pronuncia inglese: noi diciamo [folk] soprattutto per un certo
tipo di musica popolare). A questa regola ci sono eccezioni
importanti, come milk, "latte");
- LA <l> è sempre muta
nei modali could, should e would;
altre parole importanti con <l>
muta sono half, "metà," calm, "calma,"
palm, "palma" e salmon, "salmone."
<h> è muta in
posizione iniziale, nei quattro vocaboli hour, "ora,"
honour, "onore," honest, "onesto" e
heir, "erede," nei loro derivati e composti —
ad esempio honourable, "onorevole;"
H è anche muta dopo <r>
iniziale: rhyme, "rima," rhythm, "ritmo,"
e altre parole di origine greca;
- dopo <x>: exhaust,
"esaurire" o "scaricare," exhibit,
"esibire," exhort, "esortare" ecc.;
- in altri vocaboli come ghost,
"fantasma."
In nomi propri come Anthony,
Antonio, Thomas, Tommaso e Thames il Tamigi, il <th>
si pronuncia [t]
<n> è muta in
posizione finale preceduta da <m>: autumn, "autunno,"
hymn, "inno”, column, "colonna,"
ecc.;
<s> è muta in
isle e island, "isola, aisle, "navata"
o "corridoio nella cabina di un aereo," viscount,
"visconte;"
<t> preceduta da <s>
è muta in parole come castle, "castello,"
fasten, "allacciare," listen,
"ascoltare," Christmas, "Natale" e in mustn't,
la forma negativa di MUST;
<w> è muta in
posizione iniziale prima di <r>: write, "scrivere,"
wrong, "sbagliato," ecc.;
W è anche muta prima di <h>
in who, "chi" (e derivati come whom e whose)
e in whole, "intero;"
- in alcune parole come answer,
"risposta" o "rispondere," two, il numero
due, sword, "spada."
L’elenco non è
assolutamente completo ma è già lungo e noioso, e
quindi tralascio sia di parlare delle lettere mute in nomi di luoghi,
come la W in Greenwich e Warwick, sia di illustrare
altri casi. Dirò solo che delle 26 lettere dell’alfabeto
inglese, almeno 17 sono soggette a questo fenomeno di essere presenti
nella grafia senza corrispondere a nessun suono. Proprio per la
presenza di problemi come questo dicevo ieri che partire dalla lingua
scritta per imparare la lingua orale non è il percorso più
valido.
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Le Ceneri
Anche se per noi ambrosiani il
carnevale prosegue, approfitto della ricorrenza del Mercoledì
delle Ceneri per parlare delle parole e delle tradizioni che sono
tipiche di questo periodo nei paesi di lingua inglese.
Anzitutto parliamo del carnevale,
che in inglese si dice carnival — è una parola
che deriva dalla nostra ma viene scritta senza la E finale e con la I
invece della E nella seconda sillaba.
Il martedì grasso, ultimo
giorno di carnevale nel rito romano, si chiama Shrove Tuesday,
da un verbo shrive che significava "far penitenza,
confessarsi;" ma in molte zone degli Stati Uniti e in
particolare a New Orleans si usa l’espressione francese Mardi
Gras — è uno dei lasciti di quando la Louisiana era
colonia francese, assieme a nomi di località come Baton
Rouge. Il cibo tradizionale sono le pancakes, le
frittelle, perché l’osservanza della quaresima imponeva
di non usare le uova e il grasso. Piuttosto di gettare questo cibo,
che non sarebbe durato fino a Pasqua, lo si usava in abbondanza nel
clima di festa del carnevale facendo pancakes.
Il Mercoledì delle Ceneri è
detto Ash Wednesday — che è la traduzione
letterale se si tiene conto del fatto che quando un nome viene messo
prima di un altro, nella posizione tipica dell’aggettivo,
rimane sempre nella forma del singolare. Per questo troviamo ash,
davanti a Wednesday, e non il plurale ashes.
La quaresima si chiama Lent,
da un vecchio vocabolo germanico che si riferisce alla primavera.
Come rivedremo tra qualche settimana, parlando della Pasqua, il
cristianesimo ha adottato termini già esistenti, ricavati da
tradizioni e riti precedenti, e ha attribuito loro un significato
nuovo alla luce dell’insegnamento di Gesù e degli
Apostoli.
Questa parola Lent non
c’entra col passato e participio irregolari del verbo lend,
"prestare," ma è solo un caso di omografia —
così come ash è anche il nome di un albero, il
frassino.
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Origine della lingua inglese
Un’ascoltatrice mi ha chiesto:
"Da dove viene la lingua inglese? L’italiano è la
lingua toscana, e l’inglese?"
Bisogna fare una premessa. Fino al
secolo scorso l’Italia era costituita da molti stati diversi,
alcuni dei quali in certe epoche sono stati più potenti
economicamente e politicamente dello stato che aveva per capitale
Roma. Venezia, Torino, Napoli, Firenze, Milano, Parma e altre sono
state città capitali importanti.
Ancora oggi solo un italiano su 20
circa è un romano, mentre un inglese su cinque vive o almeno
lavora nella Greater London, la Grande Londra. Londra, come
Parigi, è da molti secoli la capitale di una grande nazione
unitaria, dove si concentrano il potere politico e quello economico.
Le grandi e antiche università di Oxford e Cambridge
sono poco lontane, e quindi era naturale che la lingua parlata dalle
persone dell’Inghilterra sud-orientale diventasse la lingua
nazionale — mentre da noi solo la grandezza di Dante, Petrarca
e Boccaccio ha fatto emergere il volgare fiorentino sulle altre
lingue locali.
In realtà, la varietà
di inglese che gode di maggiore prestigio è quella che viene
usata da coloro che hanno perso il proprio accento locale perché
hanno frequentato le Public Schools e le grandi università.
Questa received pronunciation, "pronuncia acquisita,"
è alla base del BBC English e comunque di quello
che oggi è considerato l’inglese britannico standard.
A differenza di quanto avviene
normalmente da noi, i giovani inglesi frequentano l’università
in una città diversa da quella di residenza, anche se nella
loro città c’è una buona università. E’
un’esperienza di autonomia che porta ad abituarsi all’idea
di vivere e lavorare dove serve, e non dove si è nati. Dal
punto di vista della lingua, è un incentivo ad abbandonare la
pronuncia regionale o almeno eliminare gli aspetti più marcati
e che possono risultare fastidiosi.
I grandi esempi letterari su cui si
è sviluppato l’inglese moderno sono stati le opere di
Shakespeare e la versione ufficiale della Bibbia — la
Authorised Version del 1611 — un libro che con la
Riforma protestante entra in tutte le case e dà una impronta
decisiva alla lingua e alla cultura. La conoscenza di questi testi è
indispensabile per chi vuole capire gli sviluppi della lingua e della
letteratura inglese nei secoli successivi.
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Le stagioni e le parole
Tutte le lingue sono il condensato
delle esperienze culturali dei popoli che in esse si esprimono.
L’ascoltatrice a cui ho dato una risposta ieri sera mi chiedeva
anche di un possibile collegamento tra i cicli naturali delle
stagioni e alcuni avvenimenti che ritornano con ricorrenze annuali,
come il Derby di Epsom. In questo caso particolare credo che
la collocazione delle grandi gare ippiche nella prima settimana di
giugno sia da collegare semplicemente al fatto che Epsom è
una località nota per le sue acque minerali — potremmo
chiamarla la Montecatini dell’Inghilterra (e anche a
Montecatini c’è un ippodromo) — e quel periodo è
il migliore per la cura termale. La presenza di tante persone di un
certo rango ha favorito il varo di iniziative collaterali di
intrattenimento, tra cui le gare ippiche. Oltre al Derby, in
quel periodo si corrono a Epsom anche le Oaks —
letteralmente Le Querce, nome della residenza del Conte di Derby (eh
sì, ancora lui!). Le Oaks sono una gara riservata alle
femmine di tre anni.
Tornando ai cicli della natura,
abbiamo già detto che il nome inglese della Quaresima, Lent,
viene da una parola germanica riferita alla primavera. Dallo stesso
campo in inglese prende il nome la più grande festa cristiana,
cioè Easter, la Pasqua, il cui nome inglese deriva da
east, l’oriente. Il sole sorge esattamente a est il 21
marzo e la data della Pasqua coincide, salvo casi particolari, con la
domenica successiva alla prima luna piena dopo il 21 marzo.
Anziché cercare di sopprimere
le festività preesistenti, i primi Cristiani le hanno in
qualche modo adottate e adattate. Secondo il Venerabile Beda, un
santo che visse in Inghilterra nell’ottavo secolo e di cui vi
parlerò prossimamente, la parola Easter potrebbe essere
derivata da Eostre, la dea anglosassone della primavera —
e il cui nome a sua volta deriva da quello del punto cardinale. Del
resto, anche la vicinanza del Natale al solstizio d’inverno ha
fatto sospettare la possibilità di qualche forma di travaso
dai riti antichi alle nuove festività. Quello che conta,
naturalmente, è il nuovo valore e significato assunti dalle
festività, che trascendono in misura incomparabile le semplici
coincidenze stagionali.
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Dischi e fiaschi
Tra le tante parole che la lingua
inglese ha importato dall’italiano, in particolare nel campo
musicale, ce n’è una che adesso gli italiani tendono a
non usare più: si tratta del "fiasco" nel senso di
insuccesso, soprattutto nel mondo dello spettacolo. E’ una
parola che si colloca tra le quindicimila più frequenti e
quindi viene registrata anche nei dizionari per gli studenti
stranieri.
Da noi, nello stesso senso, adesso
si usa molto la parola flop — un po’ perché
è più breve, un po’ perché è
onomatopeica (ossia ha un suono che richiama l’idea di qualcosa
che casca), ma soprattutto semplicemente perché è
inglese. E "fare fiasco" è diventato "fare
flop" e siccome in inglese flop è anche verbo
forse un domani avremo anche "floppare."
L’aggettivo che ne deriva,
floppy, vuol dire "cascante, floscio," come ad
esempio certi cappelli femminili con l’ala morbida: a floppy
hat. Da noi lo si usa per indicare il floppy disk, il
disco flessibile usato dai personal computer. Per contrasto, il disco
rigido si chiama hard disk.
La parola disk, che
ritroviamo in disk jockey e in compact disk, ha due
grafie: quella americana — ma che si usa un po’
dappertutto quando si parla di computer — termina con la
lettera k, mentre quella britannica termina per c.
Qualcosa di simile avviene con la
parola programme che in inglese britannico si scrive con -mme
finale; in inglese americano o parlando di programmi per computer la
parola termina con -m — ma la pronuncia è sempre
la stessa.
E già che abbiamo parlato di
compact disk, diciamo qualcosa anche su compact, che
quando è aggettivo — compatto — o è verbo —
compattare — si pronuncia come l’ho detto finora, ossia
con l’accento sulla seconda sillaba: [kam'pèkt].
Questa parola è usata anche come nome e in questo caso
l’accento è sulla prima sillaba: ['kompakt].
La si usa per indicare il portacipria, un’automobile di piccole
dimensioni e, come termine storico-politico, per un patto, un accordo
o un’alleanza.
Per garantirci contro fiaschi e flop
ritorniamo a seguire...
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Beda
Qualche sera fa, a proposito
dell’origine del nome inglese della Pasqua, cioè Easter,
ho fatto cenno a Beda il Venerabile, The Venerable Bede, uno
dei primi grandi storici medievali, la cui Historia ecclesiastica
gentis Anglorum, ossia la storia ecclesiastica dei popoli
dell’Anglia, è tuttora un testo fondamentale per la
conoscenza dei primi secoli dell’Inghilterra cristiana. San
Beda fu canonizzato nel 1899 — e quindi l’anno prossimo
si festeggerà il centenario.
Beda è stato uno dei primi
storici ad adottare sistematicamente il metodo moderno di datazione
dell’Era Volgare, ossia a partire dalla nascita di Cristo —
o, per essere più esatti, a partire da quel 753 dalla
fondazione di Roma che allora si riteneva che fosse l’anno di
nascita di Gesù, mentre la data effettiva risale a sei o sette
anni prima.
Qui apro una parentesi per osservare
che quindi nel terzo millennio ci siamo già da qualche anno,
solo che per l’errore commesso da Dionigi il Piccolo nel sesto
secolo, e ripreso da Beda nell’ottavo, l’anno in cui
viviamo si chiama nineteen ninety-eight, 1998, e non 2004 o
2005. Anche dopo aver scoperto l’errore storico la Chiesa ha
scelto di adeguarsi al calendario civile ormai in uso e a calcolare
su di esso anche le date dei Giubilei. Ma chi si aspetta cataclismi
per l’anno 2000 sappia che il bimillenario della nascita di
Cristo è già passato e non è finito il mondo —
a parte che non riesco proprio a capire perché mai la venuta
del Salvatore dovrebbe essere una data che porta sfortuna.
Tornando a Beda e alla sua epoca,
vale anche la pena di ricordare come già allora la religione
cristiana fosse un elemento unificatore dell’Europa. La fama
degli studiosi circolava in tempi sorprendentemente rapidi se si
pensa alle comunicazioni di allora. Dionigi il Piccolo era stato
chiamato a Roma dalla Scizia originaria (una zona che corrisponde
alla Romania e Bulgaria di oggi) e i suoi studi erano noti in tutta
la cristianità. Lo stesso Beda godette di risonanza
internazionale — con buona pace di coloro che insistono a
chiamare "secoli bui" il Medio Evo.
In quanto alle comunicazioni dei
nostri giorni, una lettera che mi è stata spedita da Lugano ci
ha messo dieci giorni ad arrivare, alla media di sette kilometri al
giorno. Nel Medioevo non succedeva, anche se non c’erano né
il ponte di Melide né l’autostrada.
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FESTIVAL
Una delle parole inglesi entrate in
italiano è festival — per vari motivi non ve ne
ho parlato il mese scorso in occasione del Festival più
popolare d’Italia, quello della canzone italiana di Sanremo, ma
rimedio stasera. Da noi questa parola si è specializzata per
indicare le manifestazioni musicali o artistiche, al punto che tutti
i festival del cinema prendono il nome dal primo in assoluto, quello
di Venezia iniziato nel 1932.
La parola inglese festival ha
però una storia molto più lunga, che risale al 1300; in
origine è un aggettivo che significa "festivo" e che
fa riferimento alle grandi festività dell’anno
liturgico, e poi nella seconda metà del Cinquecento diventa un
nome che indica la festività in generale. Molto spesso le
solennità, soprattutto quelle dei santi patroni locali, sono
state l’occasione per feste, sagre, manifestazioni e
spettacoli. Le sacre rappresentazioni si svolgevano all’interno
delle cattedrali maggiori in particolari tempi liturgici, in
particolare il Corpus Domini, e poi sono state eseguite all’aperto
o in altri ambienti adatti.
Il medioevo inglese è ricco
di Moralities, rappresentazioni allegoriche della vita
cristiana, delle virtù e dei vizi, e di Miracle Plays
che avevano per argomento la storia sacra e le vite dei Santi. Ogni
corporazione di arti e mestieri aveva la propria tematica, spesso
collegata più o meno direttamente con la professione; così
la storia di Noè e del Diluvio Universale era affidata agli
acquaioli e quella della Natività ai pastori. Col tempo il
divertimento profano si è affiancato all’evento sacro
fino, in molti casi, a prenderne il posto.
Un tentativo moderno di ridare vita
al teatro religioso in poesia è stato quello di T. S. Eliot
col suo Murder in the Cathedral, l’Assassinio nella
Cattedrale, che rievoca la storia di San Tommaso Beckett
arcivescovo di Canterbury.
Un’altra differenza con la
parola festival come la si usa in lingua inglese è che
noi tendiamo a chiamare festival solo quelle manifestazioni
che comportano una gara, con premi più o meno prestigiosi
assegnati da una giuria. In inglese questo non è
necessariamente vero, e la parola si usa anche per rassegne non
legate a concorsi.
Ritorniamo adesso ai nostri giorni,
alla musica (festivaliera e non)...
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RALLY
Proseguendo nell’esplorazione
delle parole inglesi entrate in italiano, questa sera ci occupiamo
del rally, che da noi è più o meno
esclusivamente la gara di regolarità, automobilistica o
motociclistica, su strada. Nell’inglese degli inglesi, to
rally è anzitutto il "radunare" — in
particolare il radunare le proprie forze e concentrare gli sforzi
verso un qualche obiettivo. Da questo significato ne è
derivato un altro, che è quello di radunare le persone per
arringarle e suscitare il loro entusiasmo per una qualche buona
causa.
Quando nell’Ottocento sono
nati i sindacati — le Trade Unions — e anche i
partiti con l’avvento del suffragio universale hanno dovuto
cambiare i loro metodi, la parola rally ha preso a significare
quello che noi chiamiamo "comizio."
Ancora una volta, quindi, il
riferimento preciso e esclusivo al raduno sportivo e in particolare
motoristico costituisce un caso di specializzazione dell’uso
della parola — è quanto si è detto ieri sera a
proposito del festival e diremo tra poco su un’altra parola
riguardante il motociclismo. Prima però voglio precisare,
ricordando una regola di cui ho già parlato, che la grafia
corretta inglese presenta una y finale, che diventa -ies
al plurale. La forma RALLYE la usano i francesi ma non è
corretta.
L’altra parola a cui accennavo
è, detta all’italiana, il "trial," che in
inglese si pronuncia [traial]. Noi
l’adoperiamo per le gare di abilità e acrobazia in
motocicletta, ma in inglese è semplicemente il nome che deriva
dal verbo try [trai], che
vuol dire "provare, tentare."
Trial è quindi "il
tentativo, la prova, la verifica" (trial balance in
ragioneria è "il bilancio di verifica"); trial
è anche "il processo" in senso giudiziario. In
ambito sportivo, trial indica spesso le prove preliminari, le
gare di selezione per decidere chi entrerà nella
rappresentativa nazionale alle Olimpiadi o altre competizioni del
genere. Qualche rara volta trial significa il "trial."
Un’altra parola, simile a
rally ma ancora più generica per indicare le riunioni,
non solo sportive, è meeting, dal verbo meet che
significa "incontrare" e "fare la conoscenza."
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I dizionari
Una parte abbastanza consistente
delle lezioni del mio corso in Università è dedicata
all’analisi dei dizionari della lingua inglese. Ce n’è
una varietà notevole, disponibile anche nelle librerie
italiane, che si affianca ai dizionari bilingui inglese-italiano e
italiano-inglese che più o meno tutti conosciamo. La
produzione di questi ultimi anni è sempre più attenta
alle diverse esigenze di chi si serve dei dizionari; ci sono quelli
più o meno tradizionali per chi deve leggere e capire i testi
in inglese, ma anche quelli per chi deve scrivere e quindi deve
compiere percorsi diversi — magari da una parola più
generica a quella che esprime con più precisione quello che si
vuole dire.
I dizionari maggiori offrono
indicazioni su tutto ciò che riguarda le parole trattate,
dalle origini del vocabolo, alla sua pronuncia attuale, ai vari
significati e usi. Ci sono dizionari che invece selezionano alcune
informazioni e le approfondiscono; a questa categoria appartengono ad
esempio i dizionari etimologici, utili per chi studia la storia della
lingua, e i dizionari della pronuncia, utilissimi un po’ per
tutti — compresi gli stessi parlanti nativi che, come abbiamo
detto ormai tante volte, non possono mai fidarsi nemmeno loro di
quello che sembrerebbe corretto dire sulla base della grafia.
Ci sono poi i dizionari
specialistici, come quelli commerciali e tecnici, a cui si aggiungono
quasi quotidianamente glossari che raccolgono i termini specifici di
qualche settore molto preciso e ristretto — molto spesso si
tratta di raccolte di vocaboli pubblicate dalle maggiori imprese
multinazionali, che hanno bisogno di garantire traduzioni precise e
uniformi nelle lingue dei diversi paesi in cui operano.
Un aspetto su cui insisto sia a
lezione che agli esami è l’importanza di conoscere bene
i propri dizionari — e in particolare quelli più ricchi
e complessi. Le pagine introduttive, le appendici, gli inserti e così
via insegnano a servirsi del dizionario nella maniera più
efficiente, evitando i tanti malintesi possibili; inoltre spesso
contengono informazioni, notizie e curiosità interessanti
riguardanti la lingua inglese. Alcune delle cose che vi racconto in
queste chiacchierate serali le ho spigolate proprio lì,
assieme ai criteri di classificazione dei vocaboli e di
organizzazione delle definizioni e degli esempi.
Un po’ tutti siamo restii a
dedicare tempo a studiarci le istruzioni per l’uso e i libretti
di manutenzione delle cose che usiamo — dall’automobile
alla radiosveglia. Posso assicurarvi che per quanto riguarda i
dizionari non è tempo sprecato.
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Le concordanze
L’ultima generazione di studi
linguistici è caratterizzata dall’uso massiccio del
computer per la raccolta di grandi banche di testi scritti e parlati.
Questo ha riflessi precisi anche nelle grammatiche e nei dizionari in
circolazione, che si basano sulla lingua così come viene
effettivamente usata e non come viene percepita da chi la studia.
Nei vecchi dizionari, ad esempio, la
parola sole veniva per prima cosa definita come il nome della
sogliola, poi come la suola della scarpa o la pianta del piede, e
infine come aggettivo che vuol dire "solo, unico, esclusivo."
L’analisi dei dati raccolti nei grandi corpora
computerizzati ha rivelato che l’aggettivo è molto più
frequente del nome, che il nome che si riferisce a ciò che sta
sotto il piede è molto più frequente del nome del
pesce, che soprattutto in Inghilterra il pesce viene normalmente
detto Dover sole, la sogliola di Dover che è la
città delle bianche scogliere, white cliffs, di fronte
a Calais.
Si scopre anche che in inglese sole
si riferisce non solo alle scarpe o ai piedi, ma anche alle calze; in
italiano non si parla della suola delle calze o dei calzini per
indicare la parte che sta sotto la pianta dei piedi, in inglese si
dice the sole of the stockings, the sole of the socks —
stockings sono le calze lunghe, femminili, o i calzettoni, socks
sono i calzini. In questo senso, la parola ha dato origine anche al
verbo sole, "suolare."
La pronuncia di questa parola
coincide con quella della parola soul, anima, e già
Shakespeare, in una scena iniziale del Julius Caesar, il
Giulio Cesare, costruisce delle battute giocando
sull’ambiguità di [soul].
In campo musicale, soul music è un termine comparso nel
1961 per un genere basato sul Gospel singing dei negri
d’America. Si basa su un uso di soul come aggettivo con
riferimento ai neri d’America e alla loro cultura, un uso che
si è diffuso una quarantina d’anni fa; oltre a soul
music abbiamo espressioni come soul food per il cibo
tipico dei soul brothers, ossia degli appartenenti alla
cultura soul.
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Pronto? Hallo?
A un italiano che lavorava in Olanda
i colleghi hanno dato il nomignolo di Dottor Pronto, per come
rispondeva al telefono. Da loro, e in altri Paesi, si usa che chi
risponde dice il proprio cognome. In Inghilterra le centraliniste
rispondono con il nome della ditta e i privati dicendo il proprio
numero di telefono, eventualmente preceduto dalla località —
ad esempio, Guilford, four - seven, double nine, one - six.
In questo modo, se chi ha chiamato
si accorge di aver sbagliato numero dice sorry, wrong number
"scusi, ho sbagliato numero" e la conversazione termina
immediatamente, senza spreco di tempo e di denaro.
Come avete sentito nell’esempio,
i numeri vengono detti una cifra alla volta a gruppi di due; se le
due cifre di un gruppo sono uguali si usa double, doppio. Il
numero che ho dato nell’esempio, 47.99.16, diventa
quattro-sette four seven doppio nove double nine
uno-sei one - six. La cifra zero si pronuncia [ou] come la
lettera o e in effetti quando si usavano sia le lettere che le
cifre nei numeri telefonici, ad esempio a Londra, la lettera o
veniva fatta coincidere con lo zero e serviva anche per chiamare il
centralinista — o è l’iniziale di operator
— ma sto parlando di quando bisognava chiamare la società
dei telefoni per tutte le comunicazioni interurbane.
Un uso simile dei numeri a coppie di
due cifre è quello che riguarda le date. Qui però non
si dicono cifra per cifra ma come due numeri di due cifre; il 1998 è
il diciannove - novantotto nineteen ninety-eight. Vengono
sottintese le parole hundred and,
ossia nineteen ninety-eight
sta per nineteen hundred and
ninety-eight. Una mia vecchia
grammatica diceva che hundred and si può sottintendere
sempre, tranne quando la terza cifra è zero. Il
1900 era l’anno nineteen hundred
e il 1905 nineteen hundred and five.
Ma non so che cosa succederà tra nemmeno tre anni.
L’anno duemila sarà il two thousand e poi? Dubito
che si dirà twenty hundred and one; già two
thousand and oNE è più breve — ma forse
prevarrà twenty oh one o qualcosa di simile: staremo a
vedere, o meglio a sentire.
Avrete notato che hundred e
thousand non prendono mai la esse del plurale quando fanno
parte di numeri; i numerali sono aggettivi e gli aggettivi inglesi
sono invariabili. Hanno il plurale solo come nomi: migliaia di
ascoltatori e centinaia di canzoni sono thousands of listeners
e hundreds of songs.
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Per modo di dire...
Uno dei libri con i quali affliggo i
miei studenti contiene ventitré pagine zeppe di proverbi,
detti e espressioni idiomatiche e la domanda che mi fanno è se
bisogni proprio saperli tutti. A quel punto faccio una distinzione
tra ciò che occorre preparare per l’esame e ciò
che si deve conoscere per saper bene l’inglese. Ciò che
i docenti esigono è necessariamente limitato e dipende da
tante circostanze, ma quel che serve per capire bene quello che
sentiamo o leggiamo è un repertorio molto vasto che comprende
anche le frasi fatte, le citazioni famose, e così via.
Ad esempio, ho visto da poco
un’inserzione di un’associazione per i diritti politici
delle donne; l’immagine è quella di un volto femminile a
cui manca la bocca, e la frase a fianco dice che secondo gli uomini
politici, women should be seen but not heard, "le donne
si devono vedere ma non sentire" — una frase che
evidentemente spiega la fotografia della donna senza la bocca.
Ora, ogni parlante nativo di inglese
conosce fin da piccolo un proverbio che nelle famiglie viene rivolto
ai bambini perché se ne stiano buoni senza far chiasso,
specialmente quando gli adulti conversano tra loro: children
should be seen but not heard, "i bambini si devono vedere ma
non sentire." Il fatto che l’inserzione abbia ripreso le
identiche parole, sostituendo solo women, "le donne,"
al posto di children, "i bambini," ci dice una cosa
in più che può sfuggire a chi non sa il proverbio, e
cioè che secondo la denuncia le donne vengono trattate come si
trattano i bambini.
Certo, non tutti conoscono così
bene l’inglese da poter affrontare anche questi problemi; c’è
comunque il rischio, anche per chi è arrivato a un buon
livello di padronanza dell’inglese, di credere di avere capito
bene qualcosa quando invece ci sarebbe ben altro da cogliere. In
qualche caso si tratta solo di forma ma non di sostanza, nel senso
che non succede nulla di grave se non ci si accorge che un certo
testo riecheggia qualche frase famosa o qualche citazione letteraria.
In altri casi, come quello dell’esempio, le allusioni possono
essere parte integrante del messaggio, fino a diventare a volte
l’elemento più importante di ciò che si vuole
comunicare.
Per questo dispiace constatare che
alle lingue straniere viene dedicata meno attenzione, ad esempio da
parte del sistema scolastico, di quanta ne meritano — saperle
poco e male in qualche caso è peggio che non saperle.
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Oggetti diretti e indiretti
Uno dei punti in cui la sintassi
inglese si differenzia da quella italiana riguarda le frasi del tipo
"Hanno dato la notizia a Silvia" oppure "Ho comperato
un pullover per Anna," ossia frasi che hanno un complemento
oggetto e un complemento di termine o di favore; il primo non è
un nome di persona, il secondo sì. In inglese il verbo è
seguito dai due complementi, prima quello che esprime la persona e
poi l’oggetto. "Hanno dato la notizia a Silvia" è
they told Sylvia the news e "Ho comperato un pullover per
Anna" è I bought Anne a pullover.
Il primo complemento, il cosiddetto
"oggetto indiretto," può essere costituito da un
pronome invece del nome di persona. Se invece di dire "Ho
comperato un pullover per Anna" dico "Ho comperato un
pullover per lei" o "Le ho comperato un pullover" in
inglese ho I bought her a
pullover. Non si può invece sostituire con un
pronome l’oggetto e continuare a usare questa costruzione:
"L’ho comperato per Anna" è I bought it for
Anne, come in italiano, e non può essere *I bought Anne
it.
Una particolarità di questa
costruzione è che la persona a favore della quale si compie
l’azione diventa il soggetto della frase passiva: alla frase
they told Sylvia the news corrisponde la forma passiva Sylvia
was told the news "a Silvia è stata data la notizia"
— analogamente, "a Anna è stato comperato un
pullover" è in inglese Anne was bought a pullover.
"Mi è stato fatto un regalo" I was given a
present — letteralmente, "io fui dato un regalo."
In tutti questi casi è
possibile lasciare sottinteso da chi è stata compiuta
l’azione; quando invece è importante specificarlo, lo si
può mettere in fondo con la preposizione by: "Mi è
stato fatto un regalo da Elena ma non da Giorgio" I was given
a present by Helen but not by George.
I verbi inglesi più
importanti che ammettono questa costruzione, i cosiddetti verbi
ditransitivi o transitivi doppi, sono tell, "dire,"
give, "dare," e buy, "comperare,"
che abbiamo usato negli esempi; inoltre abbiamo, tra gli altri,
bring, "portare," lend, "prestare"
e write, "scrivere." Concludo con un esempio per
ciascuno di questi verbi: "per favore ci porti del pane"
please bring us some bread "puoi prestare l’auto a
Maria?" can you lend Mary your car? "Scrivetemi i
vostri commenti" write me your comments.
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L’annuncio a Maria
Oggi è la festività
dell’Annunciazione, che in Inglese, come abbiamo visto anche
per altre occasioni, ha due nomi: quello ufficiale basato sul latino,
che è Annunciation, e quello popolare che è Lady
Day, il giorno di Nostra Signora.
E’, secondo la tradizione,
l’anniversario del giorno in cui a Nazareth l’Angelo
salutò Maria con le parole diventate preghiera, e che in
inglese sono Hail Mary, full of grace... Hail (come
whole) proviene da un’antica voce nordica che vuol dire
"sano, integro" — e quindi corrisponde al nostro
aggettivo "salvo" e al saluto "Salve!" Ha la
stessa radice di quell’heil tedesco che il Terzo Reich
ha fatto conoscere al mondo imponendolo come forma di saluto
obbligatoria.
Oltre a Mary, che è la
forma più usuale, ci sono in inglese altre forme del nome di
Maria: Miriam, che più da vicino riflette l’originale
ebraico; Marie, scritta e pronunciata alla francese; e Maria,
scritta come in italiano e spagnolo, ma preferibilmente pronunciata
col dittongo [ai]: [maràia],
a meno che non sia chiaro che si sta parlando di un’italiana o
di una spagnola.
L’Annunciazione è
l’annuncio dell’Incarnazione di Colui che sarebbe nato
nove mesi dopo, il 25 dicembre. La differenza tra Annunciation
e announcement è più o meno la stessa che in
italiano abbiamo tra "Annunciazione" e "annuncio."
Dare un annuncio è to make an announcement —
notate l’uso del verbo make per tradurre il nostro
"dare."
Tornando all’altra
denominazione della festività, Lady Day, ricordiamo che
Our Lady, Nostra Signora, è uno dei modi con cui viene
chiamata The Virgin Mary, Maria Vergine, the Mother of
Jesus, la madre di Gesù. Lady di per sé si
riferisce a ogni signora — all’inizio di ogni
conversazione, dopo la buonasera mi rivolgo alle ladies e poi
ai gentlemen — prima le signore: ladies first! Lady
davanti al cognome lo si usa per le appartenenti alla nobiltà
— Lady Bracknell e davanti al nome nel caso di
appartenenti a case regnanti: dalla leggendaria Lady Godiva di
Coventry a Lady Diana Spencer.
Spero che sia inutile rilevare la
distanza incommensurabile tra queste ladies e Colei che
l’Angelo chiamò "benedetta tra tutte le donne"
— in una recente versione del Vangelo di Luca dice the Lord
is with you and has greatly blessed you "Il Signore è
con te e ti ha grandemente benedetto."
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Draghi e dragoni
La leggenda di San Giorgio, patrono
dell’Inghilterra, narra della sua vittoriosa battaglia contro
il drago. Questo mostro mitologico ora vive soprattutto nel folklore
cinese e di altri paesi orientali, e da noi se ne trovano tracce nel
nome di qualche ristorante, di qualche prodotto orientale e di alcune
iniziative ispirate alla Cina. Sempre più spesso, però,
anziché "drago" si legge e si sente dire "dragone"
e anche qui sospetto che c’entri una traduzione approssimativa
e "a orecchio" dell’inglese dragon.
Finiremo per dire "San Giorgio
e il dragone" invece di "San Giorgio e il drago,"
anche se i dragoni erano gli archibugieri a cavallo e poi più
in generale i soldati dei reggimenti di cavalleria.
Un errore analogo è stato
commesso più volte con la parola silicon che è
il silicio e non il silicone — quest’ultimo si scrive con
la E finale, e quindi la parola silicone ha una grafia
identica all’italiano. La Silicon Valley, così
detta perché vi si concentrano molte delle maggiori industrie
californiane produttrici di computer, di componenti elettronici e di
software, è la "valle del silicio" e non del
silicone, che non c’entra.
La differenza di pronuncia è
minima e riguarda l’ultima sillaba; siccome non è
accentata, questo attenua ulteriormente la differenza tra silicon
[-kan] e silicone [-koun].
Non è raro che proprio nel linguaggio tecnico-scientifico ci
siano difficoltà di comprensione a causa della somiglianza di
parole che a volte hanno significati opposti. E’ il caso di
parole come microcosm e macrocosm, microcosmo e
macrocosmo, ove la differenza tra micro [maikrou]
e macro [mèkrou] è
lieve. Analoga è la differenza tra i prefissi ipo- e iper-,
hypo [haipou] e hyper
[haipa] — detti da soli si
differenziano abbastanza ma in parole complesse come hypothyroidism
e hyperthyroidism è facile non cogliere la differenza.
Thyroid è una di
quelle parole che si capiscono benissimo leggendole, assomiglia molto
a "tiroide," ma che ascoltando [thairoid]
può essere difficile riconoscere. Molti vocaboli medici sono
di questo tipo: ad esempio, l’artrite è ARTHRITIS
[a:thraitis].
Anche questa sera abbiamo fatto una
passeggiata di 17 o 18 secoli, da San Giorgio alla Silicon Valley,
e un rapida incursione nella questione della pronuncia dei termini
scientifici — un tema che ritornerà a più riprese
in queste chiacchierate sulla lingua inglese.
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Millennio
Qualche sera fa abbiamo parlato
dell’anno Duemila two thousand e dicevo che vi erano
incertezze su come sarebbero stati chiamati gli anni successivi.
Riparlandone con amici inglesi, mi è stato fatto notare che
per il 2001 c’è già il precedente del film
"Odissea nello Spazio" Two Thousand And One A Space
Odyssey. E tuttavia nemmeno questo esclude che si finisca per
dire twenty oh one o chissà che altro.
In effetti anche per il 1905 (e anni
simili) solo nel linguaggio più formale si dice nineteen
hundred and five; le forme più colloquiali sono nineteen
oh five diciannove zero cinque e addirittura nineteen five
diciannove cinque; sarà difficile però che per il 2005
si dica twenty five perché questo è il numero
venticinque.
Da qualche tempo si usa il plurale
delle decine per indicare il decennio: the twenties sono gli
anni venti (e si sottintende del ventesimo secolo) e quelli in cui
viviamo sono the nineties, gli anni novanta. E’ più
raro che si usi per altri secoli; gli anni quaranta del secolo scorso
sono the eighteen forties. Anche qui l’uso è
incerto per i primi due decenni di ogni secolo.
L’espressione si usa anche per
le persone: I am in my fifties vuol dire che la mia età
è compresa tra 50 e 59 anni, ossia sono nei miei anni 50. Per
gli adolescenti in età compresa tra tredici e diciannove anni
— quelli che vengono chiamati teenagers perché
quei numeri finiscono in -teen — si dice he is in his
teens e al femminile she is in her teens.
Già che parliamo di numeri vi
segnalo un errore che non è raro incontrare a proposito dei
numerali ordinali (per intenderci: "primo, secondo..."
eccetera). L’abbreviazione italiana è una piccola o
in apice per il maschile, che diventa a per il femminile —
evidentemente le abbreviazioni "°. ª" non hanno
senso in inglese, dove di solito la desinenza è -th. Ma
l’altro errore è proprio quello di usare queste due
lettere dopo il numero anche quando parliamo di first, second e
third — con questi primi tre ordinali, e nei loro composti,
ad esempio twenty-second, "ventiduesimo,"
l’abbreviazione è costituita dal numero seguito
rispettivamente da -st per first, -nd per second
e -rd per third. Abitualmente queste abbreviazioni sono
usate per le date, che in inglese vogliono sempre l’ordinale,
dal primo del mese fino al trentunesimo — trentunesimo,
thirty-first si abbrevia in 31st.
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1° aprile
Oggi è April Fools' Day,
letteralmente "il giorno dei folli di aprile," e se non
siete ancora stati vittime di scherzi watch out, "state
in guardia" perché c’è ancora tempo per
qualche ‘pesce.’
La tradizione degli scherzi è
plurisecolare ma l’origine è sconosciuta — nella
antica Roma c’erano gli Hilaria il 25 marzo e in India c’era
la festività di Holi che finiva il 31 Marzo. In ogni caso si
sospetta che possa esserci un collegamento con l’equinozio di
primavera, il 21 marzo. C’è anche chi ha suggerito che
possa riferirsi agli scherzi della natura in una stagione dal tempo
estremamente variabile — da noi si usava dire "Aprile,
tutti i giorni un barile" e a Milano, in particolare, questo
coincideva con la grande Fiera Campionaria che durava dal 12 al 25
aprile e che ormai è stata sostituita da quella che, una
mostra dietro l’altra, dura da settembre a giugno.
Tornando al primo aprile, da noi,
come in Francia, si parla di "pesce" (forse perché
la vittima abbocca allo scherzo — ma può anche essere
vero il contrario, ossia che parliamo di abboccare perché
una tradizione di origine misteriosa ci ha tramandato l’idea
del ‘pesce’). In Scozia il mese d’Aprile vede
l’arrivo del cucù, che a sua volta è l’emblema
dei sempliciotti, e così il pesce di Aprile è il cucù
di aprile e la vittima viene detta GOWK [gauk]
che è il nome scozzese del cuckoo.
La parola fool ha la stessa
origine latina della parola italiana "folle;" si usa anche
come aggettivo, ma in questo caso è più usuale il
derivato foolish. E si usa come verbo, to fool, per
"ingannare" o "prendersi gioco di" qualcuno. Nei
palazzi reali the fool era il buffone, il servitore il cui
compito era di divertire. Di qui l’espressione to act (o
to play) the fool, "fare il buffone" per far
divertire gli altri. Invece to make a fool of oneself è
"fare la figura dello sciocco." Un’altra parola per
indicare il giullare è the joker, che noi conosciamo
per via del jolly joker, dell’ "allegro giullare,"
nei mazzi di carte — in italiano è la ‘matta.’
Curiosamente, delle due parole abbiamo preso non il nome ma
l’aggettivo, jolly, "allegro." E mentre da noi
chiamiamo "jolly" ad esempio un giocatore che può
ricoprire diversi ruoli, per un inglese joker è la
persona imprevedibile, che non si riesce a inquadrare bene —
così come la matta non appartiene a nessuno dei quattro semi
del mazzo di carte ma fa a sé.
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Un "ausiliare vuoto"
Una delle prime grosse difficoltà
per chi impara l’inglese è data dalla presenza di un
ausiliare che non ha un significato proprio, ma serve solo a tenere
in piedi la sintassi di una frase interrogativa o negativa. Stiamo
parlando naturalmente di do e delle forme does alla
terza persona singolare e did al passato, con le rispettive
forme negative don’t, doesn’t e didn’t.
Ci sono molte cose da dire e
probabilmente non farò in tempo a dirle tutte stasera —
anche perché va bene far grammatica, ma non è il caso
di guastarsi la sera che precede il week-end.
Anzitutto la prima cosa da dire è
che è bene tenere ben distinte queste forme ausiliari dal
verbo to do, che è uno dei modi di tradurre il nostro
verbo "fare" in inglese (ne abbiamo già parlato un
paio di mesi fa, ma forse ci ritorneremo sopra). E’ vero che
l’ausiliare do e il verbo to do hanno la stessa
origine, ma è anche vero che oggi l’ausiliare do
non ha niente a che vedere, nell’uso e nel significato, con il
"fare." E’ molto meglio — nel senso che crea
meno confusione — pensare a do solo come ausiliare che
riempie un buco in certi tipi di frasi, come una specie di segnaposto
che non ha un significato proprio.
Anche in italiano gli ausiliari
perdono il senso che hanno come verbi principali. Se è vero,
come è vero, che le frasi "ho visto un bel film" e
"mi sono visto un bel film" significano più o meno
la stessa cosa, è anche vero che l’ausiliare "avere"
di "ho visto" ha lo stesso valore di "essere" in
"mi sono visto" — pensate anche a frasi come "mi
sono guardato allo specchio" e "ho guardato me stesso allo
specchio:" di nuovo, essere e avere non dipendono
dall’idea di "esistere" o di "possedere" ma
solo dalle regole di sintassi che riguardano i verbi transitivi ("ho
guardato") e riflessivi ("mi sono guardato").
Fare caso attentamente a ciò
che succede nella nostra lingua è un modo per trovare meno
strano quello che avviene nelle altre.
Un’altra premessa riguarda le
frasi interrogative. Nella nostra lingua solo l’intonazione
permette di distinguere una frase affermativa come "Federico
arriva stasera" da una interrogativa come "Federico arriva
stasera?" In inglese la forma interrogativa di norma è
diversa non solo nell’intonazione ma anche nell’uso degli
ausiliari.
Se una frase inglese affermativa
contiene un verbo ausiliare, la forma interrogativa si ottiene
scambiando di posto il soggetto e il verbo ausiliare. Diamo qualche
esempio: "Alex è uno studente." Alex is a
student; "Alex è uno studente?" Is Alex a
student? "Cristina è partita." Christina
has left; "Cristina è
partita?" Has Christina left?
"Piove." It’s raining; "Piove?"
Is it raining?
Un verbo modale da questo punto di
vista funziona da ausiliare: "Sanno nuotare" they can
swim; "Sanno nuotare?" Can they swim?
Se la frase affermativa non contiene
un verbo ausiliare o modale, vuol dire che siamo al presente o al
passato semplice e si deve ricorrere alla forma appropriata
dell’ausiliare do, does o did. "Ti
piace questa musica." you like this
music; "Ti piace questa musica?"
do you like this music?
"Alex gioca a calcio" alex
plays football; "Alex gioca a
calcio?" does alex play football? E
siccome è lunedì posso chiedervi: did you have a
nice weekend? "Avete
passato un buon fine settimana?" Notate che in questo caso il
verbo have non è ausiliare: significa "trascorrere,
fare" e in quanto verbo principale richiede a sua volta un
ausiliare. Allo stesso modo, do è anche ausiliare del
verbo principale do, che come dicevo l’altra sera, non
va confuso con le forme dell’ausiliare. "Che cosa fa
Anna?" What does Ann do? (e si intende: abitualmente, di
mestiere).
L’espressione How d’you
do? non è più una domanda ma la formula che
corrisponde a "piacere" quando si è presentati
formalmente a qualcuno.
Il discorso sulle forme negative è
analogo. Se c’è un ausiliare o un modale, si aggiunge la
negazione not: Alex is a student diventa Alex isn’t
a student; in italiano mettiamo il "non" prima
dell’ausiliare, in inglese not va dopo: isn’t,
cioè is not corrisponderebbe a *"è non."
Un altro esempio: "devono partire ora" they must leave
now fa al negativo they must not leave now, dove must
not corrisponderebbe a *"devono non."
Se l’ausiliare manca, lo si
sostituisce con don’t, doesn’t e didn’t.
"Non guardano la TV" they don’t watch TV.
"Alex non gioca a pallacanestro" Alex doesn’t play
basketball. Altri esempi ve li darò giovedì sera,
quando parleremo di altri usi dell’ausiliare do does did.
L’ausiliare do does did
oltre che per le forme interrogative e negative serve anche per non
ripetere verbi già detti. Una frase come "A me piacciono
i Corrs ma ai miei fratelli no" in inglese è I like
the corrs but my brothers don’t — dove don’t
sostituisce (e consente di non ripetere) il verbo like col suo
complemento oggetto the Corrs.
Un altro esempio lo troviamo in
questo dialogo. "Ho visto Elton John a Londra sabato scorso. -
Davvero?" ‘I
saw Elton John in London last Saturday.’
‘Did you really?’ Qui did è
al passato, come il verbo che sostituisce, saw, passato di
see. Proprio perché ha anche questa funzione di
sostituzione — nell’ultimo esempio, ci permette di
lasciare sottinteso see Elton John — una forma come
questa viene detta anche pro-verbo: come i pronomi possono sostituire
i nomi, i pro-verbi possono stare al posto dei verbi.
"E’ vero? Non è
vero?" servono per trasformare delle affermazioni in domande.
Posso dire "la Domenica delle Palme è domenica ventura"
Palm Sunday is next Sunday, ma poi aggiungere un "non è
vero?" per chiedere conferma o esprimere un dubbio. In italiano
"vero? non è vero?" vanno bene sempre, in inglese
dipende dal verbo ausiliare che c’è nella frase.
Nell’esempio abbiamo IS e quindi la domanda aggiunta è
isn’t it — notate che se la frase è
affermativa la domanda è negativa, e viceversa. Ancora una
volta, se l’ausiliare non c’è, usiamo, don’t,
doesn’t o didn’t a seconda dei casi. "Vi
piace ascoltare Circuito Marconi, vero?" You like listening
to Circuito Marconi, don’t you? "Gli ospiti sono
arrivati tardi, non è vero?" The guests arrived late,
didn’t they? Nel primo caso, a you like, al presente
semplice, fa eco don’t you; nel secondo, the guests
arrived, al passato, viene ripreso con didn’t they?
Nelle domande i nomi sono sostituiti dai pronomi e quindi the
guests, gli ospiti, è diventato they, essi.
Do not (con la forma
contratta don’t nel parlato colloquiale) si usa anche
per l’imperativo negativo, quello che in italiano ha il verbo
all’infinito preceduto da non: "non calpestare l’erba"
don’t walk on the grass; "non suonare quella
canzone" don’t play that song.
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Voce di popolo
Una delle tante parole inglesi che
vengono spesso intese male e tradotte peggio è l’aggettivo
popular, che solo in qualche caso, e in modo solo parziale,
corrisponde al nostro "popolare." Per esempio, prezzi
popolari sono popular prices. In Inghilterra ci sono anche i
popular papers, i giornali popolari, che si contrappongono
alla quality press, la stampa di qualità e prestigiosa.
Detto di una persona, popular
vuol dire che gode di molta popolarità: Sheila is a very
popular student vuol dire che Sheila è una studentessa
molto nota e benvoluta nella sua scuola, una di quelle che tanti
desidererebbero avere per compagna di classe e amica. Da popular
deriva pop, riferito all’arte e alla musica — un
certo tipo di musica a grande diffusione, quella che da noi si
chiamava "musica leggera." La musica della tradizione
popolare è la folk music — dove folk è
la parola germanica per dire “popolo”, mentre people
è di origine neolatina. Folk-lore è il retaggio
delle tradizioni popolari, quello per cui anche in italiano usiamo la
parola "folklore."
In ambito politico, oltre che a
popular (il Fronte Popolare è The Popular Front)
"popolare" corrisponde spesso alla forma possessiva di
people: la sovranità popolare the sovereignty of the
people; qualche volta troviamo il cosiddetto ‘genitivo
sassone’: la Repubblica Popolare Cinese è The
People’s Republic of China.
Le case popolari si chiamano council
houses, con riferimento al City Council, ossia al
consiglio comunale che le ha fatte costruire e le gestisce. E il
giudice popolare è il juryman, l’uomo che fa
parte della giuria.
Per concludere, anche stasera
abbiamo notato due cose: che non esistono corrispondenze dirette tra
le parole di due lingue anche se si assomigliano — nel caso
specifico, spesso e volentieri popular non corrisponde a
"popolare;" e che per tradurre correttamente bisogna
conoscere la realtà straniera — ad esempio tenendo
presente che c’è una giuria popolare nei processi
inglesi e americani.
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Ulivi mediterranei e frasche inglesi
Partecipando alle celebrazioni della
Domenica delle Palme, mi è tornato in mente che l’anno
scorso mi trovavo in Inghilterra per lavoro e quindi sono andato in
una chiesa parrocchiale di Coventry per la messa della Palm
Sunday. La messa è stata preceduta da una breve
processione dal salone dell’oratorio alla chiesa, e la cosa che
per un momento mi ha lasciato perplesso e deluso è stata il
trovarmi in mano una foglia lunga e stretta che molto vagamente
assomigliava a certe foglie di palma, ma che da noi è un’erba
che si trova un po’ dappertutto in campagna, specialmente in
riva ai fossi. E anche se quella frasca era stata benedetta dal
sacerdote, avevo la sensazione di avere in mano qualcosa di troppo
povero, di inadeguato alla solennità.
Però la testimonianza di fede
degli altri presenti, con il loro modo devoto e festoso di
partecipare all’evento, mi ha aiutato a focalizzarmi sull’idea
che la chiesa universale si adatta alle situazioni ambientali e che
l’ulivo — che da una vita per un mediterraneo come me era
legato indissolubilmente alla domenica prima di Pasqua — non
era e non è sostanziale per penetrare nel mistero della
Passione, Morte e Risurrezione.
Parlerò ancora della Holy
Week, della Settimana Santa e dei termini inglesi che ne
descrivono i momenti principali. Adesso, con un salto brusco nella
grammatica inglese, riprendo il discorso sul verbo do e
sull’ausiliare negativo don’t per segnalare il
titolo di un opuscolo che ho avuto per le mani tempo fa: Typing
Dos and Don’ts; lì do e don’t
erano usati come sostantivi: le cose da fare e da non fare in
dattilografia. Si trattava infatti di un manualetto di consigli
spiccioli, "fai questo, fai così, non fare quello"
do this, do like this, don’t do that. Quest’uso di
do e don’t come nomi discende quindi direttamente
dall’imperativo.
Do si usa anche per indicare
una festa, una cena sociale o forme simili di intrattenimento. "I
suoi amici daranno una festa lunedì" her friends are
having a do on Monday. Il plurale di do si pronuncia dos
[du:z], mentre la pronuncia della
terza persona del verbo è irregolare, DOES [daz].
E avrete notato la differenza nella grafia, tra does, forma
del presente del verbo e il plurale dos.
Infine c’è anche la
nota "do" che si pronuncia [dou].
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L’Ultima Cena
In italiano, usiamo il verbo "fare"
prima dei pasti, cioè diciamo "fare un pasto, fare
colazione, far merenda"; oppure il verbo che deriva dal nome del
pasto: "pranzare e cenare". In inglese si usa il verbo have
— letteralmente "avere": "fare un pasto" è
have a meal, “fare colazione” è have
breakfast, "far merenda" è have a snack
(uno spuntino) o a light meal (un pasto leggero) o have
tea (ove tea non è la bevanda ma il pasto
pomeridiano), "pranzare" è have lunch o
have dinner e "cenare" è have supper.
Ve ne parlo stasera perché è
la giornata in cui ricordiamo il pasto più importante nella
storia dell’umanità, the Last Supper,
l’Ultima Cena, quella che attraverso la successione degli
Apostoli si comunica fino a noi nella Holy Communion, la santa
Comunione, o Eucharist, Eucarestia. La lista dei commensali
comprende, assieme a Jesus Christ: Simon Peter, Simon
Pietro, Andrew, Andrea James and John, Giacomo e
Giovanni, Philip and Bartholomew, Filippo e Bartolomeo,
Matthew and Thomas, Matteo e Tommaso, un altro James e
un altro Simon, e due Judas — il fratello di
James e Judas Iscariot.
L’espressione the Last
Supper è usata anche per indicare la raffigurazione
dell’evento, come il capolavoro di Leonardo che si conserva —
o si cerca di conservare — nell’antico refettorio di
Santa Maria delle Grazie a Milano. Assieme alle nozze di Cana —
The Wedding at Cana — l’Ultima Cena è il
dipinto più frequente nei refettori dei conventi.
La festività odierna ha il
nome tradizionale di Maundy Thursday, ove Maundy viene
dalla prima parola MANDATUM del titolo dell’inno "MANDATUM
NOVUM DO VOBIS" ("vi do un comandamento nuovo"), inno
che fa parte della liturgia cattolica per questa giornata. In
inglese, il comandamento nuovo the new commandment è
love one another — amatevi gli uni gli altri: as I
have loved you, come io vi ho amato, so you must love one
another, così dovete amarvi gli uni gli altri. La
cerimonia della lavanda dei piedi the washing of the feet è
l’espressione liturgica di un gesto esemplare di carità
fraterna.
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È risorto!
Questa sera vi parlo di due coppie
di verbi inglesi che è facile confondere: lie e lay,
e rise e raise. Cominciamo dal verbo lie che
significa "giacere, trovarsi disteso". E’ detto di
persone: "Susy è a letto con l’influenza" Susy
is lying in bed with flu. E anche di cose, in frasi come "Il
distretto dei laghi si trova nel nord-ovest dell’Inghilterra"
The Lake District lies in the North-West of England. Il verbo
si scrive lie ma alla forma lying cambia ie in y
prima di aggiungere la desinenza -ing. E’ un verbo
irregolare, la cui forma del passato è lay e quella del
participio passato è lain.
La forma dell’infinito
coincide con quella del verbo regolare lie che significa
"mentire" (ma di questo non mi occupo stasera) e la forma
del passato coincide con l’infinito del verbo lay, che
vuol dire "deporre, posare, mettere a giacere" e quindi è
il causativo del precedente: "deporre" vuol dire "far
giacere". Il passato e il participio sono laid: "La
gallina ha deposto un uovo" the hen has laid an egg.
Analogo è il caso del verbo
rise "sorgere" (passato rose, participio
passato risen) — sunrise è il sorgere del
sole; è anche "aumentare" nel senso di "salire"
prices have risen "i prezzi sono saliti". Il
causativo è raise "aumentare" nel senso di
"far salire" they have raised their rates "hanno
aumentato le loro tariffe". Notiamo che mentre noi diciamo
"porre una domanda" in inglese si dice raise a
question, letteralmente "sollevare una domanda".
Parliamo di questi verbi proprio
questa sera perché stiamo celebrando i sacri misteri di Colui
che fu deposto in una tomba Jesus was laid in a tomb ma è
risorto: Christ has risen again — in una traduzione
recente del Vangelo si dice He has been raised from death "è
stato sollevato dalla morte". Il titolo del volume a cui mi
riferisco, l’edizione cattolica di una traduzione
interconfessionale in inglese, è Good News Bible, e fra
tutte le good news, le buone notizie, quella della
Resurrezione è in assoluto la migliore di tutte, quella
fondamentale: Christ has risen again.
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L’alfabeto
Per alcune trasmissioni prenderemo
lo spunto dalle 26 lettere dell’alfabeto inglese. E’
importante conoscerle per sapere "fare lo spelling",
ossia dire lettera per lettera i nomi propri. Ognuna di loro si
presta anche a una serie di osservazioni più o meno curiose e
spero interessanti.
La prima, la a, si pronuncia
[ei] come lettera e in quei rarissimi casi in cui l’articolo
indeterminativo è accentato, ossia in espressioni come the
article a; altrimenti la pronuncia normale dell’articolo è
debole: a sweet song una dolce canzone.
Tornando alla lettera, la A
maiuscola indica anche la nota LA e la rispettiva tonalità; le
lettere successive, fino alla G, indicano le note successive fino al
SOL: symphony in A major "Sinfonia in la maggiore",
sonata in A minor "sonata in la minore". E’
poi usata come abbreviazione in molti contesti, soprattutto tecnici.
Una di queste abbreviazioni, molto usata qualche tempo fa, era A-bomb
per atomic bomb, la bomba atomica. Ne riparleremo, purtroppo,
quando ci occuperemo della lettera H. C’è anche la
vitamina A, vitamin A [vit- in BrE, vait- in AmE].
La lettera A è anche
adoperata spesso per indicare che qualcuno o qualcosa è di
prima categoria grade A — come del resto da noi
la Serie A nei campionati sportivi. A1 era la classificazione che il
registro delle assicurazioni navali attribuisce alle navi più
nuove e sicure, di primissima qualità e massima sicurezza,
come il Titanic e A1 si usa tuttora come sinonimo di
excellent, eccellente.
Il nome della lettera b ha la
stessa pronuncia del verbo essere be e dell’ape bee.
La lettera rappresenta la nota si: concerto in B flat
"concerto in si bemolle". Si usa anche per indicare che
qualcosa è di seconda categoria, noi diremmo "di Serie
B". B&B è la normale abbreviazione di Bed and
Breakfast, letto e prima colazione, che è sia una delle
possibili sistemazioni in albergo, invece della pensione completa o
della mezza pensione, sia una guest house, una pensione senza
ristorante, che spesso in Gran Bretagna e in Irlanda offre
un’accoglienza molto gradevole a prezzi modici.
La lettera c si pronuncia
[si:] esattamente come il verbo "vedere" see e il
“mare”, sea. Come si diceva ieri sera, le prime
sette lettere corrispondono alle note, a partire dal la, e quindi C è
il do: ad esempio, C sharp è il do diesis e middle
C è il do centrale.
E di nuovo, analogamente ad A e B, C
indica qualcosa di terza categoria, (di Serie C, diremmo noi). Nel
sistema scolastico americano, in cui A significa eccellente e B
buono, C è un voto che indica prestazioni discrete o
sufficienti. E tra le vitamine, forse la C è quella di cui si
parla più spesso, soprattutto nella stagione dei raffreddori.
C sta per celsius o centigrade nelle temperature.
Sulla lettera D, che si chiama [di:]
anche in inglese, alcune delle cose da dire sono conseguenti a quanto
già detto sulle altre prime lettere dell’alfabeto: è
la nota re e la rispettiva tonalità — D major re
maggiore; è un voto mediocre, appena sufficiente o quasi
sufficiente a seconda dei casi; è una vitamina; e può
indicare qualcosa di quarta categoria. In quanto alle abbreviazioni,
lo troviamo in R&D, Research and Development ossia
"ricerca e sviluppo" e soprattutto in DJ, Disc Jockey.
Il D Day è il giorno fissato per qualche operazione
importante — in particolare lo si riferisce al giorno dello
sbarco alleato in Normandia, il 6 giugno 1944. L’abbreviazione
3-D si usa per indicare "tridimensionale", ad esempio con
riferimento al cinema a tre dimensioni.
Anche la lettera E è un voto
(scadente), una vitamina, e una nota, il MI; come abbreviazione la
troviamo soprattutto in e-mail, dove sta per electronic:
e-mail è la posta elettronica. Come in italiano, e
indica la base dei logaritmi naturali. La pronuncia delle vocali crea
qualche problema; ieri sera abbiamo parlato della A che si pronuncia
[ei] — e quindi assomiglia alla nostra "e"; adesso
troviamo la e che si pronuncia "i" esattamente come
la nostra vocale "i".
La pronuncia di "effe" è
[ef]; rappresenta la nota "fa" ed è anche il voto
negativo, che corrisponde all’iniziale del verbo fail
"fallire, bocciare o essere bocciato". F è
l’abbreviazione di Fahrenheit, la scala per le
temperature usata in Inghilterra.
La settima lettera si chiama G come
in italiano, corrisponde alla nota sol, e con lei finiamo la scala
musicale che era cominciata col la. Come abbreviazione
internazionale, g si riferisce all’accelerazione di
gravità. E’ anche una vitamina. I G-Men sono gli
agenti dell’FBI, il Federal Bureau of Investigation
ossia l’agenzia investigativa federale. Probabilmente G-Man
proviene da Government Man, uomo del governo. Gee! è
un eufemismo per Jesus, Gesù, e si usa per esprimere
sorpresa, o comunque all’inizio di una risposta che è
una reazione emotiva a qualcosa che si è visto o sentito.
La lettera h in inglese si
chiama [eic’]. Anch’essa è usata per indicare una
vitamina ed è il simbolo chimico dell’idrogeno. Finora
non ho parlato dei simboli chimici (avrei dovuto parlare del boro per
la lettera B, del carbonio per la C, e così via) ma qui la
faccenda è diversa: dal 1950 esiste la H-Bomb, la bomba
H ossia all’idrogeno hydrogen.
La lettera i si pronuncia
[ai] come la parola eye "occhio"; maiuscola, è
il pronome "io". Tra le abbreviazioni, I/O [ai stroke o]
sta per input-output.
Dopo la i, nell’alfabeto
inglese, vengono la j [g’ei] e la k [kei]. Un
lavoro scientifico spedito a una rivista medica americana è
stato pubblicato con mesi di ritardo perché alla nota I
seguiva la nota L e i redattori hanno pensato che fossero "saltate"
due note — non sapevano che nell’alfabeto italiano
mancano queste due lettere e l’hanno rinviato al mittente. In
Italia, la L è stata corretta in J e il lavoro è stato
rispedito. Cito l’episodio per sottolineare l’importanza
dell’attenzione ai dettagli — anche all’ordine
alfabetico — e per ricordare che le lettere si usano negli
elenchi e in altri casi invece dei numeri per indicare primo,
secondo, ecc. In inglese, il decimo elemento della serie si chiama J
e non L.
Che la j si chiama in inglese
è noto per via del DJ. JAY è anche la gazza. Così
come è noto che la lettera k si chiama [kei] per via
della seconda lettera di OK. Non si capisce perché in K-WAY si
dica [ki] che non è né il nome inglese né quello
italiano della lettera K. K è una vitamina e è il
simbolo dei gradi KELVIN.
Nell’esplorazione
dell’alfabeto inglese siamo arrivati alla lettera l, che
si chiama [el]. Non ci sono osservazioni particolari per questa
lettera, né per le due successive, m e n, se non
che quest’ultima non si usa come abbreviazione di "numero".
La N maiuscola si usa invece come abbreviazione di North, il
nord.
La lettera o ha la stessa
pronuncia del verbo owe "essere debitore". O
è usato come nome della cifra zero, specialmente nel dire i
numeri di telefono. O-ring è una guarnizione a
forma di anello — come quella che si trova in tutte le
caffettiere moderne.
La lettera p si pronuncia
come in italiano e ha la stessa pronuncia del verbo pee che
significa "fare la... pipì". Il pi greco che in
geometria equivale al valore di 3,14 si chiama pi e quindi si
pronuncia come "la torta" pie.
La lettera q ha la stessa
pronuncia di due parole inglesi. La prima si scrive queue ed è
la coda, la fila in attesa dell’autobus o davanti a uno
sportello. Si usa anche come verbo, queue o queue up.
Spesso è abbreviata con la sola lettera Q nei cartelli: Q
HERE. Scritto invece cue è l’indizio, il
suggerimento, e anche la stecca nel gioco del bigliardo.
La lettera r si pronuncia
[a:] — ricordo che la lettera a si pronuncia [ei]. R è
anche la pronuncia del presente di be nelle persone plurali
we are, you are, they are. Come abbreviazione, R si trova nei
termometri con la scala Réamur e anche in R&B per rhythm
and blues.
La lettera S si pronuncia [es] e
come abbreviazione sta per south, il sud.
La lettera T si pronuncia come in
italiano e ci sono altre due parole con la stessa pronuncia; una è
il tè, tea; l’altra, tee, è il
supporto della pallina da golf per il colpo iniziale. Una parola
usata anche da noi e che contiene questa lettera è t-shirt,
la maglietta senza colletto.
La lettera u si pronuncia
come il pronome you (“voi”, ma usato anche come
"tu") e anche come ewe la pecora femmina adulta. I O
U (per I owe you) è il nome di un documento che
costituisce la ricevuta di un prestito o comunque il riconoscimento
di un debito (non è un pagherò perché non si
indica la data del rimborso). La lettera U è sempre più
usata al posto del pronome you in certi messaggi come WHILE U
WAIT, "mentre aspettate" per quei posti che fanno subito
certi lavori come la copia delle chiavi o il tacco delle scarpe.
La v si pronuncia [vi:] e
quindi se diciamo PAY TI VU invece di pay TV usiamo
un’espressione mezza inglese e mezza italiana. V neck
è il collo a V di un indumento.
Tra la Vu e la zeta in inglese ci
sono altre tre lettere. La prima, la w, si chiama
double U, che vuol dire non "doppia vu" ma "doppia u".
Come abbreviazione sta per west, ossia ovest. Nei paesi di
lingua inglese non la si usa per "evviva" (e quindi
nemmeno, capovolta, per "abbasso").
La lettera x si pronuncia
[eks] — e quindi la pronuncia originale della serie televisiva
è EX-FILES. Come da noi, la x si usa per indicare
l’incognita in matematica; un altro uso importante è in
X-Ray che è la radiografia. Per la sua forma a croce si
usa anche come abbreviazione di cross, “incrocio”
o “attraversare”. Conosciamo poi la taglia extra-large
abbreviata XL. Nella classificazione dei film, X indicava quelli
esclusi, ossia vietati ai minorenni.
La lettera Y si chiama [wai], con la
stessa pronuncia di why “perché”. Come x,
la si usa per le incognite, e si trova inoltre associata alla x
negli assi cartesiani e nella identificazione dei cromosomi.
Siamo infine arrivati alla lettera Z
che dagli inglesi è chiamata [zed] e dagli americani [zi].
Oltre a essere la terza incognita e il terzo asse dopo x e y,
la si usa nei fumetti per indicare la persona che dorme, da cui
l’espressione idiomatica catch some zees, letteralmente
"prendere alcune zeta" per "fare un pisolino".
Finisce qui l’alfabeto, dal
quale abbiamo spigolato una serie di curiosità e di usi
particolari. Ne abbiamo tralasciati molti altri, dall’uso delle
lettere per i numeri romani (e stranamente inglesi e americani
preferiscono usare le minuscole invece delle maiuscole, soprattutto
nelle pagine delle prefazioni dei libri) fino all’infinità
di sigle che si diffondono sempre più. Questa sera abbiamo
parlato di extra large, le sere scorse avrei potuto ricordare
la L di large, la M di MEdIUM e la S di small —
ma non sono certo le sole omissioni.
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Ricomincio da uno
Dopo aver passato in rassegna
l’alfabeto, cerchiamo di scovare qualche particolarità e
curiosità tra i numeri. Il primo è one, che ha
la stessa pronuncia del passato del verbo WIN, vincere —cioè
won. Siccome in italiano il numero uno coincide con l’articolo
indeterminativo, ci può essere il problema di quando usare one
invece di a o an. Si preferisce one quando c’è
un’idea di quantità precisa: "il volo durerà
un’ora" the flight will take one hour. In qualche
caso one sta per "uno solo": hole in one, nel
gioco del golf, è la buca raggiunta col primo colpo.
Ma si usa one anche quando
"uno" vuol dire "un certo, un tale": I’ll
be rich one day "un giorno sarò ricco"; early
one morning "una certa mattina presto".
One deve essere usato quando
"uno" è correlativo di "altro": "io
ho detto una cosa, lui ne ha capita un’altra" I said
one thing, he understood another. Ciò che "entra da
un orecchio e esce dall’altro" è qualcosa che goes
in one ear and out the other.
Insieme, one another formano
il pronome reciproco "l’un l’altro"; il giovedì
santo abbiamo ricordato il comandamento dell’amore love one
another, "amatevi gli uni gli altri." Una forma
alternativa di pronome reciproco è each other: "si
criticarono a vicenda aspramente" they criticised each other
bitterly. Nella lingua inglese di oggi, each other e ONE
ANOTHER si usano indifferentemente, come sinonimi. Certe
grammatiche dicono ancora che un’espressione si usa parlando di
due persone o cose, l’altra per più di due — ma
questa distinzione, se mai è stata vera in passato, di sicuro
non lo è più oggi.
One è anche il pronome
usato per non ripetere una parola già detta: in the blue
pen and the red one "la penna blu e quella rossa", one
permette di non ripetere pen. Se occorre può essere
plurale "i libri vecchi e quelli nuovi" the old books
and the new ones. Nelle forme possessive aggiunge –’s:
"fare il proprio dovere" do one’s duty.
One pronome si usa in molte
espressioni; in California, the big one è il grande
terremoto che, secondo le previsioni, trascinerà nell’Oceano
Pacifico una fetta della fascia costiera. The Loved One,
"l’amato" indica il defunto, il compianto; il titolo
del romanzo (e del film) è stato tradotto con "Il caro
estinto".
Il seguito al prossimo numero...
Nella nostra rassegna dei numeri,
siamo arrivati al due, two. La pronuncia coincide con quella
dell’avverbio too e con la pronuncia "forte"
della preposizione e particella to. Apriamo una parentesi
sull’avverbio too, per ricordare che ha due usi
principali: davanti a aggettivi e avverbi significa "troppo":
"non è mai troppo tardi" it’s never too
late; alla fine di una frase significa "anche" e questo
ha dato origine al vecchio gioco di parole sui due treni che partono
alle 13.58, cioè due minuti prima delle due. "A
che ora parte il treno per Bristol?" What
time does the Bristol train leave? At two to two.
"E quello per Liverpool?" And the Liverpool
train? At two to two, too! — anche lui alle due meno due.
La stessa radice del numero due la
troviamo nella parola "gemelli" twins; le torri
gemelle del World Trade Center di New York City erano
le Twin Towers; e la troviamo nella parola between che
vuol dire "tra" o "fra" — di solito tra
due, come "tra te e me" between you and me (nel
senso di "in confidenza"), ma a volte anche in espressioni
come "fra quattro mura" between four walls.
Two-way, letteralmente "a
due vie, bidirezionale" è contrapposto a one-way
soprattutto in espressioni come a two-way road "una
strada a doppio senso di marcia" e a two-way radio "una
radio rice-trasmittente" — one-way street è
"una via a senso unico".
Two è anche il paio,
la coppia — e a proposito di coppie e del terzo incomodo, si
dice che two is company and three is none "due è
una compagnia e tre no". Che due negazioni affermino non è
vero né in inglese né in italiano — questo è
uno dei punti su cui dovremo tornare. L’inglese ha un proverbio
in rima che riprende questo concetto: two blacks do not make a
white, two wrongs do not make a right "due neri non fanno un
bianco, due torti non fanno una ragione".
Sul numero tre, three, non
c’è molto da dire. Come in italiano, si conta fino a tre
one two three! per dare il via a una corsa, specialmente nei
giochi dei bambini. L’espressione the three r’s
"le tre erre" indica le conoscenze elementari: reading,
la lettura, writing, la scrittura, e arithmetic,
l’aritmetica e corrisponde al nostro "leggere, scrivere e
far di conto." Ci sono poi i trii di tutti i tipi, dalle tre
Grazie The Three Graces ai Tre Porcellini The Three Little
Pigs.
Proseguendo nella rassegna dei
numeri, ripartiamo da quattro, four. La pronuncia coincide con
quella della preposizione for, quando questa preposizione si
trova in posizione accentata. In "tè per due" tea
for two, for è pronunciata nella forma debole [fa];
ma in "che cosa stai cercando?" what are you looking
for? for ha la pronuncia forte [fo:].
Un’altra parola, molto meno usata ma anche lei pronunciata
[fo:] è fore e significa
"anteriore" the fore legs of a horse sono "le
zampe anteriori di un cavallo." forearm è
"l’avambraccio".
In quanto a significato e usi, four
non si differenzia molto dall’italiano "quattro."
Forse l’unica espressione di una qualche importanza è
four-letter word, che letteralmente significa "parola di
quattro lettere" ma è un eufemismo che si riferisce alle
cosiddette ‘parolacce’, che in inglese sono quasi tutte
di quattro lettere.
Con il numero quattro, cominciamo ad
avere i numerali ordinali che si ottengono aggiungendo TH al numero
cardinale; dopo first, second e third, "primo,
secondo e terzo" il quarto è fourth.
Troviamo però subito
un’eccezione col numero cinque, five: "quinto"
è fifth, con il dittongo [ai] che diventa [i] e il
suono finale di [v] che diventa [f]: five, fifth. Nel
linguaggio giovanile americano, high five, letteralmente "un
cinque alto," è il gesto di battere il palmo della mano
contro quello di un amico come segno di gioia e di riuscita. Da noi è
stato ripreso, anche in una canzone, come give me five ,"dammi
un cinque".
Sul numero sei six non c’è
niente di particolare da dire, se non forse che in inglese sesto è
sixth e che al plurale diventa un po’ uno scioglilingua:
"cinque sesti" è five sixths.
Nemmeno sul sette seven e sul
settimo, seventh ci sono osservazioni particolari. L’otto,
eight, termina già per t, e quindi eighth,
ottavo, aggiunge solo l’h. Invece il nove, nine,
termina con una E muta che non si scrive in ninth, il nono.
Saltiamo al dodici, twelve,
che termina per -ve e le cambia in f prima di
aggiungere -th: "dodicesimo" è twelfth.
E infine al venti, twenty, che cambia la y finale in
-ieth: ventesimo è twentieth — lo vediamo
nei film della 20th Century Fox. Allo stesso modo si
comportano gli altri numeri che esprimono le decine e terminano in y:
fifty, fiftieth.
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L’inglese specialistico
Mi sono occupato parecchio tempo
della lingua inglese usata nei testi specialistici,
tecnico-scientifici di vari settori, dall’economia politica
all’informatica. Non da solo, naturalmente, ma in
collaborazione con alcune validissime colleghe, che in questo momento
desidero ricordare con un saluto.
Nei pochi minuti di trasmissione non
si riesce a fare un discorso abbastanza esteso, ma spero lo stesso di
dire alcune cose essenziali sull’inglese settoriale. La prima
cosa è che il problema non è solo nei vocaboli tecnici
— certamente questi ci sono, ma spesso sono costruiti a partire
da parole latine e greche e quindi, almeno nello scritto,
assomigliano molto alle corrispondenti parole italiane. Penso, per
restare su termini che poi sono stati resi noti al grande pubblico, a
parole come tomography, la tomografia o chemotherapy,
la chemioterapia. In qualche caso sono proprio i vocaboli tecnici,
assieme agli schemi, alle tabelle, alle formule matematiche o di
altro tipo, ai diagrammi tecnici, ad aiutare a capire le parole più
comuni che tengono insieme un testo.
E’ proprio dal testo nel suo
insieme che si deve partire, perché ogni materia e ogni
argomento hanno un proprio modo di organizzare il discorso. Oggi ci
sono anche dei veri e propri generi letterari nuovi, come l’abstract
all’inizio di un articolo scientifico, che deve servire per
decidere se un ricercatore debba dedicare del tempo a leggerlo. E’
un genere nuovo perché non tutti quelli che sanno riassumere
sanno fare un buon abstract — e un discorso analogo si
può fare per altre operazioni testuali al confine tra il
linguistico e lo specialistico.
Le reti telematiche e le memorie al
laser consentono ora di creare gli ipertesti, costruiti in modo che
basta un clic per passare a un’altra parte dello stesso
documento o ad altri documenti collegati. Ai tecnici informatici è
affidato il compito della realizzazione tecnica di questi strumenti
di comunicazione, ma per i testi sempre più spesso si ricorre
a persone con una formazione umanistica, in particolare linguistica.
Sono sviluppi interessanti, da seguire giorno per giorno.
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Le stagioni
Con alterne vicende meteorologiche
ci inoltriamo nella primavera e quindi dedico alle stagioni la
conversazione di stasera. La primavera si chiama spring, una
parola che significa anche "fonte, sorgente d’acqua"
e anche "molla". La troviamo nel senso di "primavera"
in spring cleaning, quelle che noi chiamiamo "le pulizie
di Pasqua", e nel senso di "molla" in spring
mattress, "materasso a molle." Spring come
verbo significa "scaturire, avere origine" — e si
collega a spring "fonte" — e anche "balzare,
scattare come una molla". Tra gli usi che ho trovato registrati
in un dizionario c’è anche lo spring roll,
l’involtino primavera tipico della cucina orientale.
L’estate è summer;
troviamo questa parola usata in inglese in alcuni casi in cui noi
invece parliamo di primavera: nel proverbio a swallow doesn’t
make a summer "una rondine non fa primavera" — ma
la bella stagione arriva più tardi in Inghilterra — e in
espressioni in cui "primavera" significa "anno:"
"una signorina di quaranta primavere" a girl of forty
summers. L’estate di San Martino si chiama Indian
Summer, letteralmente "l’estate indiana". Si
parla anche, come da noi, di st. Martin’s summer quando
l’Indian Summer è in novembre.
Per l’autunno ci sono due
parole: la prima, di origine latina, è di uso corrente in
Inghilterra: autumn (la n finale è muta). In
America si preferisce usare fall, che corrisponde al verbo
fall, cadere, con evidente riferimento alla caduta delle
foglie. Su questo si basa la vecchia storiella, che probabilmente
conoscete già, di quel ragazzo che dice "il mio amico
texano verrà in Italia la prossima volta che cade": next
fall è il prossimo autunno, non la prossima caduta.
L’inverno è winter,
scritto come "viva l’Inter" — una cosa che dava
molto fastidio ad alcuni miei scolari accesi milanisti. Il verbo
winter corrisponde al nostro "svernare", ossia
trasferirsi in climi più miti per passare la cattiva stagione.
Come in italiano, anche in inglese
le stagioni sono usate come metafore delle età dell’uomo,
dalla primavera-giovinezza fino all’autunno-vecchiaia.
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Gli altri popoli
Ieri sera, parlando dell’estate
di San Martino ho detto che in inglese è Indian summer,
l’estate indiana. In tutte le lingue si usano aggettivi di
nazionalità per indicare gli oggetti più disparati, ma
le scelte variano da lingua a lingua. Qualche volta coincidono, come
la fila indiana che anche in inglese è Indian file, ma
il più delle volte no. Dalla Russia abbiamo, in lingua
italiana, l’insalata russa e la roulette russa. Ma mentre
quest’ultima si chiama Russian roulette anche in
inglese, l’insalata russa così come noi la intendiamo
non la conoscono nei paesi di lingua inglese e quindi Russian
salad non si trova sui dizionari inglesi o americani, ma solo in
certi dizionari bilingui italiani. In compenso, si parla di Italian
dressing, condimento all’italiana, per una salsa da
insalata a base di aglio e origano che pochi, da noi, usano, dato che
di solito la condiamo con oil and vinegar, olio e aceto.
Il tacchino ha lo stesso nome della
Turchia, turkey, mentre da noi è detto anche dindo,
ossia pollo d’India. La nostra "faraona" ha un nome
che rievoca l’Egitto: in inglese è guinea fowl,
il pollo della Guinea. Questo paese ha dato il nome anche al guinea
pig, che è la cavia, e alla guinea, tradotta come
ghinea, che è un’unità di valore superiore alla
sterlina e di cui vi dirò settimana ventura, quando parlerò
di monete.
In inglese, il nome della Cina,
china, indica la porcellana; China è scritto
come la nostra "china" — che in effetti è un
nome che indica originariamente "l’inchiostro della Cina".
Se non capisco qualcosa, dico che
"per me è arabo;" in inglese è tutto greco,
oppure doppio olandese: it’s all Greek to me, it’s
double Dutch. E a proposito di olandesi, il Dutch courage
è il coraggio che viene dall’aver bevuto un bel po’
di alcool, mentre go Dutch è il nostro "fare alla
romana" quando c’è da pagare.
Gli italiani e i francesi dicono
"filarsela all’inglese" se filer à
l’anglaise nel senso di "andarsene senza dare
nell’occhio e senza salutare nessuno"; gli inglesi dicono
take French leave, ossia "prender congedo alla francese".
E’ evidente che questi
stereotipi tendono a etichettare i popoli come portatori di difetti
congeniti. Non c’è niente di male, basta non credere
davvero che i portoghesi entrino senza pagare — intendo dire
quelli veri, che abitano in Portogallo, non gli italiani scrocconi.
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My Way
Questa sera vi dirò alcune
cose a proposito della parola way — solo alcune perché
un recente dizionario della lingua inglese la indica come la parola
per la quale il dizionario stesso fornisce più spiegazioni e
esempi, raggruppati in 94 paragrafi, a cui vanno aggiunte le forme
derivate o composte, che sono circa duecento. Alcuni di questi
composti sono parole molto note e frequenti, come anyway
"comunque" e railway "ferrovia".
Possiamo anche citare Broadway,
letteralmente "via larga", famosa perché i teatri di
Broadway sono molto più importanti di quello che si
trova a Milano in Via Larga. Way è quindi la via, in
senso proprio e in senso metaforico. Nella versione inglese del
Vangelo di Giovanni, Gesù dice I am the way, the truth, and
the life "Io sono la via, la verità e la vita".
All the way vuol dire "fino in fondo", come nella
canzone di Sinatra in cui si dice che quando qualcuno ti ama non è
amore vero se non ti ama all the way.
Se qualche ostacolo si frappone si
dice che gets in the way, e a coloro che intralciano si dice
get out of the way, "togliti di mezzo." Se si cerca
il modo di aggirare un problema o una difficoltà, si cerca una
way around. Le entrate e le uscite in molti luoghi sono
indicate con i segnali di WAY IN e WAY OUT
rispettivamente. Way quindi è anche la direzione: chi
si trova a un incrocio e deve andare alla stazione può
chiedere which way to the station? e la risposta può
essere that way! "da quella parte, in quella direzione."
Se qualcosa è lontano si dice
che it’s a long way ma nelle domande e nelle frasi
negative si preferisce far. Is it far?
No, it isn’t very far "è lontano?
No, non è molto lontano." I soldati della prima guerra
mondiale cantavano "Tipperary è lontana" it’s
a long way to Tipperary.
Di chi è all’avanguardia
in qualche campo si dice che leads the way, "apre la
strada".
Lasciando a un’altra occasione
gli altri significati di way, termino con un altro composto,
subway, che in Inghilterra è il sottopassaggio e in
America è la metropolitana — è facile confondersi
perché un subway del primo tipo può condurre a
una subway dell’altro tipo.
Ieri sera abbiamo parlato di alcuni
dei significati e usi di way — nel senso di "via,
strada, direzione, percorso e distanza". Un altro significato
importante è quello di "modo, maniera" —
evidentemente collegato al precedente ma distinto, e anche lui al
centro di molte espressioni diverse.
"A modo mio" è my
way, a modo tuo è your way, ecc. The way you are
è "il modo in cui tu sei". Se sto mostrando a
qualcuno come si fa a fare qualcosa, gli dico "fai così"
do it this way. Al plurale, ways sono le abitudini di
una persona o gli aspetti di qualcosa. He will never change his
ways "non cambierà mai le sue abitudini, il suo modo
di fare"; in some ways, my holidays are hard work "per
certi aspetti, le mie vacanze sono un duro lavoro". Troviamo
anche l’espressione in a way per "in un certo
senso", che serve per attenuare un’affermazione: in a
way, the accident was lucky "in un certo senso, l’incidente
è stato una fortuna".
Lo stile di vita di un popolo o di
un gruppo sociale è the way of life o the way of
living — si parla quindi di British way of life
anche se la realtà britannica è altrettanto composita
di quella italiana. Qualcuno che è malconcio come salute è
in a bad way: he’s in a bad way, but able to talk
"è messo male, ma è in grado di parlare".
No way, spesso ripetuto (no
way! no way!) è un modo, usato soprattutto dagli
americani, per rispondere "assolutamente no, per niente" a
una richiesta o per esprimere il nostro "niente da fare".
Il nostro proverbio "volere è potere" in inglese è
where there’s a will there’s a way "dove c’è
una volontà c’è un modo" — o "una
strada": come dicevo all’inizio, i due significati non
sono molto lontani tra loro, soprattutto in alcuni contesti.
Per dire che occorre scegliere si
dice you can’t have it both ways — letteralmente
"non si può averlo in entrambi i modi."
By way of
significa "a mo’ di": "dire qualcosa a mo’
di introduzione" say something by
way of introduction. E significa
anche "per mezzo di": "insegnare l’inglese
attraverso gli esempi" è teaching English by way of
examples. A proposito: mi stavo dimenticando di by the way
che appunto significa "a proposito".
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Parliamo di soldi
Settimana scorsa ho promesso che
avrei parlato delle parole inglesi che si riferiscono al denaro,
money, e alle monete, coins. La sterlina inglese si
chiama pound, dal latino "pondus", che è il
peso — e in effetti abbiamo parlato dell’altro
significato di pound "libbra" quando ci siamo
occupati di pesi e misure.
Con riferimento al denaro, a volte
si parla di pound sterling, ove sterling è un
aggettivo che si riferisce all’argento con il titolo di
925/1000. Di questo metallo era fatta una moneta medievale e da
allora sterling significa "pregiato, genuino". Dire
di una persona che ha una sterling reputation significa dire
che ha fama di essere una persona integerrima. È da questo
aggettivo che deriva l’italiano "sterlina".
Fino al 15 Febbraio 1971, la
sterlina era divisa in 20 scellini, shillings, e ciascuno
scellino era diviso in 12 denari o pence. Pence è
il plurale irregolare di penny (il che vuol dire che Penny
Lane è il Vicolo del Soldo). Nel 1971 è stato
introdotto il sistema decimale, in cui un pound si divide in
cento pence.
Pence si adopera per indicare
i valori, mentre le monete da un penny sono pennies. Se
uno chiede five pence gli si può dare una moneta da 5
centesimi, ma se chiede five pennies ha bisogno di cinque
monete da un penny.
Ci sono parole che vi può
capitare di vedere su vecchie monete ancora circolanti o di leggere
in racconti inglesi. Il fiorino florin valeva due scellini,
ossia dieci centesimi attuali. Il suo nome viene dal giglio, il fiore
sulle monete fiorentine coniate a partire dal 1252 — ma quella
era un’epoca in cui tutta l’Europa cercava di adeguarsi
al sistema monetario italiano, e non viceversa...
La mezza corona, half crown,
era una moneta del valore di due scellini e mezzo, ossia un ottavo di
sterlina. La crown, corona, era scomparsa da parecchio tempo
dalla circolazione e viene coniata solo come moneta commemorativa.
Alla sterlina d’oro venne dato
il nome di guinea, scritto come la Guinea, il paese da cui
veniva l’oro per coniarla. Dopo varie oscillazioni, il suo
valore fu fissato in 21 scellini e, scomparsa la moneta, la "ghinea"
è rimasta nell’uso per indicare il valore di certi premi
e degli onorari di certi professionisti: quindi una sterlina di
prestigio, che vale il cinque per cento più dell’altra.
Dopo aver parlato ieri sera della
sterlina, questa sera proseguo nell’esplorazione delle altre
valute e monete dei Paesi di lingua inglese. La sterlina irlandese,
che viene chiamata punt, si divide anche lei in cento pence
come quella inglese.
Il dollaro, dollar, prende
nome dal tallero, moneta europea che a sua volta deriva da
Joachimst(h)aler, l’argento proveniente da una miniera scoperta
nel 1519 nella valle di Sankt Joachim in Boemia. Il tallero fu
sostituito dal marco tedesco solo nel 1873.
Il dollaro si divide in cento cents.
Le monete in circolazione negli Stati Uniti, oltre al dollaro (che
però circola soprattutto come banconota) e al cent
sono:
— il mezzo dollaro, half
dollar;
— il quarto di dollaro o
quarter;
— i dieci centesimi o dime
ossia decimo di dollaro;
— i cinque centesimi, detti
familiarmente nickel.
Il dime e il nickel
sono quelli che i fumetti di Topolino e di Charlie Brown ci hanno
resi familiari come il "decino" e il "nichelino".
Quest’ultimo evidentemente prende il nome dal metallo, così
come il cent viene a volte chiamato copper perché
è di rame — un altro nome è penny, come il
centesimo inglese.
Oltre che degli Stati Uniti, dove è
stato adottato sin dal 1792, il dollaro è la moneta del
Canada, che adottò il dollaro e il sistema monetario decimale
nel 1858; l’Australia lo adottò nel 1966 e la Nuova
Zelanda nel 1967.
Concludo con un paio di proverbi sui
soldi. Il primo è take
care of the pence and the pounds will take care of themselves,
ossia bada ai centesimi e le sterline baderanno a se stesse. Ma
un altro proverbio avverte che si può essere penny wise,
pound foolish: è detto di coloro che stanno molto attenti
a come spendono le piccole somme ma poi non sono altrettanto saggi
con quelle grosse: saggi con i penny, penny wise, e
sciocchi con le sterline, pound foolish.
E siccome anche il tempo è
denaro, time is money, badiamo a come lo spendiamo — in
inglese si dice proprio spend time per "trascorrere il
tempo".
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1° Maggio
La tradizione del Calendimaggio, che
ormai si va perdendo anche dove è sempre stata molto viva, non
è solo italiana.
In Inghilterra, la tradizione vuole
che il primo maggio si elegga the Queen of May, la regina di
maggio durante una festa popolare durante la quale si danza attorno a
un palo, detto il maypole. Questo "palo di maggio"
viene decorato di ghirlande di foglie e fiori. Dalla sua cima pendono
dei nastri molto lunghi. Le danzatrici, girando attorno al palo,
incrociano i nastri formando delle trecce molto elaborate.
Il primo maggio the first of May
è anche il Labour Day, la festa del lavoro, una delle
festività ufficiali inglesi — si chiamano
tradizionalmente Bank Holidays, le feste bancarie, ma non sono
solo le banche a rimanere chiuse. Se il primo maggio è sabato
o domenica, la festa è rinviata al lunedì. Le altre
festività sono: il venerdì santo Good Friday e
il lunedì di Pasqua Easter Monday; il lunedì di
Pentecoste Whitmonday è stato sostituito dall’ultimo
lunedì di maggio; il primo lunedì di agosto, il primo
novembre, il giorno di Natale e, se è feriale, il giorno
successivo detto Boxing Day. In Irlanda è festa civile
anche il giorno di San Patrizio (st. Patrick’s day) —
o, se il 17 marzo è domenica, il lunedì successivo.
Negli Stati Uniti il Labor Day
non si celebra il primo maggio ma il primo lunedì di
settembre.
Come si vede, c’è la
tendenza a sostituire le feste mobili con le date fisse e a spostare
al lunedì le feste infrasettimanali — sia per non
spezzare la settimana lavorativa che per consentire il long
weekend, il fine-settimana prolungato. Tutto questo va
sicuramente nella direzione dell’efficienza e della
produttività ma fa smarrire il senso delle festività,
in particolare di quelle cristiane. Sostituire il lunedì di
Pentecoste con un lunedì fisso significa dimenticare la terza
persona della Trinità, the Holy Spirit, lo
Spirito Santo a cui è dedicato l’anno che stiamo vivendo
in preparazione al Giubileo. Da noi sono state spostate dal giovedì
alla domenica l’Ascensione e il Corpus Domini, solennità
che così hanno perso molto del loro rilievo.
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Troppo giusto!
Ogni tanto dedichiamo queste
conversazioni all’analisi di una parola inglese che ha molti
usi e significati. Questa sera ci occupiamo di right. Ci sono
altre tre parole con la stessa pronuncia. Una è il verbo
scrivere, write; la seconda è il rito, rite; e
la terza è wright che è il cognome dei fratelli
Wright pionieri dell’aviazione ma è anche una
parola dell’inglese comune per indicare l’artigiano
specializzato in un dato settore: dal cartwright, il
carradore, colui che faceva i carri, al playwright, il
commediografo.
Torniamo a right. E’
aggettivo, nome, avverbio e verbo e ha vari significati. Come
aggettivo, corrisponde a "destro" — è
l’opposto di left, sinistro; il mio piede destro è
my right foot. "A destra" corrisponde a on the
right nello stato in luogo: La persona a destra nella foto è
il ministro the person on the right in the photo is the minister;
se invece si tratta di moto a luogo si dice to the right: gira
a destra al semaforo turn to the right at the traffic lights.
Nel significato di "destro" right si usa spesso
associato a hand, la mano: il lato destro è the
right-hand side.
Right corrisponde anche a
"giusto": la risposta giusta è the right answer;
in questo caso il contrario è wrong, sbagliato. Avere
ragione è be right, più o meno come "essere
nel giusto". E un angolo retto è un right angle.
Gli usi come nome riflettono quelli
come aggettivo: the Right con la R maiuscola è la
Destra in senso politico; right è anche "il
diritto": "hai il diritto di scegliere" you have
the right to choose; the right of way è, a seconda
del contesto, il diritto di transito o il diritto di precedenza. Al
plurale sono i diritti: human rights sono i diritti umani; the
Bill of Rights è la Dichiarazione dei Diritti —
negli Stati Uniti hanno questo nome i primi dieci Emendamenti della
Costituzione, del 1789, mentre in Inghilterra è la legge
costituzionale del 1689, una delle leggi fondamentali in un paese che
non ha una costituzione organica. In senso più specifico, si
parla anche di the rights per quanto riguarda ad esempio i
diritti di pubblicazione di un libro o di una notizia in esclusiva.
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Giustizia e destrezza
Ieri sera sono riuscito a parlare
solo di alcuni significati e usi di right: come aggettivo (che
vuol dire "giusto", "destro" o "retto"
in "angolo retto" right angle) e come nome —
la Destra, anche politica, e il diritto nel senso di facoltà
legale di fare qualcosa: il diritto di voto the right to vote,
il diritto d’autore copyright. Abbiamo anche parlato dei
diritti, e in particolare dei diritti umani e costituzionali. Right
non si usa invece nel senso di Giurisprudenza: studiare diritto è
study law, ossia "legge".
Right si usa anche come
avverbio, con valore rafforzativo. Lo si trova in espressioni come
right reverend, molto reverendo e right honourable,
titolo che qualifica alcuni giudici, nobili e altri alti dignitari.
Più spesso right accompagna espressioni di tempo: right
now è "proprio adesso"; right after the
earthquake there was a snowfall "subito dopo il terremoto
c’è stata una nevicata" — right off e
right away significano "immediatamente": the boss
wants to see you right away "il capo ti vuol vedere
immediatamente". Lo si trova anche in espressioni di luogo: "è
proprio lì davanti a te" it’s there, right in
front of you.
Right si usa anche come
interiezione, col valore di "bene", per introdurre una
frase, spesso in risposta a una proposta: "Sono libero il
prossimo fine settimana. Bene! andiamo al mare"
I’m free next weekend. Right!
Let’s go to the seaside. Invece di right, gli
americani — e anche molti italiani — usano ok. Lo
si usa anche in tono interrogativo, per avere una conferma o
un’approvazione. We’ll leave at seven — right?
"Partiremo alle sette: va bene?”
Da right nome derivano due
aggettivi: rightful è "legittimo" sopratutto
in espressioni come the rightful place in history, riferite al
posto che qualcosa o qualcuno occupa legittimamente nella storia.
Righteous è invece la persona retta, consapevole di
essere nel giusto, ma anche chi è considerato dagli altri un
moralista; righteous indignation è l’indignazione
di chi afferma retti principi morali.
Dall’aggettivo right
deriva l’avverbio rightly che corrisponde ai nostri
"giustamente, correttamente, esattamente".
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Just
Dopo avervi parlato per un paio di
sere di right "giusto" (oltre che "destro"),
voglio parlarvi di un’altra parola che potrebbe essere confusa
con right, e cioè just. Anzitutto just è
principalmente un avverbio di tempo o di quantità e
corrisponde spesso al nostro "appena": "il treno è
appena arrivato" the train has just arrived. Notiamo la
differenza: se dico Lynn arrived right on time intendo dire
che Lynn è arrivata esattamente all’ora prevista; se
invece dico Lynn arrived just in time dico che è
arrivata appena in tempo — per fare quello che viene
specificato nel resto della frase, come in just in time to catch
the bus "appena in tempo per prendere l’autobus."
Se chiedete a qualcuno di attendere
un attimo, un secondo dite just a minute, just a moment, just a
second — personalmente detesto "un attimino" e
non capisco perché chi lo dice non dica anche "un
secondino"...
Troviamo just anche in
espressioni di quantità come just enough, "appena
sufficiente" I had just enough money left to buy the ticket
to come back home "mi erano rimasti i soldi appena
sufficienti per comperare il biglietto di ritorno a casa."
Un’espressione frequente è
just in case, analogo al nostro "caso mai", "per
l’eventualità che": "sarà meglio che ti
porti l’ombrello, caso mai cambiasse il tempo" you’d
better take an umbrella, just in case the weather changes. Spesso
just in case si usa da solo: "informa la tua
assicurazione, per ogni eventualità" let your
insurance know, just in case.
Just si usa come aggettivo
soprattutto in just cause, la "giusta causa" e in
ogni caso con riferimento a un senso di giustizia, justice:
una sentenza equa è a just sentence. Riferito a
persone, ora lo si trova solo in testi obsoleti. “Re Salomone
era un uomo giusto” King Solomon was a just man. Un uomo
giusto nel senso di "operatore di giustizia" può
essere a just man, ma nel senso di "persona adatta"
è the right man —the right man in the right place
è "l’uomo giusto al posto giusto".
Justice non è solo la
giustizia, sia come virtù che come sistema giudiziario, ma,
soprattutto in inglese americano è anche il giudice. Un
giudice della Corte Suprema è a justice of the Supreme
Court; un giudice di pace è a justice of the peace.
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Forme impersonali
Un supermercato di una località
di villeggiatura sul mare Adriatico aveva qualche tempo fa (non so se
ci sia ancora, e mi sono molto pentito di non averla fotografata)
un’enorme scritta in tre lingue: MAN SPRICHT DEUTSCH, in
perfetto tedesco; ON PARLE FRANÇAISE al femminile: buon sangue
romagnolo non mente e evidentemente si preferiscono le francesi ai
francesi; e infine, ON SPEAK ENGLISH, che non depone molto a favore
del fatto che dentro sappiano davvero parlare l’inglese, visto
come lo scrivono. ON infatti è francese e come il MAN tedesco
serve per tradurre il SI impersonale italiano — quello di frasi
come "si ascolta tanta bella musica su questa radio".
E in inglese? Un pronome impersonale
non esiste e il più delle volte si usa la forma passiva the
passive voice is used. "Si parla inglese" corrisponde
quindi a english is spoken, di solito abbreviato in ENGLISH
SPOKEN, sottintendendo il verbo "essere". Si fabbricano
molte automobili a Detroit, a lot of cars are made in Detroit.
Al si impersonale italiano a volte
corrisponde il pronome you: "si guida a destra o a
sinistra in Irlanda?" Do you drive on the
right or on the left in Ireland?
Siccome la domanda non riguarda quello che fai tu, ma quello
che si fa da parte di tutti, la risposta ha ancora you: "si
guida a sinistra" you drive on the left. Un’espressione
come "non si sa mai, non si può mai dire" è
you never can tell. E un vecchio indovinello per bambini
chiede: "dove si trovano gli ippopotami?" where do you
find hippopotamuses? e la risposta è it depends on
where you leave them, dipende da dove li si lasciano!
Un altro pronome a volte usato con
valore impersonale è we “noi”: "come
si sa" è as we all know — letteralmente,
"come sappiamo tutti." Tipicamente impersonale, anche se
non molto usato, è il pronome one — "si deve
stare molto attenti a usare i fiammiferi" one has to be very
careful using matches. Un uso tipico di one, del
possessivo one’s e del riflessivo oneself è
con i verbi all’infinito: "Fare il proprio dovere" è
do one’s duty; divertirsi è enjoy oneself.
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Vista e udito
Se dimentichiamo per un momento casi
particolari, come i dialoghi al telefono e le trasmissioni per radio,
si comunica di più con i gesti e in genere con ciò che
colpisce l’occhio che non con le parole. Ancora prima che una
persona sconosciuta ci dica qualcosa, dal suo aspetto e dal suo modo
di muoversi noi deduciamo una serie di informazioni su di lui o lei —
in primo luogo, appunto, se sia un lui o una lei, la fascia d’età,
e spesso la condizione sociale, qualche volta la professione —
anche se non porta la divisa, e così via.
Sappiamo benissimo che esiste la
comunicazione non verbale — cioè non gestita con le
parole — ma spesso ci sfugge il fatto che questi messaggi non
sono universali ma vengono imparati esattamente come impariamo una
lingua — cioè il più delle volte semplicemente
per imitazione, e solo in qualche caso in base a spiegazioni
esplicite. Qualche esempio: sulle scale mobili in Inghilterra si usa
da molto tempo fare quello che ora anche da noi si cerca di
introdurre come buona abitudine: chi sta fermo si mette su un lato e
chi ha fretta sale o scende lungo la corsia che viene lasciata
libera. Nessuno me l’ha insegnato — a Londra l’ho
fatto semplicemente vedendo gli altri: "così fan tutti".
Le spiegazioni vengono date —
qualche volta sotto forma di richiamo o di protesta — quando si
violano le norme, come quella volta che non mi sono accorto che a una
fermata o a uno sportello c’era una coda.
Lo sbaglio che si può fare è
quello di attribuire a gesti o atti lo stesso significato che hanno
nella nostra cultura. Tradizionalmente gli inglesi si stringono la
mano per esprimere sentimenti molto forti — per esempio per
fare le condoglianze a qualcuno o per congratularsi per qualcosa di
veramente importante. Altrimenti la stretta di mano si usa nelle
presentazioni: le due persone che sono presentate si stringono la
mano e dicono how d’you do intanto che chi presenta dice
i loro nomi.
Da noi la stretta di mano fa parte
dei normali saluti tra amici e conoscenti; se un inglese non ci offre
la mano quando lo incontriamo, ci viene da pensare che sia freddo e
scortese — lui a sua volta può pensare che siamo
iperemotivi perché porgiamo la mano anche se non è
morto nessuno e non è successo niente di eccezionale. Si può
sbagliare a capire i gesti come a capire le parole e le frasi.
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Benzina in canestri?
La parola inglese che significa
"canestro" la conosciamo: è il basket, da cui
si ottiene il composto basketball che è lo sport della
pallacanestro. Per inciso, ripeto quello che ho già detto
un’altra volta: l’abbreviazione basket per
basketball è italiana e non inglese. Ma torniamo al
canestro, al cestino, al basket.
Su una rivista enigmistica che
racconta curiosità varie ho trovato un aneddoto su un
americano che ha cercato di rubare della benzina contenuta in
alcuni... canestri. Siccome c’era buio ha pensato bene di usare
un accendino con le conseguenze che potete immaginare — tutto
sommato, nel caso specifico sono state meno tragiche di quello che
sarebbero potute essere (90 giorni salvo complicazioni).
Ora, chi ha tradotto la notizia in
italiano forse pensa davvero che in qualche parte del mondo ci sia
qualcuno che tiene la benzina nei canestri — chissà,
forse gli americani hanno inventato un tipo di cesto che tiene i
liquidi e magari non è infiammabile.
La risposta, come chi mi ascolta a
questo punto ha perfettamente capito, è un’altra: la
parola inglese canister non è per nulla il canestro,
ossia il basket, ma la "tanica". Il contesto è
così chiaro e ovvio che anche chi sa poco e male l’inglese
deve accorgersi che siamo in presenza di un "falso amico" e
quindi deve almeno verificare su un dizionario che cosa vuol dire
canister.
Come per la maggior parte dei "falsi
amici" la somiglianza è dovuta a un’etimologia
comune: "canestro" e canister risalgono alla stessa
parola latina canistrum. La parola italiana è l’erede
diretta di quella latina e continua a indicare il cesto di canna o
oggetti simili, mentre quella inglese è apparsa agli inizi del
1700 — un’epoca con molti prestiti dalle lingue classiche
— ed è stata usata per altri tipi di contenitori e di
custodie. Un canister oggi oltre che la tanica è anche
un barattolo smaltato, la scatola metallica che contiene una
pellicola, e contenitori simili. A GAS canister è una
bombola di gas — e penso che a nessuno venga in mente di poter
tenere del gas in un canestro. O forse sì: basta stravolgere
il significato che le parole italiane hanno sempre avuto...
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L’inglese tra noi
Mi domando spesso — e girerei
volentieri la domanda a chi mi ascolta — se davvero la
conoscenza della lingua inglese da parte degli italiani sia così
evoluta come sembrerebbe di poter desumere da certe pubblicità.
Don’t worry, be happy letteralmente "non
preoccuparti, sii felice" è una delle frasi fatte entrate
nell’uso corrente, un po’ come il nostro "vai
tranquillo" che era in voga soprattutto qualche tempo fa.
In una stazione della metropolitana
ho trovato un cartellone pubblicitario in cui happy, "felice"
è sostituito dal nome di una compagnia di assicurazioni, un
nome inglese di due sillabe che assomiglia abbastanza a happy
per richiamarlo immediatamente, soprattutto dato il contesto. Mi
chiedo quale sia il livello culturale medio di chi viaggia in
metropolitana e soprattutto quale sia il suo grado di conoscenza
dell’inglese, così da cogliere il messaggio
tranquillizzante e rassicurante della pubblicità.
Poco dopo, sfogliando un quotidiano,
ho trovato la pubblicità di un’automobile la cui linea,
a forma di cuneo, era descritta come new edge, il "cuneo
nuovo". Qui c’è in gioco un cambio di vocale, da
new edge a new age, la "nuova era". Il
richiamo è evidente per gli inglesi: edge e age
si richiamano molto bene a vicenda. Ma per chi inglese non è?
Qui però, forse, e diversamente dal caso di prima, si pensa
che un’automobile di quel tipo sia destinata a persone di un
certo livello economico, che presumibilmente l’inglese lo sanno
bene.
A proposito di new age, anche
questo è un termine che è rimasto in inglese. Ne parlo
non certo perché condivido quello che considero un falso
spiritualismo o una forma di buddismo, ma solo perché è
l’ennesimo esempio di come l’inglese viene associato a
tutto ciò che è presentato o percepito come promessa
per il futuro, come qualcosa di bello e moderno — questo
avviene anche (sarei tentato di dire "soprattutto") per
quelle che una volta venivano chiamate le "americanate",
dalle quali si prendevano le distanze senza lasciarsi soggiogare.
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Tradurre e no
Dopo aver trovato un’informazione
che mi serviva sul sito Internet del Vaticano ho cominciato a
esplorarlo — in inglese: non so perché, probabilmente è
una deformazione professionale. In un articolo dell’ultimo
numero della Rivista del Giubileo The Jubilee Magazine c’è
una citazione da T. S. Eliot tratta da un’opera che era
indicata come Chorus From The Fortress.
Non mi risultava che Eliot avesse
scritto una poesia con quel titolo — anzi ho subito sospettato
ciò che era effettivamente successo — e ho controllato
il testo italiano: i versi citati erano tratti dai Cori da "La
Rocca" che in inglese sono i Choruses from The Rock.
La traduzione dei versi non era cattiva, ma certamente c’erano
delle variazioni rispetto al testo originale e la poesia non era più
lei.
E’ come se io, trovando in un
testo inglese un verso di Leopardi tratto da Saturday in the
village: "the little girl is coming from the fields"
traducessi "Sabato nel paese: la ragazzina ritorna dai campi".
Non è accettabile che si dica altrimenti che Il sabato del
villaggio: "La donzelletta vien dalla campagna". La
sola cosa che il traduttore può e deve fare in questi casi è
una ricerca per recuperare il testo originale, l’unico che ha
diritto di cittadinanza nella traduzione nella lingua d’origine
del testo citato.
L’episodio fa il paio con
quello, di cui vi ho già parlato a suo tempo, accaduto durante
la trasmissione televisiva dei funerali di Madre Teresa di Calcutta.
Una delle interpreti simultanee ha tradotto una delle preghiere che
diceva, più o meno "Donale o Signore la quiete eterna e
sia illuminata per sempre..." Qui si richiedeva di riconoscere
il Requiem Aeternam e di usare la formula italiana
corrispondente: "L’eterno riposo dona a lei o Signore..."
La maggior difficoltà nel tradurre e nell’interpretare
consiste a volte nell’accorgersi che ci sono riferimenti
culturali e citazioni che devono essere restituiti nel testo
originale o nella loro formulazione consueta e codificata.
I traduttori e gli interpreti sono
mediatori tra le culture; è un lavoro spesso oscuro, non
apprezzato adeguatamente e di cui è facile mettere in luce le
eventuali inesattezze; ma dobbiamo a loro la possibilità di
accostarci a opere importanti, letterarie o scientifiche, scritte
nelle lingue che non conosciamo. Vorrei che ce ne ricordassimo, anche
e soprattutto quando mi capita di segnalare qualche svarione e di
partire da lì per fornire esempi concreti di difficoltà
linguistiche o interculturali.
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Vecchie tradizioni?
Mi capita di sentir dire che gli
inglesi sono conservatori e tradizionalisti, più di altri
popoli d’Europa. Mi domando quanto questo sia vero, quando noi
italiani, ad esempio, siamo giustamente affezionati ai nostri
carnevali, alle sagre e ai palii (non solo quello di Siena: tanto per
restare in zona e in tema di attualità, cito quello di
Legnano, ma ce ne sono moltissimi altri). La tendenza attuale è
proprio quella di riscoprire e rivitalizzare certe tradizioni
folcloristiche che si sono perdute negli anni.
Una delle ragioni che vengono date
per il tradizionalismo degli inglesi è il loro uso di unità
di misura diverse dal sistema metrico decimale. Ricordiamoci
anzitutto che la ragione è storica: il sistema metrico
decimale è stato diffuso in Europa da Napoleone, il grande
nemico dell’Inghilterra che è riuscita a sconfiggerlo
prima per mare a Trafalgar e poi sul continente a Waterloo. Usare le
yarde e le pinte invece dei metri e dei litri è stato un modo
per affermare quotidianamente la propria indipendenza politica e
culturale rispetto a chi aveva cercato di omologare tutta l’Europa
— e non solo l’Europa: ricordiamo la Campagna d’Egitto
e la battaglia delle Piramidi.
Qualcuno parla del sistema delle
misure inglesi come di qualcosa di anacronistico, non adeguato
all’era tecnologica. In realtà l’ente spaziale
americano ha continuato a usare le miglia, i piedi, i pollici, le
libbre, ecc. per le spedizioni astronautiche, senza alcun problema: è
l’esempio più clamoroso del fatto che non serve il
sistema metrico decimale per arrivare sulla Luna — e oltre.
Ogni pilota di aereo dà l’altitudine in metri quando
parla ai passeggeri in italiano, e in feet, piedi, quando
parla in inglese — e il valore che conta, quello che viene
fissato nel piano di volo o concordato con le torri di controllo, non
è espresso in metri ma in feet.
Un buon motivo per non cambiare è
che la gente è abituata a certe quantità: ogni
automobilista inglese sa quante miglia la sua automobile percorre con
un gallone di benzina ma ha difficoltà a esprimere i consumi
in chilometri per litro. Noi avremmo il problema inverso e tra non
molto dovremo abituarci a decidere se ci convenga pagare un libro
35.000 lire o 18 euro (se un Euro vale 1950 lire). Qualcuno farà
molta fatica a disabituarsi a ragionare in lire ma questo non vuol
dire che sia tradizionalista e conservatore.
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Positivo e negativo
Qualche sera fa, parlavo di un canto
di soldati della prima guerra mondiale: "Tipperary è
lontana" it’s a long way to Tipperary e facevo
notare che se qualcosa è lontano si dice che it’s a
long way ma nelle domande e nelle frasi negative si preferisce
far. Is it far? No, it isn’t very
far "è lontano? No,
non è molto lontano."
Non è il solo caso in cui c’è
una differenza tra affermazione, da una parte, e interrogazione o
negazione dall’altra. Il caso più importante è
sicuramente quello di some, che indica "qualche, alcuni,
un po’ di": "dammi dell’acqua" give me
some water; "alcune canzoni nuove mi piacciono davvero"
I really love some new songs; alla forma negativa, in frasi
che contengono not o un’altra parola negativa, non si
usa some ma any. "Non ci sono notizie" there
isn’t any news. Any si usa anche dopo il se
dubitativo: "vorrei dei pomodori, se ne avete" I’d
like to have some tomatoes, if you have any.
Nelle frasi interrogative, l’uso
di some o any consente di distinguere tra le domande
vere e proprie, il chiedere per sapere, con any: "ci sono
informazioni sul volo?" Is there any information on the
flight? Si usa invece some nelle richieste: "potresti
dedicarmi del tempo?" could you spare some time for me?
Oppure quando si offre: "vorresti del tè?" would
you like some tea? C’è l’attesa di una
risposta affermativa.
In teoria, not any può
essere sostituito da no: "non vedo alcun problema" I
can’t see any problems potrebbe essere reso anche come I
can see no problems. Di fatto le forme con no si usano
quasi esclusivamente o all’inizio della frase, per dire
"nessuno": "niente nuove, buone nuove" no news
is good news o in frasi fatte come "non c’è
tempo da perdere" there’s no time to lose.
Come some, any e no si
comportano i loro composti: per le persone abbiamo somebody e
someone nelle frasi affermative, nobody e no one
per "nessuno" e anybody o anyone negli altri
casi; per le cose, something, anything e nothing si
comportano allo stesso modo: se chiedo "posso fare qualcosa per
te?" dirò can I do something for you? perché
è un’offerta di aiuto.
Anche gli avverbi di luogo somewhere
e anywhere, "da qualche parte", e nowhere,
"da nessuna parte" seguono lo stesso schema.
I contrari dei composti con no
sono i composti con every: everybody e everyone
sono "tutti", riferiti a persone; everything è
"tutto" riferito alle cose e everywhere significa
"dappertutto."
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Usi idiomatici
Italia e Inghilterra, in quanto
appartenenti entrambe all’Europa e quindi con una forte base
comune di tradizioni e di valori condivisi, coincidono largamente
anche negli usi metaforici del linguaggio. "Un mare di guai"
è a sea of troubles — a volte ci sono piccole
variazioni: "un mucchio di tempo" è heaps of time
ossia, alla lettera "mucchi di tempo". Nel caso di "porre
una domanda" e raise a question la divergenza tende ad
annullarsi in quanto anche in italiano ora molti preferiscono
"sollevare un quesito o una questione."
E’ curioso notare che in tutte
le lingue una domanda è trattata come un oggetto che si mette:
in italiano, francese e spagnolo si "pone" — e a
volte si aggiunge proprio "sul tappeto:" la si depone sul
tavolo come un oggetto che si rende visibile a tutti e ci interpella.
In tedesco, con eine Frage stellen, si specifica che la si
mette in piedi, ossia la si colloca in posizione verticale, e in
inglese la si solleva e innalza (ripeto: raise a question), e
normalmente una volta sollevata non si accetta che si possa lasciarla
cadere — in inglese, per lasciar cadere un argomento si dice
drop a subject. C’è poi chi fa cadere le parole
dall’alto, per enfasi, mentre in inglese drop a hint è
fare un accenno a qualcosa come forma di suggerimento.
Oltre che come oggetti, le parole e
le frasi sono trattate come cibo, anche se non sempre i sapori
coincidono: le "parole aspre" sono bitter words
(letteralmente "parole amare"); anche i suoni possono
essere dolci o aspri, e le consonanti dure o molli. Il fatto che il
cibo entri dove le parole escono ha facilitato sicuramente il sorgere
di tutta questa serie di metafore. Ma in inglese un suono può
essere aguzzo e tagliente a sharp sound come un coltello a
sharp knife, e in entrambe le lingue la voce può essere
piatta a flat voice. Nel linguaggio musicale ritroviamo sharp,
che non significa più "aguzzo, tagliente" ma indica
il diesis, l’innalzamento di un semitono, e flat
corrisponde invece al bemolle, all’abbassamento di un semitono.
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Lire ed euri
Qualche sera fa parlavo di
tradizionalismo e di resistenza al cambiamento e citavo la difficoltà
ad abituarsi a nuove unità di misura — valgono di più
35.000 lire o diciotto euro? Il giorno dopo ho sentito una notizia
secondo cui alcuni accademici hanno fatto notare che dire 18 euro è
sbagliato. Come non diremmo 18 marco o franco o corona o fiorino ma
parliamo di marchi, di franchi, di corone e di fiorini, così
dovremmo parlare di euri. Da un certo punto di vista l’osservazione
non fa una grinza, ma a me euri suona male e se tutti useranno euro
anche al plurale come nome invariabile, quella sarà la regola.
Comunque, la questione degli euro o
degli euri non è la più grave che dovremo affrontare
nel corso dell’integrazione europea. Gli inglesi dicono
[ju:rou] e [ju:rouz]
al plurale — [ju:rou] è
la pronuncia del prefisso che troviamo in molte parole: eurocrat,
che è l’eurocrate; eurobond, l’euroobbligazione,
eurodollar, l’eurodollaro e Eurovision
l’Eurovisione. Ora si parla poco di eurocomunismo ma
eurocommunism è un vocabolo registrato sui dizionari
inglesi. Ci sono poi almeno due aggettivi: eurocentric ossia
eurocentrico, e eurosceptic che è l’euroscettico,
detto di chi non crede ai vantaggi dell’unione europea. Infine
alcune parole sono identiche nella grafia e nel significato:
eurocheque che in italiano si scrive allo stesso modo ma si
pronuncia diversamente, così come Eurodisney e
Eurotunnel.
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Tempo libero
A proposito di vacanze, la parola
inglese più usata è holiday, una parola nota sia
per la catena di alberghi Holiday Inn che per lo spettacolo
Holiday on Ice, la "vacanza sul ghiaccio". Un tempo
la parola holiday indicava la festività, in particolare
quella religiosa, e in effetti deriva da holy day, giorno
sacro.
Gli americani per indicare le ferie
usano forse più spesso la parola vacation. In entrambi
i casi per "in vacanza" si usa la preposizione on:
on holiday, on vacation. E a questo proposito ricordo
che on è la preposizione che usiamo anche in altri casi
per indicare lo scopo: "viaggiare per affari" è
travel on business.
Vacation non va confusa con
vacancy che è la "vacanza" nel senso di posto
libero, posto vacante — può essere un posto di lavoro ma
la parola vacancy la vediamo più spesso nei film, nelle
insegne all’esterno dei motel per indicare se ci sono camere
libere VACANCIES oppure NO VACANCIES.
E già che siamo su questo
tema rilassato e rilassante, parliamo del tempo libero. Nel senso di
tempo dedicato al riposo e al prendersela comoda, si parla di
leisure. Il tempo libero invece che qualcuno riesce a
ritagliarsi, magari per fare altro rispetto alle normali occupazioni,
è lo spare time, il tempo messo in disparte,
risparmiato. Ritorna la metafora del tempo come denaro, di cui
abbiamo già parlato. Vediamo un esempio: "se hai del
tempo libero, leggi questo libro" if you have some spare time
(oppure some time to spare), read this book.
In quanto ai luoghi di
villeggiatura, si dice at the seaside, "al mare" e
in the mountains "in montagna" — avrete notato
la diversa preposizione, at per il mare e in per la
montagna o, più letteralmente, le montagne. Questo con i verbi
che indicano essere, stare, soggiornare; con i verbi di moto si usa
to: "vai in montagna o al mare?" are you going to
the mountains or to the seaside? E avrete notato anche che il
mare the sea diventa the seaside nel senso di località
marina di soggiorno.
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La ragnatela mondiale
Ogni tanto ci capita di parlare di
Internet, di questa rete delle reti telematiche che negli ultimi anni
ha assunto un ruolo importante nel flusso delle informazioni,
mettendo in moto anche innumerevoli iniziative di carattere
commerciale e creando posti di lavoro.
La quantità di computer
collegati nel mondo è ormai tale che per cercare i siti che
interessano si fa uso dei cosiddetti "motori di ricerca",
search engines, ossia di archivi e programmi che organizzano
le informazioni in un certo numero di categorie e soprattutto
consentono di immettere alcune parole-chiave per trovare quello che
si cerca.
Uno di questi motori di ricerca ha
un nome latino, ALTA VISTA, ma gli altri hanno nomi inglesi. Yahoo
è un’interiezione che esprime giubilo, soprattutto
quando si trova qualcosa: in italiano "evviva!", in greco
"eureka!". Gli Yahoos nei Gulliver’s Travels,
I Viaggi di Gulliver, sono dei bruti che rappresentano la
personificazione dei vizi umani. Ma non è questo il senso in
cui viene usata la parola su Internet. Ho scoperto di recente che
alcuni informatici dicono [iaò] invece di Yahoo, ma chi
mi ascolta sa ormai che da noi il finto inglese è la regola,
non l’eccezione, in molti ambienti. E a proposito di pronuncia,
in inglese eureka è [ju:ri:ka]—
che è anche il motto dello stato della California e il nome di
una città americana, sul Pacifico nella stessa California e di
una contea nel Nevada centrale. E qui la scoperta a cui si fa
riferimento non è la legge di Archimede ma le miniere d’oro.
Un altro motore di ricerca si chiama
gopher, che è il nome di un roditore americano molto
simile alla talpa e altrettanto nocivo per le coltivazioni; con la
talpa ha in comune l’abitudine di scavare sotto la superficie —
di qui la metafora. Il nome gopher è a volte usato
anche per altri due animali: un tipo di tartaruga e un simpatico
scoiattolino di terra che ha la caratteristica di avere un mantello
striato con tredici righe più scure.
L’uso di parole familiari per
prodotti con un altissimo contenuto tecnologico è tipico di un
settore che vuole essere user-friendly, ossia amichevole verso
l’utente, per favorire la diffusione di questi nuovi strumenti
e cancellare l’immagine che una grande rete computerizzata può
dare di sé come strumento di controllo e di limitazione della
libertà individuale.
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L’inglese del computer
Questa sera continuo l’esplorazione
dei termini inglesi nel mondo dell’informatica. Come si diceva
ieri sera, si tratta spesso di parole familiari e amichevoli, che
mirano a tranquillizzare gli utenti di quelli che fino a non tanto
tempo fa venivano chiamati "cervelli elettronici" e di cui
si temeva la capacità di disumanizzazione.
Il caso forse più evidente di
nome familiare è quello del frutto più comune, la mela,
dato al primo computer domestico e alla ditta che lo produce, Apple.
Anche la successiva generazione dei computer della stessa ditta ha il
nome di una mela californiana, Macintosh.
La storia si ripete con uno degli
ultimi linguaggi di programmazione, Java, che è il nome
dell’isola più popolosa dell’Indonesia ma che
nelle case americane è un tipo di caffè tra i più
diffusi.
A proposito dei linguaggi di
programmazione, alcuni hanno preso nome da personaggi famosi, come
Pascal, il grande pensatore cristiano e matematico francese
inventore di una delle prime macchine calcolatrici, e Ada —
da Augusta Ada King, Contessa di Lovelace e figlia di Lord Byron, che
aveva lavorato come assistente di Charles Babbage allo sviluppo del
suo analytical engine o "motore analitico" e che si
presume sia stata il primo programmatore di computer del mondo.
E accanto a sigle come HTML, del
tutto misteriose per chi non ne conosce il significato, ce ne sono
altre come BASIC che formano una parola facile e comune. HTML sta per
hypertext markup language ossia "linguaggio per la
costruzione di ipertesti", ossia per aggiungere a un testo i
collegamenti (links) ad altri testi; è il linguaggio su
cui si basano le pagine web su Internet.
BASIC sta (o stava, perché
ormai la programmazione in BASIC è obsoleta) per Beginners’
All-Purpose Symbolic Instruction Code, un codice code
simbolico symbolic di istruzione instruction che è
generico, per tutti gli usi all-purpose e adatto ai
principianti beginners. È un bell’esempio sia di
come si pensa una sigla e poi le si costruisce sopra un significato,
sia della costruzione a sinistra tipica dell’inglese, ove la
parola-nucleo è l’ultima (il BASIC è un codice) e
tutte le altre la precedono, sono premodificatori.
Da una parte le mele e il caffè,
dall’altra le sigle indecifrabili; l’analisi linguistica
del mondo dell’informatica rivela le suggestioni che vengono
trasmesse a coloro che vi si accostano — e alcune di queste
fanno riflettere sui pericoli di manipolazione delle coscienze.
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Un po’ di ‘98
Andando alla ricerca di cose da
raccontarvi sull’inglese e sui paesi in cui si parla inglese,
ho pensato che poteva essere una buona idea andare a vedere i
centenari che ricorrono in questo 1998. Non ho trovato moltissimo ma
alcuni fatti storici e culturali meritano di essere ricordati.
Ad esempio, il 22 luglio 1298 si
combatté la Battaglia di Falkirk, località vicina a
Stirling in Scozia, e fu una delle prime vittorie degli inglesi di re
Edoardo I contro la resistenza scozzese. guidata da Sir William
Wallace, che si opponeva alla sovranità inglese. È solo
un episodio di una lotta che durerà fino al 1603, quando un
unico sovrano riunirà le due corone.
Saltiamo a due secoli dopo e nel
1498 siamo nel pieno delle grandi spedizioni geografiche. È
l’anno del terzo viaggio di Colombo (per gli inglesi,
Christopher Columbus) che scopre Margarita, Trinidad e Grenada
e raggiunge le coste del Sudamerica. Ed è l’anno della
seconda spedizione di Giovanni Caboto (John Cabot) in America
— una spedizione dall’esito infausto: scomparsa nel
nulla, non se ne è mai più trovata traccia. L’anno
prima Caboto era stato a Terranova Newfoundland, che in
seguito sarebbe diventata uno dei territori del Canada; sempre nel
1498 il portoghese Vasco da Gama raggiunge Mombasa e l’India,
che poi sarebbe diventata colonia britannica.
Cento anni dopo, nel 1598, siamo in
piena Inghilterra elisabettiana: è l’anno in cui
Christopher Marlowe scrive Hero and Leander (Ero e Leandro) e
probabilmente quello in cui William Shakespeare scrive Much Ado
About Nothing (Molto rumore per nulla).
In quell’anno, John Florio, un
lessicografo inglese di origine italiana, produce un dizionario
Italiano-Inglese intitolato A Worlde of Wordes ossia "Un
mondo di parole." è un grande dizionario, con circa
46.000 definizioni. Inoltre Florio è importante per la sua
traduzione dal francese dei Saggi di Montaigne. Per vari aspetti,
quindi, chi fa il mio mestiere lo considera uno dei primi grandi
esperti specialisti della materia.
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La Pentecoste
Domenica sarà la festa di
Pentecoste, Pentecost, il giorno della discesa dello Spirito
Santo the Holy Spirit sugli apostoli. Fino a qualche
tempo fa — e il nome è tuttora usato da alcune chiese
protestanti — invece della parola di origine latina spirit
si adoperava di preferenza la parola germanica ghost, che ora
si usa soprattutto per indicare il fantasma, anche in espressioni
come ghost town, una città disabitata —
tipicamente, una di quelle del Far West abbandonate dopo che
le miniere della zona si sono esaurite. Ghostwriter è
chi scrive testi che vengono pubblicati o come testi redazionali
anonimi o attribuiti a qualche autore che li ha commissionati.
Ma torniamo alla festività
religiosa: anche lei oltre a Pentecost ha un nome tradizionale
di origine germanica, Whitsunday che deriva da White
Sunday, domenica bianca. Siccome, se non ricordo male, il colore
liturgico della Pentecoste è il rosso, probabilmente il nome
deriva dal colore delle vesti di coloro che venivano battezzati in
questa domenica, che nella tradizione inglese e di altri paesi del
nord aveva preso il posto della Pasqua come festa propizia per
accogliere nella Chiesa i nuovi cristiani. E ancora una volta la
popolarità della Pentecoste associa motivi religiosi —
l’attenzione alla terza Persona della Trinità — a
motivi pratici: la speranza di un tempo migliore verso la fine maggio
rispetto a quello che si ha di solito tra marzo e aprile.
La settimana che inizia con
Whitsunday è detta Whitsuntide e
tradizionalmente, come dicevo qualche sera fa, il lunedì di
Pentecoste, Whitsun Monday, era una delle Bank Holidays
o feste civili. Da festa mobile è diventata festa fissa
l’ultimo lunedì di maggio. Lunedì scorso in
Inghilterra e Irlanda è stato un lunedì del tutto
simile al lunedì dopo Pasqua: negozi chiusi e gente in gita.
In altri paesi, soprattutto dell’area germanica, la festa sarà
lunedì prossimo.
Faccio notare che per gli inglesi la
domenica è il primo giorno della settimana e non l’ultimo
e concludo con una piccola curiosità geografica: molti sanno
che nell’Oceano Pacifico c’è l’Isola di
Pasqua; pochi sanno che, come è giusto, c’è anche
l’Isola di Pentecoste: si trova nel Mare dei Coralli, non
lontano dalla costa dell’Australia.
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Altri centenari
Una delle conversazioni di settimana
scorsa l’ho dedicata al 98 cioè a alcuni avvenimenti
della storia inglese di cui quest’anno ricorre il centenario.
Stasera riprendo col 1798. Tanto per inquadrarlo, ricordo che era
l’epoca dei grandi successi di Napoleone; in particolare, il 98
è stato l’anno della campagna d’Egitto. E visto
che l’argomento delle tasse è di stagione, ricordo che
l’imposta sul reddito fu introdotta in Inghilterra proprio
quell’anno 1798 (e proprio per finanziare le guerre contro
Napoleone) dal primo ministro William Pitt the Younger,
William Pitt il Giovane.
In Italia in quell’anno
nasceva Giacomo Leopardi mentre Ugo Foscolo pubblicava già Le
ultime lettere di Jacopo Ortis.
In Inghilterra vengono pubblicate
due opere diversissime tra loro ma entrambe molto importanti: la
prima sono le "ballate liriche," le Lyrical Ballads
di Coleridge e Wordsworth, considerate il primo grande libro di
poesia romantica, una specie di "manifesto" letterario.
L’altro libro è la prima edizione del saggio sul
principio di popolazione, Essay on the Principle of Population
di Malthus. È il saggio di economia politica che espone il
principio, che dal nome dell’autore è stato detto
maltusianesimo, secondo cui la popolazione cresce più delle
risorse alimentari che servono per sostenerla. La teoria è
superata ma comunque quello fu l’inizio della demografia.
A proposito di stampa, al 1798
risale anche l’invenzione della litografia per la riproduzione
dei disegni, mentre un medico inglese, Edward Jenner, sperimenta le
prime vaccinazioni antivaiolose.
In Inghilterra siamo già in
piena Rivoluzione Industriale, con i primi esperimenti di produzione
in serie di macchinari. Anche negli Stati Uniti nascono le prime
fabbriche moderne, in particolare per la produzione di armi.
Ci sarebbero tante riflessioni da
fare a proposito di questa coincidenza di date tra la nascita della
poesia romantica e la nascita delle fabbriche e dei ghetti operai,
gli slums delle città industriali, ma il discorso ci
porterebbe lontano; così come dobbiamo rinviare a una delle
prossime conversazioni l’ultimo centenario, il 1898.
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Cent’anni fa
Proseguendo nella rassegna dei
centenari giungiamo all’ultimo, al 1898. E’ la belle
époque ma la Francia "fin de siècle", di fine
secolo, è anche la Francia della scoperta proprio nell’anno
1898 del radio e del polonio da parte dei coniugi Marie e Pierre
Curie. I dizionari riportano questa come data di nascita della parola
radioactive, "radioattivo". C’è anche
la scoperta dello xenon e di altri gas rari attraverso il
frazionamento dell’aria liquida. A Parigi si comincia a scavare
per il Métro e nelle Alpi ha inizio il traforo della galleria
del Sempione che sarà completata nel 1906. Tra le invenzioni,
qui alla radio non possiamo non ricordare il primo registratore
magnetico, che non registrava su nastro ma su filo.
In Inghilterra la Regina Vittoria,
Queen Victoria che nel 1876 si era fatta nominare Imperatrice
dell’India Empress of India, regnava da 61 anni e
avrebbe regnato per altri tre, fino al 1901, dando il suo nome
all’età vittoriana, the Victorian Age.
È l’anno in cui Italo
Svevo pubblica "Senilità", subito tradotto in
inglese come As a Man Grows Older, letteralmente "man
mano che un uomo invecchia". In Inghilterra esce "La guerra
dei mondi" The War of The Worlds di Wells, uno dei primi
scrittori di fantascienza. Non esce invece, perché parla
troppo esplicitamente di prostituzione e per questo viene censurata,
la commedia di George Bernard Shaw Mrs Warren's Profession,
"La Professione della Signora Warren."
Stiamo celebrando una serie di
centenari di persone nate nel 1898 e che hanno avuto un notevole
rilievo nel nostro secolo; tra i letterati, l’inglese C. S.
Lewis e l’americano Ernest Hemingway. Poi il compositore
americano George Gershwin e lo scultore inglese Henry Moore. Tra le
persone molto note negli Stati Uniti c’è Amelia Earhart,
pioniera dell’aviazione, prima donna pilota a trasvolare
l’Atlantico (nel 1932).
Sempre per quanto riguarda gli Stati
Uniti, il 1898 è l’anno della corsa all’oro nel
Klondike e dell’annessione delle isole Hawaii e Marianne.
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Case e terreni
Tra gli anniversari del ’98 di
cui non ho parlato le volte scorse c’è l’annessione
di Hong Kong nel 1898, o meglio l’estensione della colonia con
l’acquisizione dei territori sulla terraferma per 99 anni da
parte dell’Inghilterra. Come ricorderete, l’intera
ex-colonia è ritornata alla Cina l’anno scorso perché
era scaduto il termine massimo durante il quale, secondo una legge
inglese, si può avere in affitto o in concessione una
proprietà terriera; anche il possedimento inglese di quel
territorio era infatti un caso di leasing.
Nel diritto inglese si distinguono,
tra i contratti immobiliari, quelli che comprendono la proprietà
del terreno e quelli limitati alla proprietà della casa.
Nel primo caso, il freeholder
o libero proprietario è l’equivalente del feudatario —
in effetti per la sua proprietà si usa il termine fee,
che un tempo indicava il feudo. Chi non ha la proprietà del
terreno è un householder, proprietario di casa, o
tenant, che in questo caso non è propriamente
l’affittuario. Il diritto anglo-americano che distingue la
proprietà del suolo da quella delle casa che c’è
costruita sopra è molto diverso dal nostro.
La parola fee, il feudo, ha
acquisito anche il significato di "onorario", di somma
pagata a un professionista per le sue prestazioni. A titolo di
curiosità, e per indicare quanto le parole possano
trasformarsi nei secoli, sia nella forma che nel significato, dirò
che fee ha la stessa origine del latino PECUS-PECORIS (da cui
PECUNIA); si risale a un’epoca in cui il capitale tipicamente
era rappresentato dal bestiame posseduto e talvolta usato come bene
di scambio.
La parola che più assomiglia
all’italiano proprietà, e cioè property,
si riferisce specificamente ai beni patrimoniali, soprattutto
immobili; invece il concetto giuridico di proprietà è
espresso dal termine ownership, che viene dal verbo own,
“possedere, essere proprietario”, e owner è
colui che owns, il proprietario. Il suffisso –ship
non ha niente a che vedere con la nave, anche se ha la stessa grafia,
ma semmai con shape, la forma, e serve per ottenere nomi
astratti da nomi concreti, soprattutto nomi di persona: così
amico e amicizia in inglese sono friend e
friendship.
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Giugno
Siamo ormai nel mese di giugno, in
inglese June, che è anche un nome femminile, così
come April e May, aprile e maggio, mentre March,
marzo, è anche un nome maschile. Non solo i nomi di persona,
ma anche i mesi in inglese si scrivono con l’iniziale
maiuscola. L’autrice di Piccole Donne Little Women si
chiamava Louisa May Alcott.
Nomi femminili tipicamente inglesi
sono quelli di virtù come Prudence, la prudenza o
Temperance la temperanza; invece nomi come Grace,
Grazia (pensiamo a Grace Kelly, la principessa Grace di
Monaco) e Joy, Gioia come Joy Adamson li abbiamo anche
da noi. Così come comune è l’uso dei nomi di
santi e dei personaggi biblici. Questi ultimi hanno avuto
un’ulteriore diffusione nei paesi di lingua inglese con la
riforma protestante e la diffusione della Bibbia. La presenza di
questi nomi è a volte meno appariscente perché non solo
nella vita familiare ma anche in quella pubblica si usano spesso i
nicknames, ossia i nomignoli — anche il presidente
americano è chiamato Bill molto più spesso che
William.
E sempre restando nell’ambito
dei Presidenti degli Stati Uniti, Lincoln si chiamava Abraham, un
nome biblico frequente nelle famiglie protestanti, mentre da noi
Abramo è usato soprattutto dagli appartenenti alla comunità
ebraica.
March è anche un nome
comune, che significa la marcia e che ha la stessa forma del
verbo march , marciare. La “marcia nuziale” è
la wedding march. March è anche, come termine
storico, la "marca", ossia una contea di confine, più
grande e più importante delle altre. Da noi il termine è
rimasto per la regione delle Marche, per la Marca Trevigiana e per
qualche altra. Il marchese, che è il feudatario a capo di una
marca, in inglese è il marquis scritto come in francese
oppure con -ess finali; il femminile, madama la marchesa, è
marchioness. In un paese retto a monarchia come il Regno Unito
i titoli nobiliari non sono solo onorifici come da noi ma danno
titolo ad accedere alla Camera dei Lord The House of Lords.
Nella gerarchia nobiliare il rango del marquis è
inferiore a quello del duca, duke, e superiore a quello del
conte, earl.
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I nomi alterati
Ritorniamo stasera su una
caratteristica della lingua italiana che non ha un diretto
corrispondente in inglese, ossia i nomi alterati: i diminutivi e
vezzeggiativi, come ragazzino e ragazzetto, gli
accrescitivi come ragazzone e i peggiorativi come ragazzaccio.
Da una parola ne ricaviamo molte altre che ne modificano un po’
il significato — da libro abbiamo libriccino,
libretto, librino, librone, libraccio, libercolo.
In inglese di solito non troviamo i
suffissi — booklet per “libriccino” è
una delle poche eccezioni — ma si usano gli aggettivi
appropriati: un “librone” è un big book e
un ragazzaccio è un bad boy.
Ci sono un paio di aspetti
importanti collegati a questo fatto. Il primo è che dobbiamo
ricordarcene quando traduciamo dall’inglese: una little girl
è una “ragazzina”, non una “piccola
ragazza”; a bad day è una “giornataccia”,
più che una “giornata cattiva”. Non sempre,
naturalmente, ma il più delle volte la resa migliore
dell’espressione inglese che contiene l’aggettivo big
o little o bad è un nome alterato italiano.
Il secondo punto riguarda i nomi
alterati che hanno acquisito un loro proprio significato, solo
parzialmente legato alla parola di origine. Se si parla di opera
lirica, il “libretto” non è un libro piccolo ma il
testo delle arie e dei cori. In inglese si usa la parola italiana
libretto, uno dei tanti prestiti dalla nostra lingua che
troviamo quando si parla di musica.
Un “finestrino” non è
una finestra piccola ma una finestra che si trova su un veicolo. Ci
sono finestrini di treni che sono più grandi di certe finestre
di piccole dimensioni, ma quelli dei treni e delle auto sono
“finestrini” e quelle delle case sono “finestre”
— tutt’al più “finestrelle”. In
inglese window è la “finestra”, il
“finestrino” e anche la “vetrina” del
negozio. Sappiamo che “fare la spesa” è go
shopping. Window shopping è “l’andare per
vetrine”, il tipo meno dispendioso di shopping.
Concludo con il diminutivo di cui si
parla di più da qualche tempo, il telefonino, che in
inglese è semplicemente il telefono portatile o cellulare
— mobile, portable o cellular phone. Se
dite little telephone gli inglesi non vi capiscono.
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Testi letterari e non
La letteratura inglese è
stata ricca, in ogni epoca, di grandi autori — da Chaucer a
Milton ai premi Nobel più recenti come Golding e Heaney —
autori che ci hanno fornito una galleria impressionante di personaggi
immortali, ormai patrimonio comune dell’umanità:
dall’Amleto di Shakespeare alla resa drammatica dell’Assassinio
nella Cattedrale di San Tommaso Beckett ad opera di T. S. Eliot.
Fino a non molto tempo fa, il motivo principale per cui si studiavano
le lingue era il desiderio di accostarsi ai capolavori letterari
nella lingua originale, come testimonia il fatto che ancora oggi
nelle università italiane le cattedre di letteratura inglese
si chiamano Lingua e Letteratura Inglese, come se la lingua fosse
un’appendice marginale.
Oggi il maggior interesse per la
lingua inglese è dato dalla produzione non letteraria. Un dato
pubblicato un paio d’anni fa riporta che ci sono nel mondo
circa centomila riviste scientifiche, alcune delle quali saltuarie e
di scarsa consistenza ma altre con dimensioni notevoli. Nel 1980 la
rivista di Fisica Physics Review ha pubblicato trenta milioni
di parole. Per darvi un paio di termini di paragone, queste mie
conversazioni serali sono di circa 400 parole, mentre un grosso
romanzo come “Orgoglio e Pregiudizio”, Pride and
Prejudice di Jane Austen, si compone di circa 123.000 parole.
Mi è stato chiesto dove vado
a prendere notizie di questo genere. Dipende: quella sulle riviste
scientifiche si trova in un libro sull’analisi computerizzata
del linguaggio. Invece per contare le parole in un testo disponibile
in versione elettronica basta un normale programma di videoscrittura.
L’analisi computerizzata sta
rivelando dati sorprendenti: l’uso effettivo della lingua nella
vita quotidiana è in qualche caso molto diverso
dall’impressione che ne hanno sempre avuto gli studiosi di
linguistica e dalla descrizione sulle grammatiche per la scuola.
C’è un rinnovamento dei
dizionari e dei testi scolastici che per certi aspetti è
altrettanto notevole e significativo quanto i cambiamenti in altri
campi della vita moderna: i libri dell’ultima generazione sono
l’equivalente delle auto catalizzate, delle comunicazioni
satellitari e della chirurgia dei trapianti. Non sempre l’adozione
di nuovi libri di testo nelle scuole risponde a una logica puramente
commerciale. Qualche volta può essere vero, ma ci sono
costantemente dei passi in avanti. I genitori che fanno usare ai
figli dizionari di trent’anni fa è come se gli facessero
vedere la TV in bianco e nero — anzi, peggio: come se gli
facessero vedere solo i programmi di trent’anni fa.
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Parliamo di TEST
Una delle parole inglesi entrate
saldamente nell’uso italiano è la parola test; quando
vennero introdotte da noi le prove di intelligenza è stata
proposta la parola reattivo per indicare il test psicologico
ma la proposta ha avuto scarso esito.
La parola test in inglese ha
un uso più ampio che in italiano: ad esempio, significa anche
“collaudo”, e un test pilot è un
“collaudatore”. La prova su strada di un veicolo è
una test drive; test tube è la “provetta”
usata in chimica e biologia, e da questa espressione deriva test-tube
baby, “bambino in provetta”. Blood test
è “l’analisi del sangue”. Il monoscopio,
l’immagine fissa trasmessa da una stazione televisiva, si
chiama test pattern, disegno di prova o schema di verifica.
Test è il verbo
corrispondente, che significa “accertare, controllare,
collaudare, saggiare, provare o verificare”. Con questa
abbondanza di verbi italiani, pur avendo scritto centinaia di pagine
sulle prove di controllo del profitto in lingua straniera, non ho mai
sentito il bisogno di usare il verbo testare — faccio
anche fatica a dirla, questa parola. Ma riconosco che è solo
un mio punto di vista, e ormai è una parola registrata nei
dizionari e di cui molti non vogliono fare a meno.
Riprendo un paio di espressioni che
ho usato poco fa per parlare della parola che accompagna test.
La prima è blood, il sangue, che insieme a flood,
l’inondazione, si pronuncia col suono di much love pur
essendo scritta con due o. La seconda è la parola
pattern che avevamo trovato nel monoscopio, test pattern.
Ha un suo significato-base di “modello, schema fisso,
struttura” — cioè indica qualcosa che si riconosce
come rappresentazione di qualcosa di più complesso. Ecco
allora che pattern è un campione di stoffa da cui si
vedono il colore e soprattutto il disegno; in linguistica pattern
è un tipo di frase che ha una certa struttura sintattica e i
cosiddetti “esercizi strutturali” per fissare certi
schemi grammaticali — si usano soprattutto nel laboratorio
linguistico — in inglese si chiamano pattern drills.
Con pattern abbiamo quindi
una parola di uso comune ma che può essere difficile rendere
in italiano: non è esattamente e sempre un modello — non
è completamente sinonimo di model; non è nemmeno
propriamente una struttura, structure, né un disegno
nel senso di design. E’ una di quelle parole che
possiamo capire solo lasciandoci guidare dal contesto in cui sono
usate. E’ il testo che dà il senso alle parole, più
di quanto le parole non diano senso al testo.
Se vogliamo un esempio, pensiamo
alla parola dolce nel contesto della serata musicale condotta
da F. L.; è un dolce che dà calore ma non calorie.
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Alcuni cinquantenari
Dopo aver esplorato in alcune
precedenti conversazioni i centenari che ricorrono nel 1998 desidero
dire qualcosa anche dei cinquantenari, ossia di alcuni tra i
principali eventi dell’anno 48 dei vari secoli. Nel nostro
secolo, nel 1948, sarebbero troppe le cose da ricordare. Per quanto
riguarda la Gran Bretagna è l’anno dell’indipendenza
della Birmania e dello Sri-Lanka (che allora si chiamava Ceylon),
e dell’assassinio di Gandhi. Per un grande indiano che se ne va
ce n’è un’altra che prende la cittadinanza, Madre
Teresa di Calcutta.
E’ anche l’anno in cui
l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite promulga la
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. E in quanto ai
diritti della donna, nello stesso anno l’università di
Cambridge riconosce loro pari dignità accademica —
anche se colleges femminili esistevano già da circa un
secolo.
Andiamo indietro di un secolo, a
quel 1848 in cui nell’Europa continentale, Italia compresa, è
successo un quarantotto: rivoluzioni, guerre d’indipendenza,
Manifesto Comunista, e così via. La storia inglese è
invece particolarmente povera di eventi; il sovrano regnante, da
undici anni, è la Regina Vittoria, allora quasi trentenne. Si
segnalano la prima legge britannica sulla sanità pubblica e la
scoperta di John Snow che collega il colera con l’acqua
inquinata.
John Stuart Mill pubblica i suoi
Principles of Political Economy, Principi di Economia Politica
e un gruppetto di giovani artisti fonda la Pre-Raphaelite
Brotherhood, la fraternità dei Pre-Raffaelliti, con
l’intento di riportare nell’arte la sincerità e
semplicità della pittura italiana prima di Raffaello.
Nel 1848 negli Stati Uniti termina
la guerra con il Messico e un immigrato svizzero, di cognome Sutter,
trova l’oro; la voce si diffonde e l’anno dopo lo
seguiranno nella corsa all’oro coloro che verranno chiamati
forty-niners, quelli del 49.
A New York la Associated Press avvia
il primo servizio di raccolta e diffusione di notizie su scala
mondiale.
Nella nostra esplorazione dei
cinquantenari che riguardano i Paesi di lingua inglese andiamo a
ritroso nel tempo. Ieri sera ho parlato del 1948 e del 1848 e stasera
inizio con il 1748. E’ l’epoca in cui le grandi monarchie
europee si disputano il dominio del continente e delle colonie; in
quell’anno, in particolare, si conclude la Guerra di
Successione Austriaca con il Trattato di Aix-la-Chapelle.
All’interno di questa guerra vi fu in America la cosiddetta
Guerra di Re Giorgio, con la conquista di Louisburg sull’isola
di Cape Breton da parte di una forza che vedeva assieme la British
Navy, la Marina britannica, e un contingente del New England.
Siamo ancora nell’epoca che precede la Dichiarazione di
Indipendenza delle colonie americane. Nel 1748 il forte venne
restituito alla Francia in cambio di Madras, in India.
Per quanto riguarda l’Italia,
il 1748 è ricordato anche per l’inizio degli scavi di
Pompei e per la pubblicazione dei volumi di matematica di Maria
Gaetana Agnesi.
Andando indietro di un secolo, nel
1648 l’Inghilterra è in piena guerra civile tra i
sostenitori della Monarchia, i Cavaliers, e quelli del
Parlamento, i Roundheads — letteralmente, "teste
tonde" perché i Puritani detestavano le capigliature
lunghe e folte dei loro avversari. Nel 1648 fu catturato il re Carlo
I Charles the First, che sarebbe poi stato giustiziato l’anno
successivo, quando Cromwell fondò la Repubblica o
Commonwealth.
Sul continente, il 1648 è
l’anno del Trattato di Westfalia che pone fine alla Guerra dei
Trent’anni e, per certi aspetti, alla Controriforma. In India,
è l’anno del completamento del Taj Mahal, il bellissimo
mausoleo di Agra.
La parola Commonwealth la
troviamo due volte nella storia inglese: per il periodo della
repubblica parlamentare, dal 1649 alla Restaurazione della monarchia
nel 1660, e nel nostro secolo per indicare l’associazione delle
ex- colonie e dominions britannici con l’ex-madrepatria.
Commonwealth significa letteralmente "ricchezza comune",
ossia i beni di tutti — corrisponde quindi a Repubblica che è
la RES PUBLICA — di nuovo, i beni di proprietà pubblica.
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Topi di mediateca
L’aggeggio vagamente a forma
di topo che serve per manovrare i computer delle ultime generazioni
da molti in Italia viene chiamato [mauz] con la s finale
sonora come quella di “rosa”; in inglese inglese il topo
— elettronico e non — si chiama mouse con la -s
finale sorda come la s di “sera”. La differenza
non è di poco conto, perché in inglese i due suoni
della s italiana sono consonanti diverse: un conto è
dire ice, con la S sorda, che è il ghiaccio, e un altro
è dire eyes, che sono gli occhi. Di esempi ce ne
sarebbero tanti — ne do solo un paio: Grace — come
Grace Kelly, di cui si parlava qualche sera fa — e che è
la Grazia, termina per S mentre graze che è il
verbo che significa “brucare l’erba” termina per Z.
Pens sono le penne, mentre pence sono i centesimi di
sterlina.
La distinzione non opera solo in
fondo alle parole: in posizione iniziale, seal, che è
la foca oppue il sigillo, va tenuta ben distinta da zeal che è
lo zelo e lo stesso discorso vale per tutte le posizioni. Noi
italiani abbiamo difficoltà perché per noi [kiuso] e
[kiuzo] per CHIUSO, [kasa] e [kaza] per CASA sono varianti regionali
della stessa parola e non due parole diverse.
Un’altra difficoltà
deriva dal fatto che, come spesso càpita per l’inglese,
la grafia delle parole non ci aiuta. Nel caso specifico, le parole
che terminano per -se a volte terminano con un suono di s
come il mouse e house, la casa, mentre altre volte
hanno una z finale: la rosa è rose, il verbo
"sorgere" è rise, eccetera. Possiamo però
dare un paio di regole.
La prima è che se la
terzultima lettera è una consonante, la pronuncia di solitò
è s: “falso” si dice false e “tempo”
(nel senso di tempo grammaticale di un verbo) si dice tense.
Questo vale anche se la consonante non è pronunciata, come la
r nella parola horse, il “cavallo”.
La seconda regola riguarda le parole
che hanno più di un ruolo grammaticale, cioè sono nomi
e verbi oppure aggettivi e verbi. In molti di questi casi il verbo è
pronunciato con la [z] sonora: use [ju:z] è il verbo
usare, mentre use [ju:s] è l’uso o l’utilità;
close [klouz] è il verbo chiudere, mentre close
[klous] è aggettivo — a close friend è un
amico intimo.
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Esse sonora e esse sorda
Ieri sera ho detto una cosa sulle
consonanti inglesi che non a tutti è risultata abbastanza
chiara e quindi torno sull’argomento della pronuncia delle s.
La differenza che c’è tra la s di [kaza] come la
dico io e la s di [kasa] come si dice in Toscana e in italiano
standard è esattamente la stessa differenza, dal punto di
vista fonetico, che c’è tra la B di “basta”
e la P di “pasta”, o tra la V di “vino” e la
F di “fino”. Il fatto è che nella nostra lingua
non abbiamo coppie di parole che si distinguono solo perché in
una la s è sonora e nell’altra è sorda: il
[sole] è il Sole — se qualcuno dice [zole] probabilmente
è straniero, pronuncia male quella parola ma non ne sta
dicendo un’altra. E invece se in inglese dico bus è
l’autobus, mentre buzz è il ronzio, sip è
il sorso e zip è la cerniera lampo, racer è
il motoscafo da corsa e razor è il rasoio. Di proposito
ho dato tre esempi in cui l’opposizione la troviamo all’inizio
delle parole, sip zip, all’interno racer razor
e in posizione finale bus buzz.
Per fortuna le possibilità di
fraintendimenti non sono molte, in nessuna lingua: i casi come
"pagare il fitto" e "pagare il vitto" sono
abbastanza rari e di solito il contesto aiuta; in frasi come Can
I use your phone? (posso usare il tuo telefono?) e it’s
no use crying over spilt milk (non serve piangere sul latte
versato) la differenza tra use [ju:z] verbo e use
[ju:s] nome è meno cruciale e rilevante.
Il rischio vero non è di
lasciar intendere una cosa per l’altra (riprendendo un esempio
di ieri sera, è difficile che quando si parla di grazia GRACE
ci si possa confondere col verbo brucare graze); piuttosto c’è
il rischio che il sovrapporsi di pronunce scorrette porti a produrre
qualcosa di totalmente indecifrabile. Come minimo si crea disagio: lo
stesso fastidio che proviamo noi se qualcuno dice [zera] invece di
[sera] lo prova un inglese quando sente [zlow] invece di [slow]
(lento), [zleep] invece di [sleep] (dormire), [zmell] invece di
[smell] (odore) [zmart] invece di [smart] (elegante), [znow] al
posto di [snow] (la neve) e [znoopy] invece di snoopy[], il cane di
Charlie Brown.
Quando tante piccole deviazioni si
sommano si raggiunge facilmente la soglia oltre la quale la
comunicazione non passa; fare attenzione alla pronuncia non è
pignoleria o perfezionismo, ma una necessità se si vogliono
evitare cattive figure.
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Si dice ma non si scrive
Qualche sera fa, parlando del 1648
nel 350° anniversario, ho detto dell’arresto di re Carlo I
d’Inghilterra, King Charles I (the First). Voglio
attirare la vostra attenzione sull’articolo tra Charles
e first, un articolo che non si scrive quando dopo il nome c’è
il numero romano ma che va ugualmente pronunciato. Così per
tutti i re e papi, da Queen Elizabeth the Second a Pope
John Paul the Second.
Non è il solo caso di parole
che si dicono ma non si scrivono. L’altro caso importante è
quello della congiunzione and che si trova nei numeri
superiori a cento, tra le centinaia e le decine: 429 è four
hundred and twenty-nine e già c’eravamo occupati del
2001, two thousand and one.
Altre divergenze tra scritto e
parlato — al di là delle solite questioni di ortografia
e di pronuncia — si hanno con certe abbreviazioni, per esempio
proprio quella che significa per esempio: nello scrivere si
usano le lettere e.g. ognuna seguita dal punto: viene dal
latino EXEMPLI GRATIA ma si legge for example (qualcuno dice
for instance, che è un sinonimo, tanto per variare) più
spesso di quanto si dica [i: dgi:]. Anche per i.e., che viene dal
latino ID EST e significa cioè, molti preferiscono dire
that is invece di [ai i:]. Di questo gruppo, anche se meno
frequente, fa parte anche viz. dal latino VIDELICET, per cui, accanto
a [viz, vid’i:lisit vai’di:liset e vi’deiliket]
cioè le pronunce della parola latina, sia abbreviata che per
esteso, secondo le varie regole su come si debba rendere la pronuncia
latina, abbiamo anche la parola namely, che è il
vocabolo corrente per "ossia, e cioè".
In molti altri casi, non legati alla
tradizione, la tendenza è quella opposta, ossia di sostituire
le parole e espressioni con le rispettive sigle — anche da noi
DJ ha sostituito quasi completamente Disc Jockey — e poi
di pronunciare come parole le sigle che lo consentono. Un’espressione
come as soon as possible, il più presto possibile, è
stata abbreviata prima nello scritto asap, poi detta lettera
per lettera [ei es ei pi: ] e ora i dizionari registrano anche la
pronuncia [eisap]. Anche da noi
usiamo come parole sigle come ONU, CEE e NATO; di altre, come radar
e laser, si è perfino persa la nozione del fatto che in
origine erano sigle.
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La notte di mezza estate
Nei paesi del Nord Europa, compresa
la Gran Bretagna, sono ancora molto vive le tradizioni legate al
solstizio d’estate e in particolare alla vigilia e alla notte
di San Giovanni. La celebrazione letteraria più famosa di
questa notte ce l’ha data Shakespeare nella sua commedia
Midsummer Night's Dream, "il sogno della notte di mezza
estate". TITANIA, OBERON e PUCK sono personaggi emblematici di
quella popolazione di elfi, gnomi, fate e streghe che nella mitologia
nordica popola le foreste e approfitta di una delle notti più
brevi dell’anno per celebrare i propri riti magici.
Anche la popolazione locale viene
coinvolta, con balli popolari che spesso sono l’occasione per
conoscere altri giovani e innamorarsi. Una di queste danze popolari
di cui parla Shakespeare nella commedia è la Bergomask
ossia "bergamasca". Era una tipica danza adatta al
corteggiamento: i due cerchi degli uomini e delle donne girano in
senso inverso a ogni strofa e quando viene il ritornello l’uomo
e la donna che si trovano l’una di fronte all’altra si
prendono a braccetto e fanno qualche giro di danza assieme —
quel che basta per scambiarsi rapidamente qualche segnale.
Secondo qualche studioso, la
bergamasca, che non è mai diventata un ballo ufficiale, una
danza di corte, si chiama così non tanto perché sia
nata a Bergamo ma perché è una danza rustica e nei
tempi antichi la popolazione della zona aveva fama di essere rozza e
goffa. In ogni caso la danza evoca un’immagine di sogno, che è
stata ripresa da VERLAINE nella poesia "Clair de lune,"
alla quale a loro volta si sono ispirati Claude Debussy nella Suite
bergamasque del 1890 e Gabriel Fauré in Masques et
bergamasques del 1919.
Un altro celebre brano musicale
ispirato a Midsummer Night’s Dream è lo Scherzo
opera 61 n. 1 di Felix Mendelssohn.
Parlare di sogni d’estate oggi
appare fuori luogo e fuori moda; ma è il modo artificiale di
vivere che ci porta a non accorgerci che in queste notti, quando il
cielo è sereno, non fa mai completamente buio — un po’
più a nord si passa direttamente dal crepuscolo all’alba
e più a nord ancora, sopra il circolo polare artico, c’è
il sole anche a mezzanotte. Se lasciamo scandire le nostre giornate
solo dal lavoro e dal televisore ci perdiamo la gioia di vivere
questi momenti che la natura ci offre.
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A rimirar le stelle
Le notti d’estate sono brevi
ma in compenso non sono fredde e spesso il cielo è sereno;
questo ci invita a guardare le stelle, the stars e le varie
costellazioni, the constellations; in inglese queste
conservano di solito il nome latino. Le dodici di cui si parla più
spesso sono quelle dello zodiaco, the zodiac. Non leggo mai
gli oroscopi — non ci credo — ma i nomi dei segni
zodiacali sono parole che ritroviamo in vari contesti e quindi è
bene conoscerle. Cominciamo, come si usa, dall’equinozio di
primavera e troviamo: Aries the ram, che è l’ariete;
Taurus the bull, il toro; Gemini [-ai] the twins, i
Gemelli — Gemini è stato anche il nome di un programma
spaziale americano con il lancio in orbita di capsule con due
astronauti. Segue Cancer the crab, il cancro o granchio —
questa parola è diventata tabù presso alcuni,
soprattutto in America, e molti giornali la evitano sostituendola con
moon children, i figli della Luna. I tropici però
continuano a chiamarsi the Tropic of Cancer e the Tropic of
Capricorn.
Abbiamo poi Leo the lion, il
leone, Virgo the virgin, la vergine, Libra the scales,
la bilancia, Scorpio the scorpion, lo scorpione, Sagittarius
the archer, il sagittario o arciere, Capricorn the sea
goat, letteralmente la capra di mare, Aquarius the
Waterbearer, l’acquario o portatore d’acqua e infine
Pisces [paisi:z] the fishes,
i pesci.
[...]
Tornando all’astrologia,
astrology, la domanda "di che segno sei?" in inglese
di solito è what’s your zodiac? Qual è il
tuo zodiaco? E la risposta comincia con I’m a…
sono un… e il nome del segno. Più spesso si inizia il
discorso dichiarando il proprio segno e interpellando gli altri: I’m
an Aquarius. What about you? Io sono un acquario, e tu?
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Di che segno sei?
Ieri sera, verso la fine della
conversazione, ho dato un esempio di battuta di dialogo che era: I’m
an Aquarius. What about you? Io sono un acquario, e tu? Stasera
vorrei fare due precisazioni.
La prima è che ho già
detto altre volte che non amo i discorsi sugli oroscopi, horoscopes,
e sulla New Age, The Age of Aquarius; ma ad esempio
proprio Aquarius è il titolo di un celebre brano
musicale di qualche anno fa e tutte queste sono parole latino-inglesi
con le quali prima o poi abbiamo a che fare e quindi dobbiamo
occuparcene anche se prendiamo le distanze da quello a cui rinviano.
La seconda precisazione riguarda
invece le domande che iniziano con What about? È il
modo più frequente per informarsi a proposito di qualcuno o
qualcosa. Due esempi: "Michele verrà alla festa; e
Maria?" Michael is coming to the party. What about Mary?
"I treni partono ogni ora. E gli autobus?"
The trains go every hour. What
about the buses?
La stessa forma serve anche per
proporre qualcosa: "dobbiamo offrire del dessert; che ne diresti
del gelato?" We’ll have to offer
some dessert: what about some ice-cream?
Se invece di una persona o di una
cosa parliamo di un’azione, what about è seguito
dalla forma in –ing del verbo. "Che ne direste di
andare al cinema?" What about going to the cinema? "E
se stessimo a casa?" What about staying at home?
In alcuni esempi, la frase italiana
che ho usato come traduzione del what about inglese inizia con
"e": "e Maria?" "e gli autobus?" "e
se stessimo a casa?" L’uso di and in questi casi
non è corretto in inglese — anzi porta facilmente a
fraintendere il senso della frase.
Anche le obiezioni che iniziano con
"e se…" in inglese non vogliono and ma what:
"facciamo una gita in barca domani. E se
piove?" Let’s go on a boat
trip tomorrow. What if it rains? L’espressione
what if — letteralmente "che cosa se…"
sottintende un verbo: "che succede se…" what
happens if…; "Che cosa dobbiamo fare se…"
what shall we do if…
E se adesso ascoltassimo della buona
musica? What about listening to some good music
now?
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Auguri e convenevoli
Da qualche sera mi congedo da voi
con l’augurio di buon ascolto della dolce serata: enjoy your
sweet night — letteralmente, "gustatevi, o godetevi,
la vostra dolce serata." Il verbo enjoy è lo
stesso che alla forma riflessiva significa "divertirsi":
enjoy yourself "divertiti" enjoy yourselves
"divertitevi" e viene usato in alcune forme di augurio.
Tradizionalmente gli inglesi tendono
a rifuggire da certe manifestazioni che accompagnano eventi della
vita quotidiana — ad esempio, uno starnuto da noi fa scattare
la sequenza "Salute! Grazie Prego" mentre per gli inglesi
la reazione più educata è quella di ignorare totalmente
la cosa. Del resto, se ci pensiamo, non c’è nessun
motivo perché uno starnuto venga rimarcato e un colpo di tosse
no. Qualche persona anziana, soprattutto donna, dice ancora God
bless you, "Dio ti benedica" dopo uno starnuto ma la
cosa sta diventando obsoleta.
Analogamente, non esiste una formula
tradizionale equivalente al nostro "Buon appetito";
qualcuno penserà subito che dipende dal fatto che data la
qualità del cibo inglese non c’è gran che da
augurare — ma naturalmente è solo una questione di
usanze. Qualcuno, in certi ambienti, fa ricorso al francese bon
appetit ma ora si va diffondendo enjoy your meal — meal
è il pasto. Se è enjoy seguito da un altro
verbo, questo è alla forma in –ing: "gli
piace molto pescare sul lago" he enjoys fishing in the lake;
"gradisco ascoltare questa dolce musica" I enjoy
listening to this sweet music.
Enjoy è anche il
nostro "godere" quando ciò di cui si parla sono i
diritti, la fama, la stima e simili. "Il nuovo sindaco ha fama
di essere onesto" the new mayor enjoys a reputation for
honesty. "Hanno diritto alle ferie retribuite" they
enjoy the right to paid holidays. Dal verbo ENJOY derivano:
l’aggettivo enjoyable "È stata una serata
molto piacevole" it was a really enjoyable evening e il
nome enjoyment "tutto il piacere fu guastato dal rumore"
all the enjoyment was spoiled by the noise.
Il verbo enjoy deriva dal
nome joy, la gioia, da cui derivano anche gli aggettivi
joyful, gioioso, portatore di gioia, e joyless, detto
di qualcosa che non può dare gioia.
Ritorniamo all’enjoyment
che F. L. ci procura con la enjoyable music del suo programma.
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Discorsi di stagione
Parlando tempo fa di proverbi
inglesi e italiani, ne avevo citato uno che riflette il clima diverso
dei due paesi: da noi, "una rondine non fa primavera", da
loro One swallow does not make a summer. Il senso del
proverbio è esattamente lo stesso ma la stagione in cui lassù
arrivano le rondini non è spring, la primavera, ma
summer, l’estate.
Un altro proverbio dice che March
winds and April showers bring about May flowers — il vento
di marzo e i temporali di aprile ci portano i fiori di maggio. Il
senso del proverbio è chiaro ma ancora una volta i mesi sono
spostati in là rispetto ai nostri.
Tutto questo nella lingua popolare,
come è quella dei proverbi; perché invece nella lingua
letteraria spesso si ricalcano le poesie dei grandi italiani —
Dante e Petrarca sopra tutti — e si parla di un aprile
idealizzato e stereotipato: così in almeno una dozzina di
opere teatrali e poetiche di Shakespeare, nella poesia intitolata
April di William Morris (un poeta vissuto nel secolo scorso
[il XIX]) e in una poesia di Robert Louis Stevenson, lo scrittore che
noi conosciamo soprattutto come autore de “L’isola del
tesoro”, Treasure Island e che parla di all the April
woods Merry with singing "Tutti i boschi di aprile allegri
di canti"
Una poetessa della stessa epoca,
Elizabeth Browning, scrive, Oh to be in England now that April’s
there — “oh, essere in Inghilterra adesso che là
è aprile”. Quando scriveva era all’estero, e la
lontananza aiuta a idealizzare, ma direi che se si vuole sperare di
trovare in Inghilterra un clima abbastanza simile all’aprile
mediterraneo, con i fiori e i canti degli uccellini nei boschi, è
meglio andarci adesso [in giugno].
Del resto gli stessi inglesi, che
hanno il senso dell’autoironia, raccontano la barzelletta dello
straniero che ad agosto inoltrato chiede: When is summer coming
here in England? “Quando arriva l’estate qui in
Inghilterra?“ — e la risposta è stata: Summer?
Didn’t you notice? We had summer, last Wednesday afternoon.
“L’estate? Non se n’è
accorto? Abbiamo avuto l’estate, mercoledì pomeriggio.“
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Scuole
È il periodo di chiusura
delle scuole e degli esami finali e quindi l’occasione è
buona per dare un’occhiata al sistema scolastico britannico e a
quello americano. In quest’ultimo la scuola secondaria o high
school termina un anno prima della nostra, e termina con una
cerimonia finale, una graduation ceremony che è nota
attraverso le scene di numerosi film. Negli Stati Uniti le scuole
sono onnicomprensive, ossia tutti gli studenti sono assieme ma
frequentano corsi diversi (dalla matematica superiore al laboratorio
di elettrauto) a seconda dei loro interessi e delle loro capacità.
Per raggiungere un livello equiparabile alla nostra maturità,
e riconosciuto come tale al fine dell’iscrizione alle nostre
università, occorre frequentare i due anni di college
che portano al titolo di bachelor.
Il sistema britannico è più
complesso e è in una fase di transizione. La grande novità
degli ultimi dieci anni è il National Curriculum, in
qualche misura simile ai programmi ministeriali. Prima di allora ogni
scuola, sia che facesse capo alla pubblica amministrazione attraverso
gli enti local di istruzione — le Local Education
Authorities — sia che fosse indipendente come le celebri
Public Schools di Eton, Harrow, ecc., aveva un
solo obbligo, ossia quello di insegnare Scripture, la Sacra
Scrittura — l’esatto contrario che da noi, dove la
Religione è diventata l’unica materia facoltativa. Agli
esami finali si possono portare alcune materie a livello normale
ordinary level, detto normalmente O-Level e altre a
livello progredito Advanced Level o A-Level. L’accesso
alle facoltà universitarie dipende dal numero e dal tipo di
A-Levels conseguiti.
Anche qui la tendenza oggi è
verso una limitazione dell’autonomia delle università,
attraverso un consorzio che si occupa anche delle ammissioni. Nei
Paesi in cui non c’è il valore legale dei titoli di
studio, sono le università universities e in genere gli
istituti di istruzione superiore higher education a stabilire
chi può entrare a fare che cosa — a ogni livello il
valore del titolo è legato al prestigio dell’istituzione
che lo ha rilasciato. Questo vale per le Public Schools
britanniche e per le università più celebri ovunque, da
Oxford a Harvard, da Cambridge al Massachusetts
Institute of Technology o M.I.T., e tante altre.
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Verbi ergativi
Sia in italiano che in inglese ci
sono dei verbi che sono normalmente transitivi, ossia hanno un
soggetto e un complemento oggetto — ad esempio il verbo
"chiudere" in frasi come "il vento ha chiuso la porta"
the wind closed the door. In questi casi è possibile
rovesciare la frase e dire che "la porta è stata chiusa
dal vento" the door was closed by the wind.
Si possono però fare delle
frasi in cui non si dice chi o che cosa provoca l’azione: "la
porta si è chiusa" the door closed. In inglese
questa costruzione si usa anche con verbi che in italiano non la
ammettono o la usano solo in qualche caso. Do due esempi con il verbo
read, leggere: "Questo libro si legge bene" this
book reads well; "Sull’etichetta c’è
scritto: maneggiare con cura" the label reads: handle with
care — letteralmente, "l’etichetta legge"
nel senso di "sull’etichetta si legge". Un altro
verbo che si usa abbastanza spesso in questo tipo di frase è
il verbo sell, "vendere" — "questo
articolo si vende bene" this article sells well. Anche da
noi, forse per influsso indiretto dell’inglese, c’è
chi dice frasi come "queste novità vendono bene".
Ciò che si vende meglio di tutto, what sells best è
un best-seller.
Le frasi di questo tipo si usano
soprattutto per evitare di nominare chi compie l’azione e
quindi possono servire per distogliere l’attenzione da ciò
che sarebbe scomodo dire. Se la frase è "la nuova
fabbrica ha chiuso dopo solo sei mesi" the new factory closed
after only six months si ha quasi l’impressione che si sia
chiusa da sé, automaticamente o per qualche occulta forza del
destino, mentre una frase come the owners closed the new factory
after only six months indica i proprietari the owners come
responsabili della chiusura.
Tutti i discorsi, di qualunque
genere, orientano l’attenzione in una direzione o nell’altra
— di sicuro non fanno eccezione nemmeno queste mie
conversazioni. L’attenzione alle lingue e ai linguaggi serve a
prendere coscienza dei meccanismi con i quali si riesce a manipolare
il modo di presentare la realtà. Questo è diverso dallo
studio teorico della grammatica — non succede assolutamente
nulla se non si sa che questa sera abbiamo parlato dei verbi
ergativi. L’importante è capire le mosse che
portano a dire the factory closed invece di the owners
closed the factory.
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France ‘98
Tutti parlano di calcio, e quindi mi
adeguo all’argomento del periodo. Non dirò niente sulle
partite, ma il linguaggio calcistico è pieno di anglicismi, a
cominciare dal nome di questo sport.
E a questo proposito, mentre
handball è solo la pallamano, la parola football
si riferisce in inglese a un certo numero di sport di squadra, tutti
nati, come del resto il calcio fiorentino, quando interi quartieri di
città o villaggi vicini si trovavano in un campo e cercavano
di mandare oltre le linee avversarie una palla che spesso era una
vescica di maiale riempita d’aria.
I tipi più noti oggi, oltre
al calcio, sono quello che noi chiamiamo "football americano"
e gli americani semplicemente football, e il Rugby Football
di cui esistono in Inghilterra almeno due versioni ufficiali (con
tredici e con quindici giocatori per squadra) e che noi chiamiamo
semplicemente rugby. Ci sono poi varianti locali, come la
variante canadese del football americano, l’ Australian
Rules Football, un rugby australiano con squadre di
diciotto giocatori, un campo ovale lungo centocinquanta metri e
quattro porte per parte, e il football gaelico, che si gioca
in Irlanda .
Quello che noi chiamiamo calcio o
football, nei paesi di lingua inglese va sotto il nome
ufficiale di Association Football e sotto il nome comune di
soccer. Il nome è nato nel 1863 quando i colleges che
giocavano lo sport della palla rotonda in cui è vietato usare
le mani si sono divisi da quelli che usavano la palla ovale e le
mani, e hanno fondato la loro associazione, la Football
Association, che ha stabilito regole comuni, quelle su cui si
basa ancora adesso il gioco del calcio. Association Football è
quindi il gioco del pallone secondo le regole della association.
La parola soccer è nata qualche anno dopo, nel 1889,
dalla seconda sillaba soc di association, a cui si è
aggiunta una seconda c e la sillaba –er.
La parola inglese football si
riferisce anche al pallone, ossia alla palla ovale negli Stati Uniti
e al pallone da calcio in Gran Bretagna.
La Association ha dato
origine a quattro Leagues o leghe, con quattro campionati e
quattro squadre nazionali. Oltre a England
e alla English League
ci sono Scotland
e Scottish League,
Wales (il
Galles) e Welsh League,
e Northern Ireland
e Northern Irish League.
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Ancora calcio (e calci)
Ho cominciato ieri sera a parlare di
football e più precisamente di soccer, che è
il nostro "calcio" inteso come sport. Il calcio inteso come
pedata, come colpo dato col piede (e si spera sempre al pallone, e
non agli stinchi degli avversari) è invece il kick, una
parola che troviamo anche in espressioni come "calcio d’inizio"
(della partita) kick off e "calcio d’angolo"
corner kick. CORNER, detto in italiano corner, in
inglese è l’angolo, e non il calcio d’angolo.
Anche il calcio di rigore in inglese è il penalty kick —
penalty da solo vuol dire "penalizzazione, penalità,
penale da pagare per un reato" ecc.
La meta del gioco è di far
entrare il pallone nella meta o goal. La parola inglese goal
si usa anche al di fuori del linguaggio sportivo per qualsiasi
traguardo o mira che uno può avere nella vita — su un
dizionario ho trovato l’esempio the goal is to raise as much
money as possible “la meta è di raccogliere quanto
più denaro possibile” — e questo dovrebbe essere
il gol più bello delle varie partite del cuore. “Gol”,
scritto senza la a, è un esempio, probabilmente il più
noto, di adattamento di una parola inglese non solo alla pronuncia ma
anche all’ortografia italiana. Il traducente diretto di “rete”,
net, è un termine di altri sport, in particolare del
tennis e della pallavolo, volleyball, ma non del
football.
Un altro termine inglese è
offside, che deriva da side, il lato, e off che
tra i suoi venti e più significati ha quelli di "sbagliato"
e di "illegale". Il fuorigioco è in effetti il lato
sbagliato rispetto alla posizione del pallone.
Le misure del campo, delle aree e
delle porte si basano sul sistema inglese: le porte sono larghe otto
iarde e alte otto piedi. Il penalty spot o penalty disk,
il dischetto del rigore, è a 12 iarde dalla porta, mentre 10
yarde è il raggio sia del cerchio di centro campo che della
lunetta alle spalle del penalty spot. L’area di rigore è
larga 40 iarde e profonda 18. La palla pesa da un minimo di 14 once a
un massimo di 16, ossia una libbra: la sua circonferenza è di
27 o 28 pollici.
Per chi ha voglia di fare un po’
di conti, ricordo che una iarda corrisponde a 91,4 centimetri ed
equivale a tre piedi, ognuno dei quali equivale a 12 pollici. Una
libbra sono 454 grammi e come abbiamo già detto equivale a
sedici once.
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Independence Day
Domani è il Fourth of
July, festa nazionale negli Stati Uniti, anniversario della
Dichiarazione di Indipendenza o Independence Day. Prima di
dire qualcosa sull’evento storico segnalo che molto spesso vedo
la parola Independence scritta sbagliata — in inglese la
vocale della seconda sillaba è una E, non una I come
nell’italiano inDIpendenza. Il verbo depend si scrive
con la e in entrambe le sillabe; da questo deriva il nome
astratto dependence (che contiene quattro vocali E) e il suo
contrario independence.
Sempre in tema di lingua, ricordo
che le date si abbreviano col numero del giorno seguito alle ultime
due lettere — in questo caso 4th — e poi il
nome del mese; nel dirle bisogna pronunciare anche l’articolo
the e la preposizione of: il quarto di luglio è
the Fourth of July. Gli anni si dicono
separando le prime due cifre dalle ultime due: il 1776 è
seventeen seventy-six, ossia diciassette settantasei.
QUEL giorno il secondo Congresso
continentale the Second Continental Congress delle
tredici colonie oltre Atlantico redige la Declaration of
Independence, un documento breve — occupa un paio di
facciate dattiloscritte — ma in cui si afferma il diritto
all’autodeterminazione, si denunciano i soprusi del Re
d’Inghilterra e si stabilisce un’alleanza tra i tredici
nuovi Stati sovrani che avrebbe poi portato al governo federale e
alla nascita degli United States of America. In realtà
la decisione di proclamare l’indipendenza era stata presa due
giorni prima e la pubblicazione del testo avvenne quattro giorni
dopo, ma già l’anno successivo il 4 luglio ebbe una
prima celebrazione commemorativa.
Da allora la giornata è
diventata l’occasione privilegiata per parate, festeggiamenti,
cerimonie come la posa della prima pietra di grandi opere pubbliche,
e anche per atti politici rilevanti; ad esempio, l’indipendenza
delle Filippine fu riconosciuta ufficialmente dagli Stati Uniti il 4
luglio del 1946, dopo 48 anni di protettorato americano.
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Calcio e calciatori
Spero che abbiate trascorso un buon
week-end; per coloro che vivono e lavorano nella nostra regione
questo periodo non è il massimo del comfort —
faccio notare due cose a proposito di questa parola: che gli inglesi
la scrivono e la dicono con una m prima della f e
soprattutto che la pronuncia della prima sillaba non è con la
vocale di HOT DOG ma con quella di MUCH LOVE.
Per molti appassionati queste sere
estive sono dedicate al football, o meglio, come dicevamo
settimana scorsa, al soccer. Abbiamo già parlato di
goal, la meta; il custode della meta, il portiere, è il
goalkeeper, detto colloquialmente goalie, una parola
che si ottiene aggiungendo a goal la desinenza –ie,
la stessa che troviamo in Frankie , diminutivo di Frank
(pensiamo a Frankie Lane e Frank Sinatra nel mondo
della musica di qualche anno fa o, se preferite, a Jack Lemmon
e Jackie Stewart).
Uno dei ruoli nella squadra anche da
noi viene designato con una parola inglese, stopper, dal verbo
stop e quindi letteralmente "colui che ferma"; noi
diciamo [stopper] ma nella lingua
inglese le consonanti doppie si pronunciano semplici.
Il nostro libero in inglese
si chiama sweeper, da sweep che è la scopa, e
cioè colui che spazza via i palloni avversari allontanandoli
dal proprio goalie. Per il resto della squadra: gli attaccanti
si chiamano forwards, da forward che vuol dire avanti
e i difensori defenders. Un centrocampista è un
midfield player o midfielder. Midfield è
il centro campo: field è il campo in ogni senso,
compreso quindi anche il campo di studio o di attività
lavorativa, e mid si usa al posto di middle soprattutto
nei composti.
Player, goalkeeper, stopper,
sweeper, defender e midfielder terminano tutti per –er
perché questa è la desinenza che si usa abitualmente
per ricavare da un verbo il nome di colui che compie quell’azione:
da play giocare abbiamo player giocatore, e così
per gli altri; ma la desinenza la troviamo anche dopo certi nomi, per
indicare una persona che è in relazione con essi: da midfield
centrocampo abbiamo midfielder centrocampista più o
meno come da London, Londra, abbiamo Londoner
londinese, o da pension, pensione, abbiamo pensioner,
pensionante o pensionato.
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Scotland Yard
Parlando alcune sere fa dei campi di
calcio ho detto che le misure sono espresse in yards, iarde —
una yarda corrisponde a cm 91,44. La parola italiana metro si
adopera anche nel senso di asta di legno per misurare, ad esempio la
stoffa: in inglese abbiamo la parola yardstick, che viene
usata anche nel senso di criterio per valutare, di metro di
confronto: "è una persona importante? Dipende
da che metro adoperi" Is he an
important person? It depends on what yardstick you use.
E che cosa c’entra Scotland
Yard, la polizia britannica? La parola yard ha anche il
significato di "cortile, corte, spiazzo, piazzetta" e
Piazzetta Scozia Scotland Yard è un largo dietro
Whitehall a Londra. Whitehall è la via del
centro che va da Trafalgar Square a Parliament Square,
la Piazza del Parlamento, e su cui si affacciano sia molti ministeri
e uffici governativi, sia altre strade importanti come Downing
Street, dove al n. 10 c’è la residenza del Primo
Ministro.
A Scotland Yard aveva sede un
settore del Ministero degli Interni, The Ministry of Home Affairs,
il settore che ospitava la direzione centrale della polizia
investigativa. Ne parliamo al passato perché da vari anni la
sede è stata spostata in una zona meno centrale e quindi meno
congestionata dal traffico; ma per non abbandonare del tutto la
tradizione, al nuovo sito è stato dato il nome di New
Scotland Yard così tutti possono andare avanti
tranquillamente a dire Scotland Yard quando si parla di lotta
al crimine.
La parola yard in questo
senso è più o meno sinonimo di court — le
sinonimie perfette non esistono — e la troviamo in alcuni
composti importanti: i cantieri navali sono shipyards o
dockyards, mentre backyards sono i cortili posteriori
delle case, di solito molto meno attraenti dei giardini che danno
sulla strada. La parola mi fa sempre venire in mente quella volta che
parlando con un inglese dicevo che di solito non si ha una bella
impressione di una città arrivandoci in treno e lui mi ha
risposto Of course, you can see all the backyards! “Naturalmente,
si vedono tutti i cortili posteriori!”
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Parole e immagini mentali
Ieri sera, parlando dei backyards
che sono i cortili posteriori delle case inglesi, citavo una frase
che mi è rimasta impressa da quando me l’ha detta un
inglese tanti anni fa — si parlava del fatto che per chi arriva
in treno una città non presenta il suo aspetto migliore e lui
commentava che dalla ferrovia non si vedono le facciate e i giardini
ma all the backyards.
Di moltissime parole, sia nella
nostra lingua che in eventuali altre lingue, ricordiamo esattamente
in quali frasi le abbiamo trovate, in che libro le abbiamo lette o
chi ce le ha dette e a quale proposito. In altre parole, nella nostra
testa a quei vocaboli corrispondono immagini mentali ricche di suoni,
di colori e di sentimenti. È l’esatto contrario di
quello che vorremmo fare quando cerchiamo di imparare le parole
straniere studiando liste di vocaboli, con la loro traduzione in
italiano. Vorremmo che di queste parole ci restasse in testa il
minimo essenziale, ci sembra che meno dati cerchiamo di mettere nella
nostra memoria tanto meglio questa funzionerà.
Questo vale per i computer, che sono
tanto più veloci e affidabili quanti meno dati devono
elaborare, ma non per la nostra memoria. Non riusciremo mai a
saturare i miliardi di circuiti che le cellule del cervello
permettono di attivare; il problema è invece di ottenere che
le informazioni vengano depositate stabilmente nella memoria e
vengano recuperate velocemente quando servono. Conosciamo tutti
persone anziane che ricordano benissimo, anche nei dettagli, episodi
della loro infanzia e giovinezza — e se abbiamo pazienza,
adorano raccontarceli per l’ennesima volta — ma non
riescono assolutamente a ricordare dove hanno lasciato gli occhiali
che avevano sul naso cinque minuti fa. Non hanno perso la memoria,
come dicono — se fosse vero, non potrebbero ricordare così
bene fatti e persone di parecchi decenni fa. Quella che si deteriora
è la capacità di immettere in memoria i dati. Non sanno
dove sono gli occhiali perché quel dato non è mai stato
registrato.
Per quanto riguarda le lingue
straniere, si imparano meglio le parole e le frasi che vengono
fissate nella memoria attraverso un contesto ricco e significativo,
un contesto cioè che ci dice qualcosa di importante e che
possiamo recuperare attraverso canali e percorsi diversi —
parole, immagini, voci, suoni, e soprattutto ritrovando il piacere di
una scoperta.
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Prendiamo le misure
Dopo aver parlato di iarde per un
paio di sere, parliamo delle altre misure di lunghezza inglesi. Una
yard si divide in tre feet o piedi, e quindi un foot
è lungo poco più di trenta centimetri. Siccome a un
piede così corrisponde il quarantasei di scarpe c’è
chi dice che dall’inglese feet deriva l’italiano
"fette".
Un foot si divide a sua volta
in dodici inches, che in italiano abbiamo chiamato "pollici"
— un inch corrisponde a circa due centimetri e mezzo e
questa unità di misura la adoperiamo anche noi sia in
idraulica, per le dimensioni di tubi, rubinetti e valvole, sia per i
televisori — quella che viene data in pollici è la
lunghezza della diagonale dello schermo: ventiquattro pollici
significa che da un angolo all’altro ci sono sessanta
centimetri.
Inch deriva dal latino UNCIA
che significa "dodicesima parte" e da cui deriva anche
l’italiano "oncia". In realtà nel sistema di
pesi più comunemente usato in Inghilterra di once in una
libbra ce ne sono sedici, ma in altri sistemi ce ne sono proprio
dodici. Il pollice inteso come dito della mano non si chiama inch
ma thumb: la b finale non viene pronunciata. Questo
vale in genere per tutte le parole inglesi che terminano per b
preceduta da m, come il pettine, comb, l’agnello,
lamb, la tomba tomb, il verbo arrampicarsi climb…
E per quanto riguarda quest’ultima parola stiamo attenti perché
la bi rimane muta anche se si aggiunge una desinenza: l’arrampicatore
è un climber — sia che si tratti di uno scalatore
mountain climber che di un arrampicatore sociale social
climber.
Tornando alle misure di lunghezza,
resta da dire della maggiore, che è il miglio terrestre o
statute mile, pari a 1760 yarde — cifra facilissima da
ricordare perché è centodieci yarde moltiplicate per
sedici. C’è anche il miglio nautico pari a 6076 piedi
cioè poco più di duemilaventicinque yarde e circa il
quindici per cento in più del miglio terrestre. Per una
incomprensibile stranezza, il pollice è diviso in mille MILS;
ma per contrastare il pericolo delle cose troppo semplici, nella vita
quotidiana, in falegnameria, ecc. si usano abitualmente gli ottavi di
pollice.
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Invito al Party
Una delle parole inglesi che usiamo
in italiano è la parola party, e come spesso succede la
adoperiamo per uno solo dei molti significati che ha in inglese. È
un caso diverso da quello di golf, che in inglese è uno
sport e in italiano è un indumento, perché anche in
inglese la parola party significa "festa, ricevimento"
e spesso è preceduta da un’altra parola che indica di
che tipo di festa si tratta: cocktail party, ad esempio, è
quello che molti da noi chiamano semplicemente cocktail non
nel senso di bevanda ma di riunione mondana nel tardo pomeriggio. The
Cocktail Party è anche il titolo di un play di T.
S. Eliot. Un altro esempio con esiti letterari è The Garden
Party, la festa in giardino, che è il titolo di una
raccolta di novelle di Katherine Mansfield.
Un altro tipo di party molto
di moda tra i teenagers americani qualche tempo fa è il
pijama party, che se non ricordo male è stato anche il
titolo di un film. In inglese abbiamo anche il verbo party
per il festeggiare, il partecipare a un party.
Ma il significato principale di
party in inglese è quello di "gruppo di persone";
un political party è un partito politico ma di solito
political si sottintende e quindi party vuol dire
"partito" — e anche qui abbiamo spesso un’altra
parola che precede party: il partito laburista è il
Labour Party e il partito conservatore è il
Conservative Party. Party è anche la comitiva:
dappertutto ci sono gruppi di turisti giapponesi there are parties
of Japanese tourists everywhere. Ma può essere anche un
gruppo di lavoro: un gruppo di ricerca di scienziati è un
research party of scientists.
Parties sono anche le parti
nel senso di contraenti di un accordo o di un contratto, e molti
contratti (non solo quelli di assicurazione per la responsabilità
civile) prevedono clausole per i third parties, i terzi che
possono essere coinvolti. E parties sono anche le parti in
causa in una lite giudiziaria. Essere coinvolto come contraente o
comunque corresponsabile è be party to: si rifiutò
di partecipare a un simile imbroglio he refused to be party to
such treachery.
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In carrozza!
Questa sera parliamo di due parole
collegate tra loro sia per il loro significato sia perché
hanno avuto una vicenda parallela. La prima di queste due parole è
coach che in origine è la carrozza a cavalli; quando la
carrozza e la diligenza stagecoach sono state sostituite da
altri mezzi di trasporto pubblico, la parola coach è
stata usata per le prime carrozze ferroviarie e poi sia per i vagoni
che trasportano passeggeri, sia per gli autobus interurbani e quelli
che noi (intendo dire, quelli della mia età) chiamavamo
torpedoni e adesso chiamiamo “pullman” — questa
parola ha altri significati in inglese, e ne riparleremo domani sera.
La seconda parola è train;
dal significato originario, e oggi quasi totalmente perduto, di
strascico — ad esempio, di un abito da sposa — e di
codazzo di persone che seguono un re o un altro personaggio di
rilievo, è derivato il significato di treno.
La vicenda comune alle due parole è
che dal senso primo di "trasportare persone da un luogo
all’altro" si è sviluppato per metafora il senso di
"addestrare" per i verbi coach e train, e
così l’allenatore in certi sport di squadra si chiama
coach e in altri si chiama trainer. Non sono riuscito a
trovare un criterio valido e oggettivo per distinguere le due parole,
così come non è chiaro perché in certi sport
l’arbitro si chiami umpire e in altri referee.
Il verbo train non si usa
solo nell’ambito sportivo ma anche per altre forme di
addestramento, come sviluppare la voce train one’s voice
per i cantanti; può riferirsi anche all’operazione che
si fa con certe piante di potarle, dirigerle e conformarle in un
certo modo o per scopi estetici o perché producano meglio. In
questi sensi train può corrispondere all’italiano
"coltivare" — non solo le piante ma anche la voce, le
attitudini e le abilità di vario genere.
Con il gusto tipicamente britannico
per il gioco di parole, un’insegna pubblicitaria delle
ferrovie, all’esterno di una stazione, diceva training is
better than coaching.
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Scene di viaggio
Ieri sera abbiamo parlato di
carrozze e di treni — quello dei mezzi di trasporto è un
argomento tipico del periodo di ferie — e ho usato due parole
sulle quali voglio tornare. La prima è la diligenza o
stagecoach. È una parola composta: del secondo
elemento, coach, e dei suoi vari significati che si sono
sviluppati nel tempo abbiamo detto ieri sera — stasera voglio
aggiungere qualcosa su stage, la prima parte.
Qui stage si riferisce alla
tappa, al tratto percorso tra una stazione di posta o waystage
e la successiva. Un significato analogo lo si trova a proposito delle
fasi di sviluppo— ad esempio, la fase preliminare di un
progetto è the preliminary stage of a project — o
degli stadi di sviluppo di un essere vivente: lo stadio larvale di un
insetto è the larval stage of an insect. stage è
anche lo stadio di un missile: un missile a tre stadi è a
three-stage rocket.
Stage è poi il
palcoscenico e, per estensione, sia il mondo del teatro come
professione, sia la scena pubblica. Il direttore di scena di un
teatro è lo stage manager. Altri esempi: “ha
dedicato tutta la sua vita al teatro” he devoted all his
life to the stage; “il presidente Mao ha dominato la scena
politica per decenni” Chairman Mao dominated the political
stage for decades. E Shakespeare è giunto a dire che
“tutto il mondo è teatro, e tutti gli uomini e le donne
semplicemente attori”: all the world’s a stage, and
all the men and women merely players.
La parola stage si usa anche
come verbo, il mettere in scena è stage e può
riferirsi sia a un lavoro teatrale che ad altro: “I generali
hanno inscenato un’enorme parata militare” The
generals staged a huge military parade.
Tra i vari significati della parola
inglese STAGE non c’è (ripeto, non c’è)
quello di "periodo di formazione trascorso in azienda e/o
all’estero"; quella è una parola francese, non
inglese, e come tale va pronunciata (fa rima con garage).
Della mania di far diventare inglese anche quello che inglese non è
ho già detto tante volte e non voglio ripetermi.
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Persone e cose
La parola Pullman in Gran
Bretagna e Stati Uniti si usa per indicare alcuni treni speciali e
carrozze molto lussuose e, soprattutto in America, i vagoni letto. La
parola è il cognome del’ingegnere americano George
Mortimer Pullman che nel 1867 ha prodotto e brevettato i primi vagoni
ferroviari convertibili in vagoni letto. Quindi un Pullman Service
non è un servizio di autobus di linea ma un servizio
ferroviario di alto livello, molto confortevole soprattutto per i
viaggi lunghi.
Ho avuto occasione di fare lunghi
viaggi in treno negli Stati Uniti — ad esempio da Chicago
al parco di Yellowstone, e da Los Angeles al Grand
Canyon del Colorado, e date le distanze enormi si capisce
l’importanza di vetture comode, carrozze bar, eccetera —
questo soprattutto prima dello sviluppo attuale dell’aviazione
civile.
Quello di Pullman non è
il solo caso di un cognome o di un marchio di fabbrica che diventa un
nome comune. Esiste anche il verbo hoover, dal nome della
marca di aspirapolvere, che è il pulire i pavimenti coperti di
moquette o di altri tappeti. Questo soprattutto in Inghilterra; negli
Stati Uniti, dove le ditte sono molto più attive nel
proteggere i loro marchi, dalla parola per aspirapolvere, vacuum
cleaner è stato tratto il verbo vacuum. Vacuum
è la parola latina che indica il vuoto e in effetti il vacuum
cleaner è letteralmente ciò che pulisce producendo
il vuoto e non ciò che aspira la polvere. Abbiamo detto tante
volte che lingue diverse sono modi diversi di considerare le cose.
Un caso analogo è quello di
xerox per la fotocopia, dal marchio Xerox — che
si usa anche come verbo xerox fotocopiare. E per qualche
tempo anche Kodak è stato usato come sinonimo di
(photo)camera per le macchine fotografiche di qualsiasi marca.
Oggi il caso più controverso
è quello di coke, una parola derivata da Coca Cola
e che molti usano come nome generico per "bevanda gasata";
la Coca Cola Company l’ha registrata come marchio e
esige che sia usata solo per i suoi prodotti.
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Luglio
Questa giornata centrale del mese di
luglio (tra i quindici giorni già trascorsi e i quindici che
mancano alla fine del mese) ci dà lo spunto per dire qualcosa
sul nome stesso del mese, July, che a sua volta deriva da
Giulio Cesare, quel Julius Caesar che dà anche il
titolo a una delle "tragedie romane" di Shakespeare. Il
femminile è Juliet e di nuovo c’entra una
tragedia di Shakespeare.
A proposito di questa voglio far
notare due cose: la prima è che nei titoli in cui si nomina
una coppia, il nome maschile di solito precede quello femminile:
Romeo and Juliet, Antony and Cleopatra, Troilus and
Cressida; ma non mancano le eccezioni anche nello stesso
Shakespeare, come Venus and Adonis, Venere e Adone. La seconda
riguarda l’età della protagonista, che all’epoca
della vicenda aveva tredici anni — con buona pace di quelli che
di fronte alle intemperanze di certi giovani d’oggi rimpiangono
i tempi antichi e dicono che una volta certe cose non succedevano.
Non solo, ma dal racconto della nutrice all’inizio della
vicenda, si viene a sapere non solo la data di nascita di Giulietta,
il 31 luglio, ma anche che la madre a quell’età aveva
già combinato la sua dose di guai.
Di origine analoga a July è
anche il nome del mese successivo, August, da Augustus the
Emperor, l’imperatore Augusto.
Il 16 luglio, the 16th
of July, si festeggia Carmel, o più esattamente
Mary of Mount Carmel, Maria del Monte Carmelo in Galilea.
Oltre al nome femminile, Carmel è anche il nome di
varie località dei paesi di lingua inglese — ma mentre
in Mount Carmel si pronuncia con l’accento sulla a,
la cittadina della California — sul mare, con una spiaggia
fantastica — si pronuncia con l’accento sulla e;
questo si spiega con il fatto che prende nome da una delle missioni
fondate da un francescano di origine spagnola, così come sono
spagnoli i nomi di tante altre città sul percorso: San
Diego, San Juan Capistrano, San Francisco, Maria De Los Angeles,
Santa Monica, Santa Barbara e Sacramento, la capitale
dello stato.
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Un po’ di suspense
Pochi giorni fa, in un libro
tradotto dall’inglese, ho trovato la parola *SUSPENCE. La cosa
è curiosa perché in inglese la parola suspense è
scritta come la vedete qui, con la s come penultima lettera.
Il problema che si può porre è quello della pronuncia,
perché c’è la stessa parola in francese, ma non
quello della grafia, che è identica.
Il caso è il contrario di
quello di *CONFORT scritto con la n, invece che con la m
che c’è in inglese, prima della f. Qui c’è
una semplificazione — la sequenza strana mf viene
sostituita da quella normale per un italiano, nf. Ma *SUSPENCE
scritto con la C non è un caso di semplificazione o di
adattamento sulla base dell’italiano. La nostra parola
sospensione si scrive con la s e non con la c
nella terza sillaba. Può trattarsi invece di un
ipercorrettismo, cioè uno di quegli errori che si commettono
per troppa paura di sbagliare, per il timore che le cose semplici e
simili all’italiano siano scorrette. Questo è il
meccanismo che fa trovare non di rado su giornali e riviste qualche
acca in più del necessario, buttata lì perché se
no la parola non ha l’aria abbastanza inglese.
È vero che il numero tre è
three, che il mito è myth, e che l’ente o
autorità è authority, ma, per dirne una, il
mistero è mystery e non *MYSTHERY. Perché non ha
la acca ma in compenso ha una ipsilon anche nella prima sillaba? Boh,
mistero!
Alcuni ipercorrettismi derivano da
false etimologie. Nel Cinquecento il comandante della flotta si
chiamava, in francese e inglese, amiral. Poi gli studiosi di
lessico e in particolare il Dr Johnson, autore del più
prestigioso dizionario inglese, hanno ritenuto che la parola fosse
una corruzione rispetto al latino ADMIRARE e hanno imposto la forma
admiral, tuttora in uso. In realtà la parola deriva
dall’arabo AMIR AL BAHR, Emiro (cioè principe) del mare.
Questa è anche l’origine della doppia emme di
ammiraglio, il che vuol dire che anche noi italiani abbiamo
fatto lo stesso errore.
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Tutti in vacanza
Prendo lo spunto dalle attività
vacanziere, cominciando da quelle tipiche del mare. Alcune hanno nomi
inglesi o quasi inglesi, come il beach volley, la pallavolo
volleyball da spiaggia — e pare che gli sport di cui
esiste la versione beach siano sempre in aumento. Un altro
termine inglese è off-shore che è l’altura,
il mare aperto, lontano off dalla riva shore e che da
noi indica un tipo di gara motonautica.
I nomi degli sport, come delle
attività in genere, corrispondono spesso alle forme in -ing
dei rispettivi verbi: nuotare è swim e il nuoto è
swimming; remare è row e il canottaggio è
ROWING. In qualche caso il verbo coincide col nome: la vela è
sail, to sail è il navigare, e lo sport della vela è
sailing. La barca a vela è una sailboat mentre
una barca a remi è una rowboat e c’è anche
la parola boating che indica genericamente l’andare in
barca.
Una parola inglese che si riferisce
al nuoto è crawl, uno degli stili più usati per
il nuoto di velocità o stile libero, che deriva dal verbo
crawl "strisciare". In quanto agli altri stili, il
dorso è il backstroke, il colpo all’indietro, e
la rana è il breaststroke, letteralmente il colpo di
petto. La rana come animale è frog, e l’uomo-rana
che fa lavori subacquei è il frogman, ma la parola frog
non si usa per il nuoto, a differenza degli altri stili che prendono
il nome dagli animali: la farfalla è il butterfly stroke
e il delfino è il dolphin stroke.
Ma in assoluto lo sport (si fa per
dire) più praticato è il sun-bathing il fare i
bagni di sole, così da poter mostrare una bella tintarella o
suntan. La parola tan viene dal tannino usato nelle
concerie e ha dato origine sia al verbo tan, conciare le
pelli, che al color marrone chiaro. Da qui la parola che indica
l’abbronzatura; in italiano facciamo riferimento al bronzo, in
inglese al tannino. Ma le scottature, sunburns cioè
bruciature di sole, sono rosse ovunque e molto brutte, e quindi sarà
meglio evitarle.
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Lassù sui monti…
Ieri sera abbiamo parlato del mare e
delle attività che vi si svolgono, e stasera tocca alla
montagna. Anzitutto abbiamo in inglese due parole, mountain
che si usa in generale e mount seguita dal nome: “il
Monte McKinley è il monte più alto del Nordamerica”
Mount McKinley is the highest mountain in North America. La
parola mountain la conosciamo molto bene per via della
mountain bike. Da mountain deriva mountaineer,
che è sia il montanaro, chi abita tra i monti in the
mountains, sia chi ama la montagna e ci va per le escursioni. E
l’attività corrispondente, ancora una volta, è
espressa con la forma in -ing: mountaineering è
il complesso delle attività che sono legate alla montagna.
Quando le escursioni diventano vere
e proprie arrampicate allora si usa la parola climb (ma la b
non si pronuncia); il verbo è climb e l’attività
alpinistica è detta climbing. Anche questa parola
adesso è abbastanza nota, da quando si è diffusa
l’arrampicata libera o free-climbing come sport
agonistico.
La montagna è frequentata
soprattutto per gli sport invernali; il solo che in alcuni luoghi si
riesce a praticare d’estate è lo sci skiing. Ski
è una delle poche parole inglesi che terminano per i e
non per y: (sky è il cielo), e la forma in -ing
di ski ha due i una dopo l’altra. Un caso
analogo di doppia i è quello di taxiing, lo spostamento
dell’aereo dall’aerostazione alla pista di decollo o
dalla pista di atterraggio all’aerostazione.
Ma torniamo in montagna, che ora
viene usata anche per altre attività sportive come il
parapendio o hang gliding; letteralmente, l’espressione inglese
significa planare o veleggiare appesi. Il verbo hang,
appendere o appendersi, ha la particolarità di essere
irregolare (la forma del passato e del participio passato è
hung) a meno che non sia usato nel senso di "impiccare"
nel qual caso ha la forma regolare hanged. Il deltaplano si
chiama hang glider.
La mia idea di montagna è di
un posto dove si ammirano panorami, the views, e se si è
bravi e fortunati si trovano le fragole, strawberries, i
lamponi raspberries, i mirtilli bilberries e magari dei
bei funghi mushrooms. Ma questo tra una decina di giorni.
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In viaggio
Proseguiamo con le conversazioni di
argomento vacanziero, esplorando qualche alternativa al mare the
seaside e alla montagna the mountains, al plurale, di cui
ci siamo occupati le sere scorse. Un’alternativa può
essere la crociera, a cruise — sì, proprio come
l’attore Tom Cruise e come i missili da crociera, i
cruise. Accanto ai viaggi per mare by sea, ci sono i
viaggi per via di terra, by land, e per via aerea, by air.
Travelling by land
di solito avviene su strada, by road,
in auto o pullman by car or by coach.
Ricordo che l’espressione on the road, dal libro
di Jack Kerouac, ha altri significati — letteralmente, "per
la strada" ma è tutto un genere di libri e film.
L’alternativa al travelling
by road è travelling by train, magari con la
possibilità di dormire: una sleeping accommodation
comprende le cuccette berths e i vagoni letto sleeping
cars. A proposito di sistemazione, accommodation si scrive
con due c e due m. L’albergo, lo sanno tutti, e
un hotel e l’accento va in fondo come in francese —
in effetti è una parola francese, che in inglese come in
italiano ha perso l’accento circonflesso sulla o. Per i
giovani ci sono gli ostelli della gioventù o youth hostels
e per chi ama le sistemazioni "sportive" c’è
il campeggio. In inglese, camping è l’attività,
mentre il luogo attrezzato si chiama camping site, il sito per
campeggiare.
Vitto e alloggio sono board and
lodging, e da board viene il nome inglese della pensione,
la boarding house. Ma la sistemazione forse più tipica,
in tante località britanniche e irlandesi, è il bed
and breakfast, letto e prima colazione, detto colloquialmente B
& B. Normalmente si tratta di pensioncine a conduzione
familiare, comode e pulite, con la possibilità di fare un
pasto abbondante al mattino. Se ne trovano un po’ dappertutto,
nei sobborghi delle città e sulle strade delle vacanze, a
volte in località splendide — ma allora è
difficile trovare camere libere, vacancies, se non si è
prenotato.
Se avete avuto l’impressione
che io vi stia parlando di queste cose perché avrei una gran
voglia di un viaggio da quelle parti, non vi siete sbagliati. Spero
che per qualche ascoltatore sia imminente una vacanza dove si parla
inglese — buon viaggio!
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Rilassiamoci
Il tema della settimana è
quello delle vacanze e anche la conversazione di stasera torna
sull’argomento. Perché si va in vacanza? Per rilassarsi,
dice qualcuno, e in inglese to relax. Relax è
una parola che abbiamo importato ma da noi è usata come nome e
non come verbo, in espressioni come "fare il relax". In
inglese, come ho detto, relax è il verbo rilassarsi
mentre il nome che ne deriva è relaxation.
Per qualcun altro, si va in vacanza
per divertirsi, have a good time. Questa espressione
idiomatica è una delle più frequenti per esprimere
l’idea di spassarsela, di trascorrere un bel periodo, di
divertirsi, soprattutto in compagnia. È diversa dal verbo
enjoy che anche lui indica il provar piacere nel fare
qualcosa, ma spesso per attività più brevi e anche
individuali.
Quindi per chiedere a qualcuno se si
sia divertito nelle vacanze, si chiede: did you have a good time?
Se vi risponde I had the time of my life, vuol dire che se
l’è spassata come non mai. Come sempre in questi casi,
la resa letterale "il tempo della mia vita" non rende
assolutamente il senso e l’idea dell’espressione
idiomatica.
In queste espressioni time è
il tempo che passa e il verbo have assume il significato di
“trascorrere”. La domanda "hai avuto bel
tempo?" è molto diversa: did you have good weather?
O più semplicemente was the weather nice? È
stato buono il tempo? O ancora what was the weather like? Come
è stato il tempo?
Oltre alla distinzione che abbiamo
fatto altre volte fra il tempo cronologico, time, e il tempo
grammaticale del verbo, tense, dobbiamo quindi ricordare anche
la distinzione tra questi e il tempo atmosferico weather. In
inglese quindi due parole diverse per il tempo che passa, time,
e il tempo che fa, weather, a ennesima riprova che ogni lingua
riclassifica la realtà a modo proprio. La parola TIME, lo
ricordo, si usa anche in una serie di casi nei quali noi usiamo la
parola "ora": che ora è? What time is it?
Oppure what’s the time?
È ora che io vi saluti.
L’appuntamento è per domani sera alla stessa ora, per
l’ultima conversazione prima dell’interruzione estiva.
Durante la quale spero che ognuno di voi possa dire I’m
having a good time, mi sto divertendo — e un po’ di
good weather, bel tempo, non guasta.
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Congedo
Con la conversazione di questa sera
si conclude il ciclo 1997-98 di questi interventi sull’inglese
e sugli inglesi — ma anche sugli altri popoli di lingua inglese
e soprattutto su noi italiani, su come noi ci serviamo sempre più
di questa lingua, a proposito e a sproposito. Il Circuito Marconi sta
preparando varie novità per la ripresa autunnale ma pare che
ci sarà ancora spazio per qualche mia chiacchierata. Per ora
non posso che augurarvi una splendida estate, enjoy your summer,
sia che le vostre vacanze siano al mare, at the seaside, tra i
monti in the mountains, o magari trascorse viaggiando
all’estero, travelling abroad.
Se in queste occasioni vi capiterà
di notare qualcosa di interessante dal punto di vista del linguaggio
e vorrete farmelo sapere, sarà il modo migliore per rendere
partecipi gli ascoltatori di questa radio di ciò che a VOI è
interessato, e non solo delle mie osservazioni e riflessioni. "Non
c’è niente di più inutile di una risposta a una
domanda che non è mai stata posta." Se questo è
vero per le questioni più profonde e determinanti della nostra
vita, quelle che si collocano a livello esistenziale, figuriamoci se
non è vero anche a un livello molto più superficiale,
come le questioni e le curiosità linguistiche.
Eppure anche queste, ne sono
convinto, possono rivelarci qualcosa di non banale su come percepiamo
la realtà che ci circonda. Lo stesso abuso di parole straniere
può essere un sintomo di come viviamo la nostra italianità
— salvo poi constatare che all’estero non sempre le cose
vanno meglio e che tutto sommato da noi si vive bene.
Ma anche su questo avremo modo di
tornare. Ora vorrei prendermi qualche secondo per ringraziare
anzitutto il Direttore di questa emittente, che mi ha invitato a
tenere queste conversazioni e incoraggiato a proseguire anche quando
ero convinto che gli ascoltatori ne avessero già più
che abbastanza; a F. L., che è sempre stato molto generoso nel
presentarmi, e che soprattutto ha sempre mandato in onda della
bellissima musica prima e dopo le mie chiacchierate; e poi i tecnici
di studio, in particolare C. C. che mi ha aiutato con pazienza,
soprattutto le prime volte.
Ma il thank you più
grande e più sentito è per tutte le ascoltatrici e
tutti gli ascoltatori, in particolare per coloro che mi hanno fatto
avere i loro commenti, un feedback (eccola, la parola inglese)
molto importante per chi comunica senza avere un riscontro immediato.
A settembre, quindi, have
a nice summer and enjoy your holidays.
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Postfazione: un discorso sempre aperto
Il fatto di usare il computer per
scrivere gli appunti per queste conversazioni mi ha permesso di
verificare, tra l’altro, quali sono le parole che adopero più
spesso. Se lasciamo perdere gli articoli, i verbi ausiliari e tutte
le altre parole che hanno principalmente una funzione grammaticale, e
se togliamo "inglese" e "italiano," tra le parole
e espressioni più frequenti in assoluto ci sono: "spesso;"
"di solito;" "per esempio" (con la variante "ad
esempio") e "eccetera." La cosa non mi ha sorpreso
perché l’avevo già riscontrata in altri scritti,
soprattutto in quelli che si occupano di didattica delle lingue.
Ve ne parlo perché se ne
possono ricavare delle riflessioni. Anzitutto, i casi in cui possiamo
usare "sempre" o "mai" nel descrivere una lingua
sono relativamente pochi. Di solito (e rieccolo il "di solito"!)
non abbiamo regole prive di eccezioni ma solo linee di tendenza, usi
più frequenti di altri che però ammettono numerose
varianti. Le regole che vengono date ai principianti servono per
avere una base di partenza, perché non si può navigare
a vista senza una bussola, ma l’idea che una lingua —
qualsiasi lingua, non solo l'italiano o l'inglese — sia un
congegno a orologeria per cui basta far scattare certi meccanismi per
ottenere i risultati voluti è un’idea sbagliata; prima
ci se ne libera, meglio è. Ma non voglio fare un discorso solo
teorico, voglio darvi un esempio (e rieccolo, l’esempio!).
Si dice che il presente progressivo
si usa per ciò che sta succedendo nel momento in cui si parla,
adesso, now: in italiano posso dire "Jeff dorme" o
"sta dormendo;" in inglese devo dire Jeff is sleeping.
E si dice che invece un avverbio di frequenza come always,
"sempre," si trova in frasi con il presente semplice, che
indica le azioni abituali. E’ sostanzialmente vero, però
ci sono frasi come Jeff is always sleeping che sono
perfettamente corrette. Qui la persona che parla sta descrivendo
un’abitudine che disapprova e trova irritante, e usa always
all’interno di un presente progressivo.
La lingua non serve solo a
descrivere oggetti, fatti, azioni, eccetera (anche "eccetera"
non poteva mancare); con la lingua esprimiamo sentimenti,
valutazioni, orientamenti e tratti della personalità. E se è
vero che la grammatica tende a dirci ciò che possiamo o non
possiamo fare, è anche vero che si piega alle esigenze della
persona che comunica.
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Conclusione
Il titolo dell’ultimo brano ci
segnala che in realtà di conclusioni non possiamo trarne. Lo
studio di una lingua e la scoperta di una cultura-civiltà
straniera (e in particolare di una così ricca come quella
inglese) possono riempire una vita. L’interruzione a questo
punto del ciclo delle conversazioni raccolte in volume è
sostanzialmente arbitraria, anche se la pausa estiva costituisce una
cesura significativa.
Esaminare una lingua è come
guardare dentro a un caleidoscopio, dove frammenti si specchiano e si
ricombinano all’infinito e così facendo ci fanno
apparire forme nuove, inattese, evocative di altre forme. Allo stesso
modo e in ogni lingua idee, parole, suoni si richiamano gli uni gli
altri guidati dal bisogno insopprimibile della persona umana di
esprimere il proprio animo e di comunicare con gli altri.
Una lingua in più è un
caleidoscopio in più, con frammenti diversi e combinazioni
inusitate; forme e colori che non si trovano in quello vecchio (o che
semplicemente non notiamo più, perché troppo consuete)
allargano la nostra coscienza e affinano la nostra consapevolezza.
Per questo ogni parola nuova, o ogni uso nuovo di parole vecchie, ci
può arricchire di idee e di sensibilità — e se è
vero che i limiti del proprio linguaggio coincidono con i limiti del
proprio mondo, il desiderio di capire più lingue e più
parole coincide con il desiderio di esplorazione, di allargamento
degli orizzonti e, in ultima analisi, di avvicinamento al Mistero che
ci definisce.
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