CONVERSAZIONI SULLA LINGUA INGLESE

  • Sommario

    Prefazione

    Introduzione

  • Sez. I — Le cose e i loro nomi

    WELFARE ROLLING STONES & BEATLES Calcio o Football? AUTHORITY e autorevolezza La chiave del cancello Proverbi e (forse) saggezza L’eroico bracchetto Libri e quaderni Una spider sul ponte Parla di come mangi Idiomaticamente parlando Quelle terribili parole facili Idiomatically correct Le strane coppie Boicottiamo gli Hooligan Coppie sull’orlo di una crisi etimologica Casa, dolce casa Specialità locali Conventuali di tutti i colori Responsabilità e condivisione Un nome al giorno GET Grande! Mi seguite? E se mi fossi perso? Luci rosse e altri colori Lavorare stanca Ci facciamo una birra? Prêt-à-porter Piano, piano, piano... Usi locali e traducibilità Discorsi bestiali Etimi greci e latini Una gita in Svizzera E’ ora di... Invito a palazzo DEAL PULL! BOWL (Super e non) GUYS and DOLLS Politically Correct L’inglese settoriale Che vuol dire NATO? L’inglese nei cieli Le stagioni e le parole Dischi e fiaschi FESTIVAL RALLY Le concordanze Per modo di dire... Draghi e dragoni L’inglese specialistico Voce di popolo Le stagioni My Way Parliamo di soldi Troppo giusto! Giustizia e destrezza Just Case e terreni Giugno Testi letterari e non Parliamo di TEST Topi di mediateca A rimirar le stelle Di che segno sei? Auguri e convenevoli Discorsi di stagione Scuole France ‘98 Ancora calcio (e calci) Calcio e calciatori Scotland Yard Prendiamo le misure Invito al Party In carrozza! Scene di viaggio Persone e cose Luglio Un po’ di suspense Tutti in vacanza Lassù sui monti… In viaggio Rilassiamoci



  • Sez. II — La lingua inglese e noi italiani

    Il punto sui numerali 1300 ospiti stranieri Di città in città I nomi dei personaggi celebri Prestiti stranieri e falsi amici Un po’ di finto inglese Non è lei, ma se assomiglia va bene Traduce o non traduce? Immigrati naturalizzati Ancora sul finto inglese Lei parla itang’liano? Complimenti? Ma loro, come lo dicono? Ancora itang’liano Pronto? Hallo? Benzina in canestri? L’inglese tra noi Tradurre e no



  • Sez. III — Frammenti di grammatica

    MASS MEDIA e genere dei nomi Al plurale ci vuole la S; o no? Democrazia linguistica Non perdere la testa... I say Hallo, you say Good-bye Uno o tanti? Un po’ per ciascuno Chi ha tempo... Dai nomi propri ai nomi comuni Componibilità delle parole: la derivazione Conversioni in massa Non è genitivo (e non è nemmeno sassone) Signore e signori... Permette, signora? Problemi di altro genere Altri problemi del genere Com-prendere, ap-prendere, sor-prendere... Ma che fai? Chi te lo fa fare? Riesco a farmi capire? Affari, notizie e informazioni Avere o non avere... Volli, sempre volli Espressioni imperfette Ancora sui "frasali" Retroformazioni Con le migliori qualifiche Superlativo! Parole in catene CAN MUST (e dintorni) Se plurale deve essere... Plurali classici Ancora sui prestiti classici Errori maiuscoli Da verbi ad aggettivi Verso l’infinito Oggetti diretti e indiretti Millennio Un "ausiliare vuoto" Ricomincio da uno Forme impersonali Vista e udito Positivo e negativo Usi idiomatici Lire ed euri Tempo libero La ragnatela mondiale L’inglese del computer I nomi alterati Verbi ergativi



  • Sez. IV — Grafia e pronuncia

    Varietà di inglese Rime e allitterazioni La pronuncia di Y La pronuncia di O Rime e allitterazioni (2) Parlare con l’accento giusto Onomatopee A, ma non come Ancona Regole di pronuncia Consonanti a coppie Lettere da non dire L’alfabeto Esse sonora e esse sorda Si dice ma non si scrive

  • Sez. V — Passato e presente dei Paesi anglofoni

    Il Regno Unito (per ora) Il Principe di Galles Old London Tutto il mondo è paese? Lingue e nazioni Viaggiare apre la mente — ma non sempre Stiamo scherzando? "Ladies" e "Gentlemen" Conosci la Gran Bretagna? Città britanniche Origine della lingua inglese Beda Gli altri popoli Vecchie tradizioni? Un po’ di ‘98 Altri centenari Cent’anni fa Alcuni cinquantenari

  • Sez. VI — Festività e ricorrenze

    HALLOWEEN e GUY FAWKES In attesa della Natività Le festività invernali Christmas carols Le Ceneri L’annuncio a Maria 1° aprile Ulivi mediterranei e frasche inglesi L’Ultima Cena È risorto! 1° Maggio La Pentecoste La notte di mezza estate Independence Day

  • Sez. VII — Imparare le lingue

    Motivazione I dizionari Laurearsi in Lingue Internet e le lingue Parole e immagini mentali

    Congedo

    Postfazione: un discorso sempre aperto

    Conclusione

    Prefazione

    Questo ipertesto contiene il testo delle conversazioni radiofoniche sulla lingua inglese mandate in onda dal Circuito Marconi — Novaradio A, Milano — ogni sera dal lunedì al venerdì attorno alle 22.45, nel periodo che va dal 15 settembre 1997 al 24 luglio 1998. Sono brevi interventi, della durata di circa tre minuti, all’interno di un programma ("Dolce è la sera, dolce è la notte") in cui tanta musica di facile ascolto viene interrotta da notiziari o da rubriche di vario genere: riflessioni religiose, presentazioni di film e spettacoli, recensioni di libri, e altro.

    Gli argomenti sono in parte quelli affrontati nei manuali per l'apprendimento della lingua inglese (questioni di pronuncia, regole di grammatica, ecc.); altri sono stati tratti da temi di attualità — dal dibattito sul Welfare State alla tragedia del Cermis, passando per la vicenda di Lady Diana e i funerali di Madre Teresa di Calcutta, oppure sono legati alle ricorrenze — Halloween, il Natale, la Quaresima, la Pasqua, la Pentecoste...

    Si è scelto di lasciarli nell’ordine in cui sono andati in onda, anche se questo non risponde a schemi rigorosi ma segue "logiche" diverse che si intrecciano, anche se poi nella versione ipertestuale abbiamo cercato di raggrupparli in sette “capitoli” per facilitare la ricerca. Si è anche preferito non alterare il tono colloquiale della comunicazione radiofonica. Sono stati tolti, perché ripetitivi, i saluti iniziali (Good evening, ladies and gentlemen!) e le frasi di congedo, con la restituzione della linea al conduttore del programma. Per il resto, solo lievi ritocchi sia per togliere ciò che deve essere detto all’ascoltatore ma il lettore vede benissimo (come l’ortografia delle parole), sia per aggiungere ciò che l’ascoltatore sente ma il lettore non percepisce — pronuncia, intonazione, accento e simili. Per una resa esatta della pronuncia inglese è necessario usare l’alfabeto fonetico, ma siccome può risultare ostico a molti e presenta difficoltà nel trasporre a video i simboli, ci si è accontentati di una trascrizione molto approssimativa. Alcuni riferimenti sono alla tabella “I suoni dell’inglese”, sempre accessibile dalla colonna sulla destra.

    I riferimenti alle date vanno riportati all'epoca: per "questo secolo" si intende il XX (il "secolo scorso" è quindi il XIX e noi ci troviamo a leggere queste cose nel "secolo venturo" e addirittura nel millennio successivo). Alcuni fatti di cronaca, anche clamorosi, sono stati quasi del tutto dimenticati. Con tutto ciò ho ritenuto che i contenuti siano tuttora validi: aggiungerò numerosi aggiornamenti in altre pagine, ma in queste ci sono riflessioni e notizie sull'inglese che non hanno perso di attualità.

    I titoli delle conversazioni sono stati attribuiti in seguito, al momento della redazione di questo testo, e non sempre danno conto dei vari temi che si snodano all’interno di ciascuna trasmissione. Possono servire comunque (si spera) come chiave di lettura e di identificazione dei brani.

    Pur con questi limiti, i testi qui raccolti possono soddisfare qualche curiosità e chiarire qualche dubbio; soprattutto, possono aiutare a riflettere sulla nostra lingua — l’italiano sempre più massicciamente invaso dagli anglicismi — e sul linguaggio in generale. Che se poi suscitassero qualche ulteriore curiosità e stimolassero qualcuno ad accostarsi con serenità allo studio delle lingue, queste pagine raggiungerebbero uno scopo che va ben al di là delle loro modeste ambizioni.

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    Introduzione

    Buonasera e benvenuti a questa nuova rubrica, che ha per argomento la lingua inglese. Quell’inglese che ormai troviamo un po’ dappertutto, sui giornali e nelle insegne dei negozi, alla radio, alla TV e nei discorsi di ogni giorno. Sarà l’occasione forse per scoprire qualcosa di nuovo, ma molto di più per accorgerci di quanto ci sta succedendo attorno, sempre più spesso, mentre parliamo o in giro per le strade.

    Se vorrete seguirci, faremo dei percorsi all’interno della lingua inglese — a volte, come stasera, sarà un parola a darci lo spunto, altre volte un argomento di pronuncia, di grammatica o qualche aspetto della cultura di lingua inglese (ma non preoccupatevi, non ci sarà assolutamente niente di complicato). E se avete delle domande o delle curiosità, cercheremo di darvi una risposta.

    WELFARE

    Cominciamo da una parola di attualità, welfare. Etimologicamente viene da well, bene, e fare, che ha vari significati: un tempo era soprattutto un verbo, col significato di viaggiare, andare; oggi è soprattutto un nome che indica la tariffa, il costo del viaggio. Originariamente, quindi, welfare è il ben viaggiare; poi nel corso dei secoli ha significato il buon andamento della società che è fonte di benessere. Quando nel 1945 il governo laburista lanciò il programma di assistenza statale "dalla culla alla tomba" a questo sistema venne dato il nome di welfare state. Ed è soprattutto in questa fase storica che la parola comincia a essere conosciuta e usata anche da noi.

    Questa però non è la fine della storia: soprattutto negli Stati Uniti, to be on welfare significa essere a carico dell’assistenza pubblica perché si ha un reddito troppo basso; chi è al di sotto di una certa soglia ha diritto a una negative tax, a una tassa in negativo in cui si riceve denaro invece di pagare i tributi. In questo caso, welfare non è quindi sinonimo di BENessere ma semmai di MALessere, soprattutto in un paese come gli Stati Uniti in cui troppo spesso il valore delle persone si misura in dollari e in cui non contribuire al bene comune, attraverso le tasse, significa essere cittadini di seconda categoria: è una condizione di vita in cui il disagio psicologico si aggiunge a quello materiale. Conclusioni: non traduciamo welfare con "benessere" ma semmai con "previdenza" e "assistenza," soprattutto assistenza verso coloro che di benessere ne hanno meno degli altri.

    E magari diciamo pane al pane, pensione alla pensione e sanità alla sanità.

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    ROLLING STONES & BEATLES

    Questa sera parliamo dei Rolling Stones, o meglio del loro nome che vuol dire...? "Lo sanno tutti! Pietre rotolanti!" Sì, ma vi siete mai chiesti perché proprio quella strana espressione? Non c’è per caso dietro qualcos’altro? Dietro c’è un proverbio, conosciuto da tutti gli inglesi, che dice che A rolling stone gathers no moss — letteralmente, "una pietra che rotola non raccoglie muschio." L’immagine è quella delle pietraie che finché sono mobili restano prive di vegetazione, come ne vediamo tante anche sulle nostre montagne.

    Il proverbio è tradizionalmente rivolto a quei giovani che "rotolando," per così dire, da un mestiere all’altro, senza la costanza di radicarsi in qualche seria occupazione, si trovano poi a non avere raccolto nulla nella loro vita. E’ l’invito a fare una scelta di vita stabile e costruttiva.

    Visto invece dalla parte di un giovane, essere un rolling stone significa rifiutare il sistema che vuole inquadrarti, che vuole fissarti in un luogo e in un ruolo, che vuole limitare la libera espressione della tua creatività perché questa fa di te una persona imprevedibile e improduttiva — almeno secondo una certa visuale. Chi conosce i brani del repertorio dei Rolling Stones può quindi scoprire il legame tra alcuni dei temi ricorrenti e il nome del gruppo.

    Notiamo per inciso che se i proverbi sono la saggezza dei popoli, non tutti i popoli hanno lo stesso patrimonio di saggezza. Qui abbiamo trovato un proverbio che non ha un equivalente diretto nella nostra lingua; ne troveremo altri che presentano delle variazioni interessanti rispetto a quelli italiani.

    Abbiamo parlato di Rolling Stones: e i Beatles? Anche questa parola è interessante. Gli scarafaggi c’entrano sì, ma solo in piccola parte: c’è molto di più. La parola beetles che significa "scarafaggi" si scrive infatti con due e; la sua pronuncia è identica al nome del complesso — è lo stesso caso di sea "mare" e see "vedere." Allora si tratta di scarafaggi beat, e questa è una parola ricca di significati: c’è dentro il battere ritmato tipico di quel genere musicale e la beat generation dei poeti americani del movimento hippy, con i loro seguaci in tutto il mondo. Nella parola beatles c’è quindi il richiamo all’aspetto fisico (oggi si ama dire il look) dei cantanti, il riferimento alla loro musica e a una certa filosofia di vita.

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    Il punto sui numerali

    Una delle frequenze su cui qualcuno ci sta ascoltando è 99.5 (per qualcun altro è 95.0, e così via) — ma perché "punto" quando in italiano si è sempre adoperata la virgola per dividere il numero intero dai decimali? Perché sempre più di frequente, senza che ce ne accorgiamo, adottiamo il sistema inglese, in cui avviene il contrario: si usa il decimal point per i decimali, mentre la virgola separa i gruppi delle migliaia, dei milioni, ecc.

    Già che ci siamo, vediamo qualche altra curiosità che riguarda i numeri inglesi. Il nostro “Grazie mille” è thanks a million (letteralmente, grazie un milione) — e poi dicono che siamo noi italiani quelli che esagerano, che parlano per iperboli...

    A proposito di million, qualcuno ricorderà il film con Marylin Monroe How to marry a millionaire. Il titolo è stato tradotto letteralmente "Come sposare un milionario," ma se uno è un milionario in dollari (o, ancor di più, in sterline) in realtà è un miliardario in lire; e oggi come oggi, che perfino il sottoscritto è milionario quando prende lo stipendio a fine mese, bisogna dire "miliardario" quando si vuole parlare di un riccone. Una buona traduzione fa riferimento non alle parole in sé ma a quello che significano. (Questa frase risale al 1997 – con l’avvento dell’euro le cose sono cambiate e “milionario” torna ad essere sinonimo di “riccone”).

    Passando ad altro, ma sempre in tema di numeri: in italiano per dire la data cominciamo con il primo del mese, ma poi non andiamo avanti coerentemente con il secondo, il terzo, e così via ma diciamo il due, il tre, ecc. Invece in inglese tutti i giorni dal primo al trentunesimo sono detti con il numerale ordinale: Natale, Christmas Day, è il 25th (of) December (la preposizione of non si scrive ma si dice). E intanto che parliamo di date, facciamo attenzione a quelle espresse solo in numeri: soprattutto negli Stati Uniti si usa mettere il mese prima del giorno, per cui l’ 11/08/97 non è l’undici agosto, ma l’otto novembre. Date come il tre marzo, il quattro aprile ecc. ovviamente non creano problemi, così come non sono ambigue quelle in cui il giorno ha un numero dal tredici in su: 12/25 o 25/12 sempre Natale è; se le date sono lontane nell’anno, come il 6/12 e il 12/6, è facile accorgersi del problema, ma se le date sono vicine come il 3/2 e il 2/3 ci si confonde facilmente, specialmente se ci "aiuta" (si fa per dire) la lentezza del servizio postale.

    Continuate ad ascoltarci su ninety-nine point five o qualunque sia la nostra frequenza dove vi trovate. Anche se, di questo passo, forse le nuove generazioni finiranno col dire che il valore del pi greco è uguale a tre punto quattordici.

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    MASS MEDIA e genere dei nomi

    Quando con il direttore del Circuito Marconi si è discusso della possibilità di una rubrica sull’inglese, si è parlato del target e poi di altri aspetti come lo share e la audience. Tutti termini tecnici inglesi di cui il mondo delle comunicazioni sociali non riesce più a fare a meno. Le stesse comunicazioni sociali sono dette comunemente mass media, con un’espressione in cui l’inglese si mischia al latino.

    Sì, ma perché tre vocaboli che nella lingua originale sono di genere neutro sono diventati due maschili e uno femminile? Il target è, letteralmente, il “bersaglio” ossia il pubblico dei destinatari, l’uditorio a cui ci si rivolge preferenzialmente: bersaglio, pubblico e uditorio sono maschili e questo può spiegare il target; ma perché la audience, visto che non è l’udienza ma ancora l’uditorio, il pubblico? Se si seguisse la stessa logica, dovrebbe essere anche questa una parola maschile in italiano; e infine lo share, che è la quota, la porzione, la percentuale del pubblico che sceglie un certo programma, dovrebbe essere femminile.

    Il problema è vecchio; un prestito come tunnel l’abbiamo assimilato pronunciandolo all’italiana e usandolo al maschile; di nuovo, perché il tunnel è maschio mentre la galleria è femmina? C’è comunque anche un’altra parola italiana, usata come sinonimo di "galleria," cioè il "traforo," che è maschile e questo ci dice che da noi, dato che manca il neutro, la scelta del genere è alquanto arbitraria.

    Prendiamo poi l’esempio dei VIP, le Very Important Persons. Se ci avete fatto caso, ho detto i VIP al maschile e le Very Important Persons al femminile; quest’ultimo uso si spiega facilmente perché in italiano la parola persona è di genere femminile; ma i VIP?

    Forse perché nel mondo, anche nelle società più evolute, molti VIP, ad esempio della politica, sono maschi; e forse perché nella nostra lingua tradizionalmente il maschile si usa per indicare uomini e donne assieme. Questo ci porterebbe sul discorso del sessismo nella lingua, che per quanto riguarda l’inglese affronteremo un’altra sera.

    Se qualcuno degli ascoltatori ha una risposta valida sui motivi per cui certe parole inglesi hanno assunto il genere che hanno in italiano, sarà interessante conoscerla. Per conto mio, ho sempre protestato perché in italiano il vizio è maschile e la virtù è femminile. Grammaticalmente sarà anche giusto, ma per il resto la cosa mi lascia molto perplesso.

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    1300 ospiti stranieri

    Una raccolta di parole e espressioni inglesi usate in italiano, e limitata a quelle che sono comparse sulla stampa non specialistica o si ascoltano alla radio e alla televisione, ne ha registrate oltre 1300 e sicuramente non è completa perché ogni giorno ne entra qualcun’altra. Sarebbero poi state molte di più se si fossero inclusi termini specialistici noti solo a chi opera in determinati settori. Molte di quelle parole inglesi si usano soltanto nei testi scritti, ma tante altre entrano nella lingua parlata. Che cosa succede alla loro pronuncia?

    Alcune parole, quelle entrate nella nostra lingua da più tempo, vengono dette come se fossero parole italiane: è il caso di "film, tram, quiz, sport, tunnel," ecc. Altre vengono adattate, nel senso che si usano i suoni italiani più simili a quelli originali; se prendiamo il caso di night-club, né il dittongo [ai] né la vocale [a] corrispondono esattamente ai suoni inglesi, ma ne rappresentano una discreta approssimazione. In Touring la [u] italiana non è il dittongo inglese e da noi si pronuncia la [g] finale che in inglese non c’è.

    Sono interessanti e qualche volta divertenti le parole che hanno una pronuncia italiana che non segue nessuno dei due criteri: recital [rèsital] non è né "recital" all’italiana, né l’imitazione della pronuncia inglese [risàitl]. Altri ibridi li troviamo con le parole pronunciate più o meno all’inglese e le lettere pronunciate all’italiana: X-Files, pay-TV. K-way è un caso a parte perché [ki] non è né la pronuncia inglese né la pronuncia italiana della lettera K. Oppure con le parole composte, pronunciate per metà all’italiana e per metà all’inglese (più o meno): [guardreil] per il guardrail non è né [gardreil] all’inglese né [guardrail] all’italiana.

    Molti errori derivano dal fatto che l’accento viene messo sulla sillaba sbagliata e questo scombina tutte le vocali; è il caso, ad esempio, di management, di continental e di processor (la sillaba con l’accento sbagliato è sottolineata).

    Quando parliamo tra italiani, sarà bene che usiamo la pronuncia corrente tra di noi, a meno che vogliamo fare gli snob (e snob è, vedi caso, una parola inglese); teniamo però presente che quando vogliamo parlare l’inglese vero e farci capire senza problemi dalle persone di madrelingua, dobbiamo sapere qual è la corretta pronuncia di quelle parole.

    Per esempio, i tifosi italiani del Milan continueranno a dire Mìlan; ma sappiano che gli inglesi di fede rossonera (e ce ne sono, specie tra i giovani) dicono A. C. Milan [ei si milèn], e che un milanese che dichiara la propria origine deve dire I’m from Milan, con l’accento giusto.

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    Calcio o Football?

    In una precedente trasmissione ho accennato alla squadra di calcio del Milan, che ha questo nome perché è stata fondata da inglesi verso la fine dell’Ottocento come Milan Cricket And Football Club. Poi del cricket non ne abbiamo voluto sapere, perché è un gioco che non soddisfa il nostro temperamento latino, mentre il calcio è diventato lo sport nazionale, il fenomeno di massa, più o meno discutibile, che sappiamo. Un caso analogo a quello di Milano si è verificato a Genova: anche lì la squadra di calcio più antica porta il nome inglese della città, Genoa.

    Non abbiamo il tempo di passare in rassegna tutti i nomi geografici italiani che hanno la traduzione in inglese — lo faremo una prossima volta. Questa sera restiamo nel mondo dello sport e soprattutto del calcio che a causa di queste origini britanniche è pieno di parole inglesi. Mister è un modo frequente di chiamare il trainer, ossia l’allenatore — ma è bene sapere che la parola mister normalmente va usata in inglese solo se è seguita dal cognome della persona a cui ci rivolgiamo: Mister Brown, altrimenti può essere molto scortese. Proprio perché si usa col cognome (o col nome e cognome) di solito la si abbrevia in Mr.

    Corner in inglese è l’angolo, non il calcio d’angolo che si chiama corner-kick. Lo facciamo spesso, questo di abbreviare un nome composto inglese usando solo la prima parte — per esempio, diciamo touring e night sottintendendo club: però è bene tener presente che in inglese basket è solo il cesto, mentre lo sport si chiama basketball. Lo stesso vale per la pallavolo, o volleyball. Se si accentuerà la mania delle abbreviazioni, prima o poi troveremo chi dice foot e base per football e baseball.

    Una delle parole che abbiamo assimilato e naturalizzato, cambiando grafia e pronuncia, è goal che è diventata "gol." L’inglese goal significa "meta, destinazione da raggiungere," anche al di fuori del linguaggio sportivo. Curiosamente, nel rugby il nome dello sport è rimasto inglese — è il nome di una città britannica e del college dove lo sport è nato — mentre il nome del punto è stato tradotto: nel calcio si segna un gol, nel rugby si segna una meta.

    Ancora una volta, un esito irregolare e imprevisto; ancora una volta, chi crede che imparare una lingua straniera sia essenzialmente una questione di regole commette un grosso errore di prospettiva. A meno che non si intenda dire che tutto è perfettamente regolare: ogni parola, una regola...

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    Al plurale ci vuole la S; o no?

    Una questione che si pone spesso riguarda il plurale delle parole inglesi. Cominciamo con l’osservare che nessuno dice che sulla Milano-Genova ci sono molti tunnels, che ha preso due trams per arrivare in centro o che un certo chirurgo è molto bravo a fare i by-passes alle coronarie. Le parole italiane che terminano per consonante, tra cui quelle di origine straniera, sono di regola invariabili: il gas i gas, un film tanti film.

    Se no dovremmo conoscere una quantità di regole di lingue diverse: per esempio, il plurale di kibbutz, parola ebraica, è kibbutzim e il plurale di Land (parola tedesca che indica ognuno degli stati della repubblica federale) è Laender. Dovremmo anche sapere che murales è un plurale (spagnolo, non inglese), e quindi al singolare dovremmo dire un mural.

    Invece, si registra una tendenza anzitutto a trattare tutte le parole straniere come se fossero inglesi: ad esempio, un periodo di formazione in azienda o all’estero è uno stage (parola francese, che nella pronuncia fa rima con garage) e non uno stage [steig’] (questa è una parola inglese che esiste ma ha solo altri significati); e poi si vedono, soprattutto nello scritto, molte esse del plurale, alcune delle quali non rispettano nemmeno le regole di ortografia dell’inglese. Un locale in una località di mare reclamizzava uno spettacolo di *quizes, con una z sola invece di due.

    Qualche tempo fa gli errori di ortografia erano ancora più frequenti: ad esempio, un rally automobilistico si scrive con y finale al singolare, che diventa -ies al plurale; questo vale per tutte le parole che terminano per y preceduta da una consonante. Sui giornali e altrove si trovava invece rallye o rallie per il singolare e rallys per il plurale. Ci sono poi parole come cameraman che al plurale si scrivono con la e invece della a come penultima lettera, perché il plurale di man "uomo" è men. Ma lasciamo stare la grammatica inglese e torniamo all’uso in italiano.

    Se su una vetrina compare la scritta Videogame, nessuno pensa che quel negozio ne venda uno solo; l’aggiunta della -s sarebbe corretta ma del tutto superflua, dato il contesto — così come nessuno penserebbe mai che uno spettacolo di quiz preveda un solo quesito. Per questo sono fermamente convinto che sia meglio togliere tutte le -s e, se proprio occorre, chiarire in altro modo che si tratta del plurale. Altrimenti si scatena la fantasia, e mi capiterà ancora di sentir dire che dovremmo scrivere FERMATA AUTOBUSES — ma solo se passa più di una linea.

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    Prestiti stranieri e falsi amici

    Sabato 7 dicembre 1991, ricordando il cinquantenario dell'attacco giapponese a Pearl Harbor, un importante giornale milanese pubblicava una carta dell'isola di Oahu, nelle Hawaii. La carta indicava la posizione di Honolulu, della stessa Pearl Harbor e di una serie di obiettivi militari, tra cui le "Baracche Schofield." Nessuno in redazione si è chiesto come mai delle baracche avessero un nome e costituissero un obiettivo militare. Per avere la risposta sarebbe bastato consultare qualsiasi dizionario, da cui si ricava che barracks significa "caserma," ma forse la pseudoconoscenza dell'inglese da cui molti sono affetti fa perdere l'umiltà che porta ad effettuare alcuni semplici controlli.

    Ora, il fenomeno dei cosiddetti "falsi amici," ossia delle parole che assomigliano ma vogliono dire altro, è diffuso in tutte le lingue e dovrebbe essere noto. Ci sono casi in cui la parola straniera non ha mai il significato di quella italiana che le somiglia — così è per barracks e anche, ad esempio, per morbid che vuol dire "morboso" (e mai, assolutamente, "morbido"); in altri casi la parola straniera ha vari significati che solo in parte coincidono con il termine italiano più simile.

    Soprattutto nel doppiaggio dei filmati chi sa l’inglese trova errori di questo genere: "Mamma, c’è uno straniero alla porta." Il bambino che ha aperto la porta e si è sentito rivolgere la parola nella sua lingua come può sapere se lo sconosciuto è uno straniero? E infatti stranger non è lo straniero (che è invece un foreigner) ma l’estraneo, lo sconosciuto, il forestiero che magari abita a poche miglia di distanza, nella stessa contea — è il caso del dialogo di un film western: "Da dove vieni, straniero?" "Dalla città dietro la collina."

    Un altro esempio: la mamma rimprovera un ragazzo perché ha dato uno schiaffo al fratellino e lui, per giustificarsi, risponde "Lui mi ha abusato." Chi non sa che abuse vuol dire "insultare" e non ha seguito bene la scena può avere l’impressione che sia successo qualcosa di molto più grave che non uno scambio di parole non proprio gentili.

    Molte agenzie di doppiaggio sono più attente al movimento delle labbra che non al significato delle parole; se anche in Italia avessimo i sottotitoli, come in molti altri paesi, probabilmente migliorerebbe la nostra capacità di comprendere le lingue straniere e, in seguito, di parlarle. Vocaboli che ora sono falsi amici potrebbero trasformarsi in amici veri, nel senso che sapremmo come trattarli per andare d’accordo.

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    AUTHORITY e autorevolezza

    Succede sempre più di frequente che per rispondere a esigenze di gestione o di controllo di attività pubbliche si chieda l’istituzione di una *[autòriti] (è così che viene spesso pronunciata la parola inglese authority — e in quanto all’ortografia, ho visto tutte le varianti immaginabili anche in quotidiani che si ritengono prestigiosi: quella corretta ha una h dopo la prima t e una y finale, che diventa -ies al plurale). A parte che in italiano abbiamo termini come Magistrato (usato, per esempio, per il Magistrato del Po che sovrintende al bacino del fiume) oppure Alta Autorità, che andrebbero benissimo, quello che sfugge è che molte authorities inglesi sono semplicemente degli Enti: la Port of London Authority, le cui iniziali P.L.A. spiccano sugli imbarcaderi del Tamigi e si vedono in tante cartoline, non è altro che l'Ente del Porto di Londra: l'idea astratta di autorità e autorevolezza è completamente assente, assorbita da quella di "organismo di gestione."

    Il guaio è che dopo aver tanto tuonato contro gli enti inutili (anche se poi non ne sono stati eliminati molti) e aver scoperto in altri enti le grosse corruzioni e inefficienze che sappiamo, nessuno osa più proporre di costituire un nuovo ente, nemmeno dove questa è la cosa più logica e utile, a volte indispensabile. Si ricorre all’inglese per quel tanto di prestigio che questa lingua porta con sé (almeno per adesso), ma certi mascheramenti non servono a nessuno. Di autorità e di autorevolezza c’è tanto bisogno e più chiaro lo si dice, meglio potrà andare la cosa pubblica. Ma le *autority, di per sé, non garantiscono nulla e nascono nel segno di un’ambiguità linguistica.

    Nel privato, comunque, le cose non vanno molto meglio e vediamo un po’ le stesse forme di snobismo linguistico. Ci sono ditte che al massimo "esportano" dalla Brianza al Varesotto o dalla Lomellina alla Bassa bergamasca, e però non hanno più il Capo ufficio vendite: il rag. Brambilla, che da una vita fa quel mestiere, adesso è stato promosso, almeno a parole, Sales Manager e naturalmente il suo collega Carugati, agli acquisti, è il Buyer della ditta; se protestate, vi dicono che ormai questo è il trend (non diranno mai "tendenza" o "orientamento," per paura di screditarsi e di perdere il posto): non più "dirigenti" ma executives o top managers, non più "distribuzione" ma marketing, non più bilancio ma budget, e via elencando. Perché insomma, volete mettere? In inglese, è tutta un’altra cosa. O no?

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    Di città in città

    Qualche sera fa si diceva del nome inglese di Milano, Milan. In tutte le lingue si usa tradurre i nomi delle capitali (noi abbiamo Londra, Dublino e Edimburgo per London, Dublin e Edinburgh) e un paese come l’Italia che prima dell’unità aveva tanti stati e tante capitali ha il primato delle forme in inglese dei nomi delle città: Rome, Naples, Turin, Venice, Florence, Genoa, Mantua; altre città devono il nome inglese o al grande prestigio dell’università, come Padua, o all’importanza dei traffici commerciali: la forma Leghorn è così antica e trasformata che a prima vista si fa molta fatica a riconoscere Livorno. Una capitale come Parma ha un nome facile per gli inglesi, che non l’hanno modificato e si sono limitati ad aggiungere l’aggettivo Parmesan, che oggi si riferisce quasi esclusivamente al formaggio.

    Anche tra le regioni troviamo nomi anglicizzati, o perché ex-stati, come Piedmont, Lombardy, Tuscany, Venetia, o per altri motivi storici, come Latium, o geografici come per le isole maggiori, Sicily e Sardinia. Naturalmente, come per il Kingdom of Sardinia, ragioni storiche e geografiche possono sommarsi. Altri nomi geografici sono The Alps e The Tiber — e del resto anche noi a nostra volta abbiamo italianizzato i nomi di regioni e di arcipelaghi (Gran Bretagna, Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda, Cornovaglia, Isole del Canale, Ebridi e Orcadi), chiamiamo Manica quel tratto di mare che i francesi chiamano la Manche e gli inglesi English Channel, e ricambiamo con i Monti Pennini e Grampiani, e con il Tamigi, il fiume della capitale.

    Fin qui niente di particolare, solo dati di fatto. Dove la faccenda della traduzione dei nomi comincia a essere interessante è con i nomi dei sovrani e dei personaggi famosi. La regina d’Inghilterra la chiamiamo Elisabetta, non Elizabeth, il marito è Filippo, non Philip, e i figli sono Carlo, Andrea, Edoardo e Anna; basta però essere la sorella della regina per essere Margaret e non Margherita. Per ora, i figli di Carlo li chiamiamo William e Henry, ma se il primo regnerà, ci verrà più naturale chiamarlo Guglielmo V d’Inghilterra o re William V? Fino a qualche tempo fa non ci sarebbero stati dubbi sul fatto di tradurre i nomi dei re — nessuno ha chiamato re Baudoin re Baldovino del Belgio; e gli altri quattro re inglesi di nome William sono sempre stati chiamati Guglielmo — da Guglielmo il Conquistatore fino a Guglielmo IV, zio e predecessore della regina Vittoria; adesso le cose stanno cambiando e il re di Spagna viene chiamato Juan Carlos e non Giovanni Carlo.

    La prossima volta parleremo della traduzione in inglese dei nomi dei nostri re e dei papi, e anche di alcuni personaggi famosi del passato il cui nome è stato tradotto.

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    I nomi dei personaggi celebri

    In alcune città d’Italia, tra cui Milano, c’è una via intitolata a Edoardo Jenner. Si tratta in realtà di Edward Jenner, (pronunciato [gèna]) lo scopritore della vaccinazione antivaiolosa, vissuto in Inghilterra dal 1749 al 1823. Cito queste date perché non è comune che si traducano i nomi di personaggi relativamente vicini a noi. La cosa era normale in epoche precedenti. I filosofi Roger Bacon, del XIII secolo, e Francis Bacon, che visse a cavallo tra il 5 e il 600, noi li chiamiamo Ruggero e Francesco Bacone — e meno male che non abbiamo tradotto davvero bacon, che come sappiamo è la pancetta affumicata.

    Un altro personaggio inglese con il nome italianizzato è St. Thomas More, il santo noto da noi come Tommaso Moro. L’altro grande santo inglese di nome Thomas lo chiamiamo Tommaso Becket — è l’arcivescovo di Canterbury vittima dell’assassinio nella cattedrale. La traduzione del solo nome di battesimo è frequente; in molti libri leggiamo di Isacco Newton e Beniamino Franklin anche se i loro nomi erano Isaac e Benjamin.

    Anche alcuni grandi italiani vengono chiamati dagli inglesi con un nome tradotto. Tra questi il Petrarca (Petrarch), che è stato un personaggio-chiave della cultura europea del suo tempo; il sonetto petrarchesco (Petrarchan sonnet) ha avuto molti seguaci ovunque e alcuni inglesi, come Milton, ne hanno scritti di bellissimi in italiano. Citiamo poi Michael Angelo (Michelangelo) e Raphael; tra i navigatori, personaggi notissimi in epoca rinascimentale, hanno un nome inglese John and Sebastian Cabot, tra i primi esploratori del Canada, e Christopher Columbus — da lui prende nome il Columbus Day, la festa del 12 ottobre celebrata dagli Italiani d’America — e anche una clinica privata fondata da americani residenti a Milano — che quelli della mia età hanno sempre chiamato Columbus all’italiana ma che adesso qualcuno comincia a chiamare con la pronuncia inglese (o quasi).

    La terminazione in -us non è casuale: in un’epoca in cui il latino dominava la scena come lingua internazionale e molti documenti, comprese le lettere, erano scritti in tale lingua, molti personaggi finivano per essere noti internazionalmente con la forma latinizzata del loro nome: Aretinus (Guido d’Arezzo), Comenius (Jan Amos Komensky — Comenio), Copernicus (Mikolay Kopernik), Nostradamus (Michel de Notredame), Paracelsus (Philip von Hohenheim) e tanti altri (Duns Scotus, Socinus).

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    La chiave del cancello

    Ci sono parole che uno impara in un determinato contesto e che quindi associa a un determinato significato, ma che hanno anche altri significati, magari anche più importanti e frequenti di quello che conosciamo. Una di queste è gate, che è il cancelletto che, nelle case inglesi, permette di passare dalla strada al giardino che tipicamente si trova davanti alla casa stessa. In inglese, però, gate è anche sia il portone d’ingresso di palazzi e chiese, sia la porta della città. Nella City di Londra c’è Bishopgate, che è la porta orientale, e la cosa curiosa è che anche a Verona c’è una Porta Vescovo che si trova a oriente del centro.

    Un film di qualche anno fa si intitolava The Gates Of Heaven ed è stato tradotto "I Cancelli del Cielo," quando da noi la Ianua Coeli, che troviamo anche nelle litanie della Madonna, è sempre stata la Porta del Cielo. Gate è anche la porta d’imbarco in un aeroporto, che non è quasi mai un cancello per motivi sia di temperatura che di rumore.

    Superato il cancello e attraversato il giardino si arriva alla porta di casa, che come tutti gli usci si chiama door e non gate, e per aprirlo ci vuole la chiave — in inglese key. Questa parola ha però un altro significato, molto più importante per chi usa il computer o suona il pianoforte o qualsiasi altro strumento che abbia una tastiera: key è il tasto, e la tastiera, di qualsiasi tipo, si chiama keyboard.

    Abbiamo quindi visto una parola italiana a cui ne corrispondono due inglesi, door e gate per "porta," e una parola inglese a cui ne corrispondono due italiane, "tasto" e "chiave" per key. Si possono dare innumerevoli altri esempi, ma questi ci bastano per osservare che le diverse lingue non sono etichette diverse messe sugli stessi oggetti, ma modi diversi di vedere la realtà. Se non si capisce e non si accetta questo, non si potranno mai imparare le lingue. A noi può restare inconcepibile che la chiave e il tasto si chiamino allo stesso modo, così come un inglese può restare sconcertato per il fatto che noi non distinguiamo l’uscio di casa dall’ingresso di una città, e usiamo la stessa parola in "porta blindata" e "Porta Magenta."

    Abituare la mente a questa ginnastica, a scoprire nuovi rapporti tra parole e cose, serve ad avere una visione più libera e creativa della realtà. Ascoltatori del Circuito Marconi, lo sapevate che la mamma di Guglielmo Marconi era irlandese e che lui era bilingue sin da piccolo? Non è garantito che essere bilingui basti per diventare dei geni, ma molti studi dicono che aiuta a sviluppare la mente.

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    Varietà di inglese

    Mi è stato chiesto di chiarire i rapporti tra inglese britannico e inglese americano. Il discorso è lungo, per certi aspetti complesso, ma cercherò di dire alcune cose essenziali senza annoiarvi troppo. Anzitutto, un dato elementare che però a qualcuno sfugge: le lingue non corrispondono alle nazioni. Nessuno parla svizzero, belga, austriaco o canadese — se si lasciano perdere i dialetti locali. A Lugano parlano italiano, a Berna, Zurigo e Vienna si scrive, parla e studia il tedesco, a Ginevra, Québec e Bruxelles il francese, ma molti a Bruxelles e nel nord del Belgio parlano fiammingo.

    Negli Stati Uniti d’America si parla inglese. La materia scolastica che corrisponde al nostro italiano si chiama inglese — basta controllare gli orari e i diari scolastici di qualunque scolaro; e così via fino ai dipartimenti universitari di lingua e letteratura inglese. Nella maggior parte dei casi è difficilissimo, anche per una persona di madrelingua inglese, stabilire se un certo testo sia stato scritto da un britannico o da un americano (o magari da un australiano, da un neozelandese, da un irlandese, ecc.). Ci sono alcune differenze di ortografia, ma queste ci dicono piuttosto dove quel testo è stato stampato, non la nazionalità di chi l’ha scritto.

    La situazione è analoga da noi; se un testo è in buon italiano, difficilmente capiamo se chi l’ha scritto è piemontese o pugliese, veneto o siciliano. Le differenze si notano nel parlato; anche chi parla correttamente lascia spesso trasparire la sua origine settentrionale o meridionale, e a volte anche qualche inflessione regionale. C’è chi dice béne e chi dice bène, chi dice chiuso con la esse di "sera" e chi lo dice con la esse di "rosa," ma non c’è bisogno di interprete, se Bertinotti e Leoluca Orlando, o Martinazzoli e Buttiglione, vogliono capirsi.

    Lo stesso avviene con l’inglese: se qualcuno dice everybody con una [a] invece di una [ò] nella penultima sillaba, vuol dire che probabilmente è statunitense o canadese, ma Clinton non ha bisogno di interpreti per parlare con Tony Blair, né con qualunque persona colta di qualsiasi paese di lingua inglese.

    Da noi, in alcune regioni si usa molto l’avverbio molto, e in altre regioni si usa assai l’avverbio assai; andando a lavorare a Bari ho scoperto vocaboli tipici del territorio, come "grave" e "gravina," o degli usi locali, come le orecchiette e le zeppole (ottime entrambe). Da noi si usa pochissimo il passato remoto ("andai, dissi" ecc.), da Bologna in giù molto di più. Allo stesso modo ci sono usi locali nelle varie parti del mondo di lingua inglese che danno luogo a forme un po’ diverse, ma non così diverse da permetterci di dire che si tratta di lingue differenti. Di fronte a poche decine di casi come la parola per "ascensore," lift in Inghilterra e elevator negli Stati Uniti, ci sono decine di migliaia di parole assolutamente identiche. Ma del resto ho scoperto che a Lugano l’imbarcadero del battello si chiama "debarcadero." Basta questo per dire che non parlano italiano?

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    Proverbi e (forse) saggezza

    Parlando dei Rolling Stones in una delle prime trasmissioni ho detto che il nome del complesso viene da un proverbio che in italiano non abbiamo, A rolling stone gathers no moss ("pietra che rotola non raccoglie muschio") e commentandolo avevo detto che forse i proverbi sono la saggezza dei popoli, ma di sicuro non tutti i popoli hanno lo stesso patrimonio di saggezza popolare; avevo anche promesso altri esempi. Eccoli:

    da noi, una rondine non fa primavera e in inglese A swallow does not make a summer cioè non fa un’estate — cosa che si spiega benissimo dato il loro clima.

    Sempre col tempo e il clima ha a che fare Happy the bride that the sun shines on ("felice la sposa su cui splende il sole"), che è l’esatto contrario del nostro "Sposa bagnata, sposa fortunata." Che in Inghilterra piova durante un matrimonio fa parte della normalità delle cose, e quindi non può essere presagio di buona fortuna. Una bella giornata di sole — quella sì che è rara, come un quadrifoglio rispetto a un trifoglio.

    In qualche caso troviamo i riferimenti al vecchio sistema di pesi e misure: An ounce of luck is better than a pound of wisdom — un’oncia di fortuna è meglio di una libbra di saggezza — ove un’oncia era la sedicesima parte della libbra, rispettivamente 28 e 453 grammi. C’è anche la versione sanitaria An ounce of prevention is better than a pound of cure (un’oncia di prevenzione è meglio di una libbra di cura).

    Nella stessa serie troviamo Give him an inch and he will take a yard — letteralmente "dagli un pollice (due centimetri e mezzo) e si prende una yarda (cm. 91,4)," ossia se gli dai un dito, si prende tutto il braccio. A proposito di pollici, se misurate la diagonale dello schermo del televisore e dividete per 2,5 potete sapere quanti sono i pollici effettivi.

    Ma vediamo qualche altro caso:

    Better bend than break ("meglio curvarsi che spezzarsi") è l’esatto contrario del nostro "Mi spezzo ma non mi piego" ed è una spia dell’arte del giungere a compromessi che, si dice o si diceva, è tipica degli inglesi. Un altro proverbio però dice Do what is right, come what may "Fai quel che è giusto, qualunque cosa succeda" — e non sembra gran che conciliabile con il precedente.

    E sarà poi vero che l’abito non fa il monaco? Per gli inglesi, Fine feathers make fine birds, un bel piumaggio rende belli gli uccelli.

    Possiamo solo concludere ricordando quel proverbio che dice di non credere ai proverbi — e ricordando che anche lui è un proverbio...

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    Un po’ di finto inglese

    Questa sera parliamo di alcune parole inglesi a cui noi italiani abbiamo cambiato significato. Per esempio il golf, che per gli inglesi è uno sport mentre da noi il più delle volte è un indumento, visto che lo sport da noi non è molto diffuso, se non nella versione minigolf (che in inglese si chiama miniature golf, golf in miniatura).

    Un nostro box per loro è un (private) garage; box, in inglese, è una scatola, una casella, sia la casella postale che la casella da barrare in un questionario; e poi l’area di rigore, la TV, il verbo che indica ciò che fa il pugilatore, varie altre cose... tranne il "box" dell’auto.

    Lo scotch, nel senso di nastro adesivo, si chiama sellotape; il nome usato da noi è quello di una particolare marca, una delle prime a comparire sul nostro mercato e quindi la parola "scotch" si dovrebbe usare solo per quel tipo lì, non per gli altri.

    Come indumento, in inglese SLIP indica la sottoveste — inoltre la parola indica un talloncino o una striscia di carta, il verbo scivolare e varie altre cose, ma i nostri "slip," quelli no.

    Water è l’acqua, da cui, per un eufemismo che risale all’800 vittoriano, abbiamo il water closet, lo sgabuzzino dell’acqua abbreviato in W. C. — questo termine gli inglesi non lo usano più, da noi ha perso la parte finale e ha cambiato la pronuncia della prima parte. E sorvoliamo sul cambiamento di significato.

    Il ticket è il biglietto, del treno, del cinema o della lotteria, la multa, o la lista dei candidati di un certo partito; non è il "ticket" che noi paghiamo in farmacia o in ambulatorio.

    Toast è il pane tostato, ingrediente normale di ogni breakfast, ed è anche il brindisi; da noi la parola, pronunciata [tòst], ha finito per indicare il tramezzino caldo fatto col pane carré.

    smoking è l’attività del fumare, e la smoking jacket era la giacca da fumo che in taluni ambienti i signori, terminato il pranzo e allontanate le signore, indossavano prima di accendere la pipa o il sigaro, per non impregnare di odore la giacca elegante. Questa si chiama dinner jacket e corrisponde a quello che noi chiamiamo "smoking."

    Concludiamo con una piccola consolazione: gli inglesi adoperano la parola confetti per quelli che noi chiamiamo i coriandoli. Non siamo solo noi a cambiare il significato delle parole quando le importiamo.

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    Non è lei, ma se assomiglia va bene

    Fino a qualche tempo fa, si parlava di “profughi”, a seguito di guerre, carestie e altre calamità, mentre oggi si parla di “rifugiati”. Malattie e incidenti “gravi” ora sono detti malattie e incidenti “seri” (peccato che non sia frequente il contrario, cioè malattie o incidenti “comici”). Sono due esempi di come sempre più spesso usiamo le parole italiane che assomigliano a certe parole inglesi, invece delle parole abituali. Questo si spiega, tra l’altro, con il gran tradurre che si fa dall’inglese, spesso con tanta fretta — per esempio nelle redazioni giornalistiche a partire da notizie di agenzia in inglese. In inglese, i profughi sono refugees, e serious è l’aggettivo che corrisponde a "grave" (oltre che a "serio").

    Non sempre ci si rende conto che diamo un nuovo significato alle parole che usiamo: chi invece di "rendersi conto" usa "realizzare" (da realize) aggiunge a questo verbo un valore che prima non aveva. Ultimamente si adopera “intrigare” e “intrigante” detto di qualche problema o argomento di studio, per dire che è “avvincente” e “appassionante” (è un calco di intriguing); in italiano, una persona intrigante è una che semina zizzania intromettendosi nelle questioni altrui.

    In un libro uscito da poco ho letto “triviale” nel senso di “futile, banale” (ossia dell’inglese trivial) e non nel senso consueto di “volgare” e “sconcio”; l’aggettivo inglese lo troviamo nel nome del gioco Trivial Pursuit che in effetti è una gara a inseguimento (pursuit) basata su nozioni più o meno irrilevanti, ma senza nulla di triviale in senso proprio.

    Un altro uso che continuo a ritenere scorretto è quello di compagnia invece di società; il corrispondente italiano della Edison Co. era la Società Edison, che nessuno ha mai chiamato "compagnia Edison"; oggi proliferano le "compagnie" di assicurazione e di ogni genere. Company è propriamente la società di capitali, distinta dalla partnership che è la società di persone.

    Può avvenire che un treno sia soppresso, per qualche motivo, ma se la stessa cosa avviene a un aereo il volo è "cancellato" e non soppresso, per via dell’inglese cancelled. Sempre sull’aereo, vi viene detto di mettere il bagaglio a mano sotto la poltrona di fronte a voi che in realtà è la poltrona davanti — è una cattiva traduzione di in front of you (di fronte si dice opposite ma è molto raro che in aereo ci siano posti che si fronteggiano).

    Le relazioni, nel senso di resoconti, ora spesso si chiamano "rapporti," sulla base di reports; in compenso i rapporti tra le persone tendono a chiamarsi "relazioni," da relations e relationships. Per inciso, la pronuncia corretta di report è [ripòrt], con l’accento sulla seconda sillaba sia quando è nome che quando è verbo – e in effetti reporter lo pronunciamo abbastanza correttamente, con l’accento sulla o.

    Stiamo rimodellando l’italiano sull’inglese — per sostituirlo? Spererei di no.

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    Democrazia linguistica

    Una sciocchezza che mi è capitato di sentir dire, più di una volta, è che l’inglese è una lingua democratica perché si dà del tu a tutti. Non so che cosa voglia dire "lingua democratica;" mi sembra un’espressione che o non ha senso o, se ce l’ha, è vago e discutibile. Di sicuro anche in lingua inglese ci sono tutti i modi per rivolgersi agli altri esprimendo deferenza, rispetto, familiarità, amicizia, cordialità, arroganza e così via. C’è tutta la gamma che va da Good morning, Your Majesty / Mr President (è bene saperlo, caso mai vi capitasse di salutare la regina o il Presidente Clinton) fino a hello, old man ("ciao, vecchio") e da excuse me, sir, fino a hey, mister.

    In quanto alla seconda parte della frase, semmai si dà del “voi” a tutti, anche rivolgendosi a una persona sola e indipendentemente dal fatto che i rapporti siano quelli tra familiari o tra estranei. Sappiamo che you è "voi" sia sulla base degli studi di storia della lingua — c’era un pronome di seconda persona singolare che ora non si usa se non in rari casi — sia osservando che la forma del verbo be che si usa con you è la stessa delle altre persone plurali (we are, you are, they are).

    In un film, la protagonista, tutta emozionata, torna a casa dopo una festa e racconta a sua sorella che "lui," l’uomo di cui era innamorata ma che pareva irraggiungibile, ha ballato con lei e a un certo punto "mi ha chiamata Margaret." Visto che quello è il suo nome, la frase può sembrare ovvia e banale. Il fatto è che prima l’aveva sempre chiamata Miss Johnson. Il senso vero è che "mi ha dato del tu" e in ogni commedia che si rispetti questo è l’inizio della fine.

    Se un conoscente, David Jones, a cui vi rivolgete chiamandolo Mr Jones vi dice call me David, vi dice "dammi del tu" e la risposta normale è I’m Frank o qualunque sia il nome con cui volete essere chiamati in inglese. Darsi del lei o del tu corrispondono quindi, nella maggior parte dei casi, a chiamarsi con il cognome o con il nome di battesimo. Dire che si conosce una persona on a first-name basis vuol dire che si è in confidenza con quella persona, noi diremmo appunto "ci diamo del tu."

    Tornando alla frase di partenza, la prima parte (l’inglese è una lingua democratica) è dubbia e la seconda (si dà del tu a tutti) è del tutto falsa; quindi il perché che le unisce non ha nessun senso. E magari sarà meglio che un aggettivo importante come "democratico" lo riserviamo a questioni più serie.

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    Non perdere la testa...

    Una delle cose che facciamo spesso alle parole inglesi quando le importiamo nella nostra lingua è di accorciarle, se sono parole composte, tenendoci solo la prima parte. Ne abbiamo già parlato a proposito di basketball e volleyball, che da noi sono il "basket" e il "volley," e del touring club e del night club che diventano il "Touring" e il "night." La cosa curiosa è che lasciamo via proprio la testa del composto, la parte che ci dice di che cosa stiamo parlando: il Touring è un’associazione, ossia un club, il basket è uno sport del pallone, ball, e così via.

    Altri casi del genere li troviamo: nel campeggio — camping-site diventa "camping;" in quella che una volta si chiamava la balera e oggi il "dancing" — in inglese una dance hall o dancing hall; e nel "bowling," per bowling alley. Le parole che terminano in -ing indicano l’attività, non il luogo. Troviamo questa desinenza in happening (da happen "accadere"), body-building, zapping e molte altre. In italiano quando usiamo un verbo come nome usiamo l’infinito, in inglese la forma in -ing: "leggere è istruttivo" reading is educational.

    Nel mondo del computer si parla di hard e soft intendendo hardware e software; ma hard può essere l’hard disk o la hard copy di un file; nell’inglese vero si rischia il corto circuito se non si dicono le parti essenziali delle parole composte.

    Una abbreviatura la troviamo anche in "beauty" invece di beauty-case. Se una chiede Where’s my beauty? gli inglesi possono capire che si sta domandando dove sia finita la sua bellezza — domanda profonda, filosofica e triste. Se invece chiede Where’s my case? la aiutano a trovare l’oggetto smarrito.

    In grammatica si dice che nei composti inglesi la parte finale è la testa, mentre quella che precede è il premodificatore: in weekend, end è la testa e week è il premodificatore; stiamo infatti parlando della fine di qualcosa (della settimana, nell’esempio). Nell’usare queste parole parlando con gli inglesi dobbiamo stare attenti a non... perdere la testa.

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    Traduce o non traduce?

    Dicono che durante uno dei primi esperimenti di traduzione automatica, la frase in inglese the spirit indeed is willing, but the flesh is weak — e cioè "infatti lo spirito è forte, ma la carne è debole" — tradotta in russo e ritradotta in inglese, abbia prodotto the vodka is really strong, but the meat is rotten, ossia "la vodka è davvero forte, ma la carne è guasta."

    Non ho trovato da nessuna parte la conferma dell’episodio, che probabilmente è una delle tante leggende metropolitane diffuse nei primi tempi in cui si stava sviluppando la tecnologia del computer — d’altra parte bisogna riconoscere che se non è vera è ben trovata, perché illustra chiaramente e sinteticamente molti dei problemi con cui ci si scontra nel tentativo di automatizzare operazioni linguistiche estremamente delicate; basta pensare a "carne" che in inglese è flesh quando è viva e meat quando è cibo.

    L’episodio mi è tornato in mente sabato 13 settembre [1977], durante la trasmissione televisiva dei funerali di Madre Teresa di Calcutta. Una delle interpreti simultanee ha tradotto una delle preghiere che sono state recitate, e che diceva, più o meno (cito a memoria)... "Donale o Signore la quiete eterna e sia illuminata per sempre..." Qui però si chiedeva non di interpretare il testo inglese, ma di riconoscere il Requiem Aeternam e di usare la formula italiana corrispondente: "L’eterno riposo dona a lei o Signore..." La maggior difficoltà nel tradurre e nell’interpretare consiste a volte nell’individuare i riferimenti culturali e le citazioni per restituirle nella loro forma autentica o consueta.

    Madre Teresa sapeva fare un uso estremamente essenziale della lingua inglese. Ne ero rimasto colpito durante un incontro a San Siro promosso dal Cardinale Colombo in difesa della vita. Si capisce che se l’interiorità è ricca, anche un’albanese trapiantata in India sa piegare una lingua non sua perché esprima la profondità dell’anima. Ho ritrovato quella essenzialità durante la cerimonia funebre, osservando il Crocefisso che era accanto alla bara e che si trova in tutte le case delle Missionarie della Carità. Dal Crocifisso pendono due scritte in inglese: I THIRST "ho sete" e YOU DID IT FOR ME "l’avete fatto a me." Parlo di essenzialità perché nel primo caso ha scelto di conservare una traduzione antica della Passione secondo Giovanni — oggi si direbbe I am thirsty per "ho sete," ed è così che lo si ritrova nelle versioni moderne, mentre la seconda è una traduzione recente del Vangelo di Matteo, molto più chiara e diretta del vecchio you have done it unto me.

    Saranno dettagli, ma mi piace pensare che lo Spirito di Dio agisca anche suggerendo le versioni in inglese più capaci di colpire il cuore e imprimersi nella mente.

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    I say Hallo, you say Good-bye

    Questa sera parliamo dei saluti, di come in inglese ci si rivolge a una persona quando la si incontra e quando la si lascia. La differenza principale con l’italiano è che noi non distinguiamo le due situazioni, nel senso che Buongiorno o Ciao si dicono sia all’inizio che alla fine di un incontro. Solo la sera, dopo una certa ora, si dà la buonasera quando ci si incontra e la buonanotte quando ci si lascia.

    In inglese, invece, i saluti sono sempre diversi: good morning, good afternoon e good evening quando ci si incontra di mattina, di pomeriggio, o di sera; good-bye quando ci si lascia, a meno che sia abbastanza tardi per dire good night. Molti fanno fatica a convincersi del fatto che good-bye non è una forma amichevole di saluto, ma si usa normalmente a conclusione dei dialoghi cominciati con good morning, good afternoon o good evening.

    Il good di good-bye non è l’aggettivo "buono" come negli altri saluti ma deriva da God, Dio; l’espressione good-bye viene da God be with you, "Dio sia con te." Anche in italiano dicendo addio raccomandiamo a Dio la persona da cui ci separiamo. Una forma ormai antiquata di addio è farewell, che ha in un ordine diverso gli stessi componenti di welfare — il "ben viaggiare" di cui ci siamo occupati iniziando questo ciclo di trasmissioni.

    Le forme amichevoli sono invece hello o hi quando ci si incontra e bye o bye-bye quando ci si lascia. Hi è più frequente negli americani e nei giovani, ma si sta diffondendo ovunque.

    Hello è anche il "pronto" al telefono. Molti inglesi rispondono dando il proprio numero, così che se uno si accorge di avere sbagliato dice Sorry, wrong number (scusi, ho sbagliato numero) e la conversazione termina immediatamente.

    Un chiarimento utile riguarda la parola night che non è solo la notte, ma anche la sera dopo cena: let’s go to the cinema tonight significa andiamo al cinema stasera (e non, evidentemente, stanotte). Evening è invece il periodo tra il tea-time, l’ora del tè, e la cena, e ricordiamo che tea, in questo contesto, non è solo la bevanda, la cup o’ tea, ma il pasto leggero pomeridiano — ma dei pasti inglesi ci occuperemo un’altra volta.

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    Immigrati naturalizzati

    Questa sera parliamo della lingua inglese ben nascosta in due parole italiane, bistecca e vagone. Quest’ultima viene dal wagon, il carro dei pionieri americani che tutti abbiamo visto nei film western. Le prime ferrovie, come si vede nelle stampe dell’epoca, avevano preso a modello la carrozza, perché il nuovo mezzo di trasporto doveva sostituire le diligenze. La motrice trainava una serie di piccole carrozze. Si è poi visto che il wagon, più lungo e capiente, costituiva un modello migliore per la vettura ferroviaria, e da lì nacque il vagone.

    La storia della bistecca, dall’inglese beef-steak, è più lunga; beef viene dal latino bovem attraverso il francese boeuf. Quando i Normanni conquistarono l’Inghilterra nell’undicesimo secolo, portarono con sé la loro lingua, il francese (infatti dalla Scandinavia originaria questi "uomini del nord" si erano insediati in Normandia). La lingua inglese ha molte coppie di parole, una di origine anglosassone, l’altra di origine neolatina. Per quanto riguarda gli animali domestici e commestibili, la parola anglosassone indica l’animale vivo, di cui si occupavano i mandriani locali; la parola neolatina si riferisce alla carne, che finiva sulla tavola dei dominatori normanni — il re e i nobili. Così ox è il nome del bue e beef è il nome della carne bovina. Lo stesso succede con calf e veal per il vitello e la sua carne, pig e pork per il maiale e la carne suina, sheep e mutton per la pecora e la carne ovina (mouton è il nome francese del montone, da cui mutton).

    Il roast beef è letteralmente l’arrosto di carne bovina, che da noi è diventato il nome di un certo modo di cucinare il manzo — e come in tanti altri casi ci sono infinite variazioni sia nella grafia che nella pronuncia.

    La parola steak ha la particolarità di essere una delle tre in cui alla grafia EA corrisponde il dittongo [ei]; le altre due sono great, come in Great Britain Gran Bretagna, e break che si usa anche da noi per indicare l’intervallo ma che in inglese è più frequente come verbo, "rompere." Break è anche un termine del pugilato, l’ordine di separazione che l’arbitro dà quando i pugili sono allacciati (o in clinch come si dice con un termine tecnico, sempre inglese).

    Durante un esame ho fatto trascrivere foneticamente la parola steak e la studentessa mi ha scritto [sti:k]; quando le ho detto che era sbagliato mi ha risposto che in Inghilterra ha sempre sentito dire [sti:k]; questo significa che le nostre orecchie percepiscono quello che si aspettano di sentire e non quello che sentono davvero. Quando poi le ho detto che se avesse ragione lei la bistecca si chiamerebbe *bisticca, mi ha guardato sorpresa, come se avessi detto qualcosa che non c’entra. E invece la bistecca è proprio la beef steak [steik].

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    Rime e allitterazioni

    E’ noto che in inglese Topolino e Paperino sono Mickey Mouse e Donald Duck; notiamo per inciso che entrambi i nomi sono allitterazioni, cioè iniziano con la stessa consonante, così come sono allitterativi i nomi di Marilyn Monroe, Doris Day e tanti altri. Gli inglesi sono molto sensibili alle allitterazioni, così come noi percepiamo subito le rime (come in Tonino Carino, Gianluca Pagliuca, Marcella Bella, Oriella Dorella e Eta Beta). Anche l’eterna fidanzata di Mickey è Minnie Mouse, e Paperina è Daisy Duck, letteralmente l’anatra Margherita — con la ripresa della stessa allitterazione.

    Molti personaggi delle fiabe inglesi hanno un nome proprio di persona seguito da un "cognome" che è il nome dell’animale: oltre al topo Michelino e all’anatra Donald ricordo ad esempio il coniglio Pietro, Peter Rabbit.

    Più interessanti sono i nomi originali di altri personaggi disneyani. Zio Paperone è Uncle Scrooge, dal nome di Ebenezer Scrooge, il personaggio di A Christmas Carol (“Il Canto di Natale”) di Dickens, il prototipo dell’avaro misantropo.

    Pippo è GOOFY, un aggettivo che viene dal verbo goof, comportarsi scioccamente, in modo impacciato, essere un pasticcione maldestro che fa malestri in continuazione: c’è già nel nome la descrizione del personaggio; in italiano Pippo è semplicemente una delle forme vezzeggiative che derivano da Giuseppe, senza particolari altri significati.

    Gli scoiattoli Cip e Ciop in inglese sono Chip e Dale, e detti insieme fanno la parola Chippendale, il tipico stile dei mobili inglesi del ‘700.

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    L’eroico bracchetto

    Riprendiamo il discorso sui personaggi dei cartoni animati per parlare di Snoopy. La razza di Snoopy è molto tipica e ben definita: in inglese si chiama beagle. Il traduttore avrebbe potuto lasciare il nome inglese; l’avremmo imparato, così come abbiamo imparato molti altri nomi inglesi di razze: cocker, fox-terrier, spaniel, bulldog ecc. Invece ha inventato la parola "bracchetto" che da allora è indissolubilmente legata a Snoopy "L’eroico bracchetto sfida il Barone Rosso..." — probabilmente ha fatto bene: suona molto meglio di "l’eroico Beagle..."

    Per questo ha sfruttato una delle risorse che abbiamo in italiano ma non in inglese: i nomi alterati; in particolare, "bracchetto" è il diminutivo di "bracco," una razza a cui il beagle assomiglia. Da "libro," noi possiamo avere "librone, libretto, libriccino e libraccio" (e c’è chi ha inventato i "librotti" per una collana per ragazzi). L’inglese deve ricorrere a aggettivi: a big book, a little book, a bad book, ecc.

    A proposito di little, ricordiamo che spesso non vuol dire "piccolo:" una persona può dire My little house in the country ("la mia casetta in campagna") anche se è un’enorme villa. Per dire che "la mia casa è piccola" devo dire My house is small. Questo aggettivo small, del resto, ormai lo conosciamo per via della serie small, medium, large, extra large, che in molti capi di abbigliamento ha preso il posto delle taglie tradizionali.

    Con i nomi che non hanno il plurale, little vuol dire "poco:" John has little money "John ha pochi soldi;" Add little water "Aggiungete poca acqua." Al plurale si usa invece few: "ha poche amiche" She has few friends.

    Se "poco" vuol dire "non abbastanza" ("pochi soldi" equivale a "non abbastanza soldi"), "un po’" vuol dire "una certa quantità di" — "ho un po’ di soldi, posso andare in vacanza." Lo stesso avviene in inglese a little (al plurale a few) non indica "poco," ma "un po’." I have a little time, I can go for a walk ("Ho un po’ di tempo, posso andare a spasso"); I have little time, I cannot go for a walk ("ho poco tempo, non posso andare a spasso").

    Spero che abbiate notato la pronuncia di Snoopy e small con [s] e non con [z]; questo vale per tutte le parole inglesi che cominciano per SN- e SM-, e anche per quelle che cominciano per SL- come sleep, "dormire."

    Abbiate pazienza, questa sera abbiamo fatto un po’ di grammatica, ma ogni tanto ci vuole anche quella.

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    Uno o tanti?

    A scuola abbiamo imparato che c’è il singolare che si usa per parlare di un oggetto e c’è il plurale, da usare quando ci riferiamo a più di uno. Ma non è sempre vero. Se diciamo "qualche libro" usiamo una forma singolare ma intendiamo più o meno lo stesso di "alcuni libri," al plurale. Se diciamo "Si misero il cappotto e uscirono," non ci riferiamo a un cappotto solo, collettivo, ma a tanti cappotti quante sono le persone. Ancora un singolare per un significato plurale.

    Il caso più paradossale l’abbiamo quando vogliamo parlare dell’assenza di qualcosa: usiamo a volte il singolare ("nessun libro") e a volte il plurale ("zero libri") per indicare quello che tecnicamente si chiama l’insieme vuoto.

    In inglese abbiamo sempre il plurale in questi casi: SOME BOOKS e NO BOOKS per "qualche libro" e "nessun libro." "Si misero il cappotto e uscirono" è THEY PUT ON THEIR COATS (letteralmente, "i loro cappotti") AND WENT OUT. Tutto questo riguarda i nomi che possono avere il plurale e che sono la assoluta maggioranza. Ci sono poi, sia in inglese che in italiano, i nomi che non possono avere il plurale a causa del loro significato, come milk "il latte" e patience, "la pazienza." Il problema, con questi nomi uncountable, non pluralizzabili, non riguarda il numero ma l’uso dell’articolo. Noi diciamo "Il latte è bianco," in inglese Milk is white; "La pazienza è una virtù" Patience is a virtue — entrambe le volte, senza l’articolo; in questi casi, l’inglese fa una distinzione fra l’uso generale del nome e l’uso specifico, determinato. Se a tavola dico Please pass the milk mi riferisco a quel latte, che si trova lontano da me ma a portata di mano della persona a cui lo chiedo. Questo spiega THE milk.

    Altro esempio: The patience that he showed was surprising "La pazienza che dimostrò fu sorprendente."

    Dobbiamo diffidare di alcune etichette che la grammatica ci ha insegnato a usare — per esempio, esistono gli articoli cosiddetti determinativi ("il, lo, la...") ma non sempre determinano davvero: in una frase come "i cani sono amici fedeli" l’articolo non determina un bel niente, "i cani" vuol dire, molto genericamente, "tutti i cani." Diversa è la frase "i cani stanno abbaiando perché hanno fame," in cui si sta parlando di QUEI cani ben precisi e determinati. In inglese l’articolo THE si deve usare solo in questo secondo caso; la prima frase è Dogs are faithful friends, senza articolo.

    Abbiamo detto che la pazienza è una — non ci sono due pazienze, tre pazienze; io non devo abusare della vostra e quindi...

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    Un po’ per ciascuno

    Abbiamo accennato in un’altra trasmissione alla necessità di usare il plurale inglese, invece del singolare italiano, quando il singolare italiano ha valore distributivo, ossia significa "uno per ciascuno." Ripeto l’esempio che era "Si misero il cappotto e uscirono" They put on their coats and went out, dove "il cappotto," singolare, diventa "i loro cappotti" their coats, al plurale. L’insegnante che ordina di scrivere qualcosa sul quaderno dice Write it in your booksBOOKS al plurale. Se però dice di fare con calma, prendendo tutto il tempo che occorre, dice Take your time, perché in questo senso time è solo singolare. (Times al plurale ha altri significati: sia per indicare i tempi in generale, nel senso di epoca: our times, "la nostra epoca;" hard times "tempi difficili"; sia nel senso di “volte”: three times “tre volte”).

    Se in italiano diciamo "Sono partiti in automobile," la frase non ci dice se l’automobile è una sola o tante; ce lo dice il contesto, ossia la situazione. La lingua inglese permette di distinguere They left in their car, singolare, da They left in their cars, plurale.

    Molti nomi cambiano di significato a seconda che siano usati come countable o uncountable; glass, solo singolare, è "il vetro;" a glass è "un bicchiere;" glasses al plurale può significare "bicchieri" ma spesso è l’abbreviazione di eyeglasses, "occhiali." Anche di queste variazioni di significato bisogna tener conto. Per esempio, per indicare che al MEA CULPA bisogna battersi il petto, il messalino festivo inglese dice All strike their breast, che sembrerebbe una violazione della regola. Perché non breasts, al plurale? Breast è il petto, il torace di uomini e donne, mentre il plurale breasts si è specializzato nell’indicare i seni femminili (breast feeding è "l’allattamento al seno"). Ancora una volta, il significato e l’uso delle singole parole sono più importanti delle regole di grammatica. In altra parte della liturgia, al Credo, per indicare che tutti chinano il capo quando si richiama il mistero dell’Incarnazione, lo stesso messalino indica All bow their heads, con il plurale heads, secondo la regola generale.

    Un’altra eccezione apparente è quella delle formule fisse, che non cambiano a seconda che ci si rivolga a una persona sola o a tante. Per questo, quando vi saluto all’inizio dico Good evening -- non posso dire evenings anche se suppongo che ad ascoltarmi ci siano ladies and gentlemen al plurale, e quando mi congedo formulo il saluto, al singolare, rivolto a ciascuno, Good night (non nights), everybody!

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    Libri e quaderni

    Qualcuno si è sorpreso sentendo la frase Write it in your books, scrivetelo sul quaderno, data come esempio qualche sera fa. L’indicazione book = “libro” che si trova su qualche vecchio libro di testo e nei peggiori dizionari, è sbagliata. Se cercate la parola book su qualche buon dizionario inglese la troverete definita come "fascicolo di fogli rilegati, da leggere o su cui scrivere." Questo vuol dire che l’area di significato che in italiano si divide sulle due parole "libro" e "quaderno" in inglese è occupata dalla sola parola book. Le specificazioni copybook o exercise book per il quaderno si usano solo se il contesto non è chiaro, ma col verbo "scrivere" non ci sono dubbi e Write it in your books è una frase usata molto di frequente nelle aule scolastiche.

    Book è anche un verbo, col significato di prenotare; un bookmaker è un allibratore — e in questo caso book è il registro delle scommesse; book è anche il carnet di biglietti e di francobolli (ma da noi non abbiamo i distributori automatici di francobolli che emettono i books of stamps), e anche la bustina di fiammiferi (a book of matches).

    Nella frase di prima notiamo anche l’uso di in. Noi diciamo "Scrivere SU un quaderno, leggere SUL giornale" ecc. mentre in inglese abbiamo l’equivalente diretto di “nel” — I read it in the newspaper. L’uso delle preposizioni segue più le regole del lessico che quelle propriamente grammaticali. Se dico "3 per 4" voglio dire "tre moltiplicato 4" , ma se dico "parto per Roma" non voglio dire "parto moltiplicato Roma," e in "studio per imparare", “per” non vuol dire né "moltiplicato” né "con destinazione" ma "allo scopo di." Esempi analoghi si possono trovare per tutte le preposizioni.

    Torniamo all’ultimo esempio; troviamo una notizia SUL giornale, A pagina 5. Perché non SU pagina 5? Che cosa cambia tra il giornale e una pagina del giornale stesso, da giustificare il cambiamento di preposizione? In teoria non cambia niente, in pratica si usa così, e l’uso detta legge. Però allora non dobbiamo meravigliarci se in inglese si dice IN the paper ON page 5.

    Il segreto del successo in questo labirinto è quello di imparare non le singole parole e le regole che dovrebbero metterle insieme, ma le espressioni complete, le collocations in cui gli elementi che si associano e combinano vengono acquisiti come un blocco unico. Altrimenti il lavoro è così complesso e l’applicazione corretta delle regole è così lenta che quando uno ha preparato la frase da dire, in una conversazione a più voci, è passato il momento buono per dirla.

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    Una spider sul ponte

    Questa sera ci occupiamo di automobili e di giochi a carte.

    La parola inglese spider significa ragno. Che cosa c’entra con l’automobile sportiva che noi chiamiamo "spider"? La storia è interessante e controversa. Alcuni dizionari ricordano che spider è il nome dato un secolo e mezzo fa a una carrozza con le ruote molto grandi e le sospensioni molto lunghe, che in effetti può ricordare la forma di un ragno. Ma alla "spider" non assomiglia proprio, direi anzi che è quanto di più diverso si possa immaginare. L’origine probabilmente è un’altra: dalla parola speed, velocità, sono derivate, nella prima metà del nostro secolo, le parole speedster e speeder per indicare le auto sportive veloci. La parola speeder è stata adottata dai francesi, che non solo la pronunciano spidèr ma la scrivono anche con la i invece delle due e. Noi l’abbiamo importata dal francese in questa forma, trattandola però come se fosse una parola inglese e pronunciandola [spaider]. C’è stata quindi prima una modifica della grafia per adattarla alla pronuncia, poi una modifica della pronuncia per applicare una regola — o presunta tale — che invece in quel caso non ha motivo di essere applicata. Ma tant’è, continueremo a chiamare "spider" quella che nella lingua inglese degli inglesi, da quando è passata di moda la parola speeder, si è chiamata per decenni a convertible — una "convertibile."

    La parola bridge non significa "ponte" — almeno, non quella che si riferisce al gioco. Infatti le parole inglesi bridge sono due: una di origine germanica, che significa "ponte" e che si collega al tedesco Bruck: la città austriaca di Innsbruck prende il nome dal ponte sul fiume Inn così come Cambridge prende il nome dal ponte sul fiume Cam. L’origine dell’altra parola è incerta, ma con ogni probabilità è la stessa della parola italiana "briscola," che in effetti è un gioco della stessa famiglia. Quando durante il regime fascista è stato proibito l’uso della parola bridge e si è cercato di imporre come nome "il gioco del ponte" si è quindi commesso un errore. Non solo, ma poi qualcuno ha cercato di giustificarlo dicendo che nel gioco del bridge si crea un ponte tra i due compagni di squadra — come se questo non valesse per tutti i giochi a coppie.

    Aveva ragione un comico di quell’epoca che diceva che certe cose trovano sempre uno stupido che le inventa e un cretino che le perfeziona.

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    Parla di come mangi

    Ai pasti inglesi abbiamo fatto un breve cenno parlando dei saluti e delle parti del giorno. Infatti il mattino, morning, è il periodo che termina con l’ora del lunch, il pasto di mezzogiorno; afternoon, pomeriggio, è il periodo compreso tra il lunch e il tea, che non è solo la tazza di tè ma un pasto leggero, evening è il periodo tra il teatime, l’ora del tè, e la cena, che si chiama supper. Esiste poi la parola dinner, che come la parola italiana "pranzo," indica non tanto l’ora del pasto quanto piuttosto il fatto che si tratta di un’occasione conviviale di una certa importanza; e come per il nostro pranzo, c’è chi usa sistematicamente dinner per il pasto serale invece di supper — ad esempio, molti alberghi che vogliono darsi un tono.

    Nella tradizione inglese, che peraltro si sta notevolmente modificando, ha molta importanza il breakfast del mattino — la parola viene dal verbo "rompere," break, e dal nome fast, digiuno. fast si scrive e si pronuncia come l’aggettivo fast, veloce, quello che troviamo nell’espressione fast food. Il breakfast inglese comprende di solito un succo d’arancia, latte e cereali, un piatto caldo con uova e bacon (o salsicce o altro ancora) e infine il tè o il caffè (quello che gli inglesi chiamano caffè, mentre il nostro caffè lo chiamano "espresso") con pane tostato e marmellata o miele. In lingua inglese si distingue la marmalade, di agrumi, dalla jam, la marmellata di altri frutti.

    Soprattutto nel week-end, chi si alza tardi a volte fa un brunch, cioè una combinazione di breakfast e lunch. Brunch è una “parola cannocchiale”, che mette insieme la prima parte di una parola e l’ultima parte di un’altra. Una parola cannocchiale che tutti conosciamo è smog, una combinazione di fumo e nebbia, smoke e fog. A Milano l’abbiamo sempre chiamata “calisna”, ma ormai sono molti di più quelli che sanno l’inglese di quelli che sanno il milanese. Sempre nei giorni festivi o nelle occasioni in cui non si segue la routine abituale ci può essere un high tea, un tè più abbondante e preso un po’ più tardi, che riunisce il tè abituale e la cena.

    Un’ultima curiosità: lo spuntino di metà mattina, che si chiama elevenses perché si prende attorno alle 11 (eleven), è da moltissimo tempo previsto espressamente nei contratti collettivi di lavoro.

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    Chi ha tempo...

    In inglese abbiamo tre parole che corrispondono a “tempo”: weather, time e tense. La prima, weather, si riferisce al tempo atmosferico, al tempo che fa — ma questa sera non ce ne occupiamo anche se Talking about the weather, "Parlare del tempo che fa," passa per essere una delle occupazioni preferite dai britannici. E’ invece molto importante la differenza tra il tempo cronologico, il tempo che passa, il time, e il tempo grammaticale dei verbi, il tense. E’ bene ricordare che non c’è, in nessuna lingua, una corrispondenza diretta, uno a uno, fra i tempi del verbo e i tempi dell’azione espressa dal verbo. Cominciamo con qualche esempio che riguarda il tempo presente dei verbi italiani.

    Se dico "In questo momento vi parlo," siamo al tempo presente in senso stretto: al presente grammaticale "parlo" corrisponde il presente cronologico "in questo momento;" ma se dico "mi alzo alle sei ogni mattina" siccome adesso non sono le sei di mattina, lo stesso tempo non esprime il presente cronologico; nella frase "Dio ci ama" il presente si riferisce all’eternità.

    Se dico "domani parto" il time, il tempo cronologico, è un futuro (l’azione si svolgerà domani) e il tense è un presente ("parto"). Nell’esempio "parto domani" abbiamo un futuro espresso da un presente. Ma il presente italiano può anche esprimere un’azione iniziata nel passato e che continua: "Lo conosco da dieci anni." In questo caso l’inglese adopera il present perfect tense: I have known him for ten years (è la cosiddetta duration form o forma di durata).

    Un errore frequente consiste nell’usare il passato prossimo italiano per tradurre frasi inglesi di questo tipo; non ha senso dire "l’ho conosciuto per dieci anni" come se adesso non lo conoscessi più: una persona conosciuta dieci anni fa la conosco e basta, la conoscenza non ha fine. Se una regola di grammatica ci dice che in questi casi un presente italiano corrisponde a un present perfect inglese (un tempo che assomiglia al nostro passato prossimo), la stessa regola ci dice anche che negli stessi casi un present perfect inglese corrisponde a un presente italiano.

    Se sento la frase They have been married twenty years devo intendere che "sono sposati da vent’anni," non che lo sono stati ma ora non lo sono più — per quest’ultimo senso l’inglese usa il past tense: They were married twenty years.

    Su qualche altra differenza di uso dei tempi verbali forse ritorneremo; questa sera ci basta aver sottolineato, con un po’ di esempi, la differenza tra il tempo cronologico e i tempi verbali, tra il time e i tenses.

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    Dai nomi propri ai nomi comuni

    Una certa quantità di nomi di personaggi famosi sono entrati nell’uso inglese e poi internazionale come parole comuni. Forse la più diffusa è l’unità di misura della potenza elettrica, il Watt, con i suoi composti e derivati il Megawatt, il kilowattora, ecc. Come il Volt prende il nome da Alessandro Volta, il watt prende nome da James Watt, lo scozzese inventore della macchina a vapore che ebbe un ruolo fondamentale nella rivoluzione industriale inglese. Altri scienziati inglesi hanno dato il loro nome a unità di misura usate in Fisica: Newton, Joule, Kelvin, Faraday e altri, ma sono unità molto meno note al pubblico.

    Un altro nome di questo tipo è il sandwich, uno dei pochi anglicismi che stanno andando in disuso, sostituito dalla parola italiana "panino": merito dei paninari, delle paninoteche, ecc. Il quarto conte di Sandwich, vissuto nel diciottesimo secolo, fu un uomo politico e divenne anche primo lord dell’Ammiragliato (una delle cariche più importanti in un paese marinaro come l’Inghilterra); il Capitano Cook diede il nome di Sandwich alle isole del Pacifico che ora chiamiamo Hawaii. Era anche un giocatore accanito, e quando nel 1762 rimase 24 ore a un tavolo da gioco senza altro cibo se non i panini imbottiti, questi finirono per essere chiamati col suo nome.

    Due generali hanno legato il loro nome a dei capi di abbigliamento: il primo è il duca di Wellington, il vincitore di Napoleone a Waterloo, che ha dato il suo nome a un tipo di stivaloni, e il secondo è il Visconte di Montgomery, il vincitore della battaglia di El Alamein contro Rommel, da cui ha preso nome un tipo di cappotto allacciato con gli alamari. Queste parole non circolano più tanto perché sono capi di abbigliamento passati di moda, ma il loro nome è rimasto.

    In Inghilterra il Macintosh è un impermeabile, che prende il nome dal chimico scozzese Charles Macintosh che nel 1823 inventò un metodo per impermeabilizzare la stoffa. Oggi la parola si riferisce più abitualmente a un tipo di computer, che a sua volta si chiama come un certo tipo di mela californiana.

    E a proposito di mele che vengono da molto lontano, le Granny Smith (letteralmente, nonna Smith) prendono il nome da Maria Ann Smith, morta nel 1870, che le coltivava vicino a Sydney, in Australia.

    Scusatemi, ho messo assieme Newton e la nonnina delle mele, ma questi sono i percorsi che ci capita di fare seguendo il filo delle parole scelte sulla base di qualche curiosa particolarità.

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    Idiomaticamente parlando

    Fino a qualche tempo fa, molti libri di testo riportavano la frase idiomatica It’s raining cats and dogs per "sta piovendo a catinelle." E’ una frase pittoresca — letteralmente, "piovono gatti e cani" — ma che ormai quasi nessuno usa più. Anche da noi, del resto, visto che i lavabi con le catinelle appartengono al passato, e non succede più di rischiare di essere sommersi dall’acqua gettata dalle finestre, è difficile che qualcuno dica ancora che piove a catinelle.

    Avrete notato cats and dogs, "gatti e cani," mentre noi diciamo "cani e gatti." Non è il solo caso di ordine inverso nelle due lingue; il più famoso è black and white, "nero e bianco," riferito alla fotografia e cinematografia, allo schermo del televisore o del computer, ecc. L’ordine fisso di certe sequenze lo si trova in tutte le lingue. In pratica, l’uso ripetuto di un certo ordine blocca tutte le alternative; il fatto che si parli abitualmente di San Pietro e Paolo impedisce di dire "San Paolo e Pietro." Così l’ordine abituale è Oxford and Cambridge, non Cambridge and Oxford, Simon and Garfunkel, non Garfunkel and Simon.

    Le posate in inglese sono knives, forks and spoons, "coltelli forchette e cucchiai" — sempre in quest’ordine. A volte una possibile spiegazione la si trova: nel caso delle due grandi università inglesi, Oxford è stata fondata un po’ prima di Cambridge. Ma il più delle volte cercare qualche motivazione logica è fatica sprecata; qualche volta la sequenza dipende da ragioni fonetiche, nel senso che è quella che suona meglio — naturalmente alle orecchie degli inglesi, non alle nostre: la sensibilità è diversa. Qualche altra volta nemmeno la facilità di pronuncia sembra una giustificazione plausibile, come per night and day ("notte e giorno") preferita a day and night.

    In italiano, non sappiamo spiegare perché, ad esempio, nel descrivere la nostra bandiera diciamo "bianco-rosso-verde:" partiamo dal colore che sta in mezzo, poi diciamo quello che sta all’esterno e infine quello vicino all’asta. Se si seguisse l’ordine effettivo, il verde dovrebbe essere il primo, e non l’ultimo, dei tre colori.

    Non serve a nulla chiedersi la ragione di questo ordine fisso. Semplicemente, quando impariamo le espressioni idiomatiche le dobbiamo acquisire come se fossero un vocabolo unico, nella sequenza appropriata.

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    Componibilità delle parole: la derivazione

    Un modo per arricchire il lessico è quello di imparare a usare bene i prefissi e i suffissi. Ad esempio, il prefisso un- serve per formare il contrario, il negativo: happy "felice" unhappy "infelice;" do "fare" undo "disfare." Il suffisso -able corrisponde ai nostri "-abile" o "-ibile:" drink "bere," drinkable "potabile." Allora è possibile, conoscendo il verbo think, capire che unthinkable vuol dire "impensabile," e da believe, "credere," giungere a unbelievable, "incredibile."

    Non sempre le cose sono così semplici: per esempio, l’aggettivo beautiful deriva dal nome beauty — letteralmente, bello è "pieno di bellezza." Il contrario di beautiful è ugly e in questo caso è il nome "bruttezza," ugliness, che deriva dall’aggettivo. Il processo è quindi l’opposto del precedente.

    Il contrario della desinenza -ful è -less: mercy è la pietà, la misericordia, merciful vuol dire "misericordioso" e merciless "spietato." Però questo non funziona sempre: abbiamo beautiful ma non *beautiless, perché c’è già un’altra parola, indipendente, che è ugly.

    Il processo di derivazione può ripetersi, con aggiunte plurime: preside president presidential presidentialism — ma lo stesso avviene in italiano — "presiedere, presidente, presidenziale, presidenzialismo," e quindi non ci sono problemi di apprendimento. Un altro esempio può essere thought, "il pensiero," da cui derivano thoughtful e thoughtfulness, "pensoso e pensosità." Una parola di origine latina aggiunge suffissi anch’essi di origine latina, e una di ceppo germanico aggiunge suffissi dello stesso ceppo.

    Come le parole, anche i prefissi e i suffissi possono avere usi e valori e diversi: abbiamo già visto che in unhappy, un- serve a negare, "non felice" e in undo un- non è il "non fare" ma fare il processo inverso, il "disfare." Possiamo aggiungere parole come unsaddle: da saddle, "la sella," abbiamo il "dissellare" e quindi un- significa "togliere."

    Anche il suffisso più frequente, -ly, ha due usi diversi; può essere aggiunto a un nome per avere un aggettivo, come in friend friendly "amico amichevole," oppure a un aggettivo per avere un avverbio, slow slowly "lento lentamente." Pur con le difficoltà a cui si è accennato, resta il fatto che il padroneggiare prefissi e suffissi ci permette di moltiplicare le parole inglesi che conosciamo, invece di aggiungerle faticosamente una alla volta.

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    Quelle terribili parole facili

    Questa sera vi voglio parlare di due espressioni che ho incontrato e che hanno causato problemi di comprensione, pur essendo composte da parole comunissime, molto note. Dove si trova un parco situato at the top of down under — parola per parola sarebbe "alla sommità di giù sotto"? Per venirne a capo bisogna sapere che per gli inglesi down under è un’espressione corrente che si riferisce agli antipodi, cioè all’Australia. Nel nord dell’Australia c’è una penisola che si protende verso la Nuova Guinea, e che si trova quindi in cima all’Australia, at the top of down under.

    In un libro ho letto "libri da tavolino dei caffè;" un’espressione che non mi diceva nulla e che mi ha spinto a cercare di capire che cosa ci fosse dietro. Ho potuto verificare il testo originale e ho scoperto che era coffee table books. Da dove viene l’errore del traduttore? Anzitutto dal fatto che ha confuso coffee, il caffè come bevanda, con café, il caffè come locale, il bar — con tavolini che al massimo hanno qualche giornale ma non ci ho mai visto libri.

    Nelle case americane — lo vediamo in tanti episodi televisivi — davanti al divano e alle poltrone del soggiorno c’è un tavolino basso, dove si mette il caffè da offrire agli ospiti, il coffee table. Spesso su quel tavolino c’è un libro costoso e vistoso, che dovrebbe dare l’idea di una casa dove si dà molta importanza alla lettura e alla cultura. Un coffee table book è un libro che "fa scena," ricco di illustrazioni ma in realtà, spesso, culturalmente povero; l’espressione coffee table book viene normalmente usata con un valore dispregiativo.

    Come si fa a sapere che parole semplici, che conosciamo bene, messe assieme hanno un significato diverso? La prima cosa da fare è di consultare un vocabolario. Sia down under che coffe table book sono espressioni registrate nei dizionari — parlo dei dizionari veri, non dei giocattolini tascabili o dei dischetti per computer dati in omaggio con le riviste. I dizionari riportano, di solito in coda alle singole voci, proprio le combinazioni di parole che hanno assunto valori particolari. Inoltre, molte parole facili e note hanno significati meno usuali. Una parola come line, "la linea," ha varie decine di significati (un dizionario ne registra 54) dalla "coda" allo sportello al "verso" di una poesia alla "lenza" per pescare, ad altri meno usuali.

    Cercare sul dizionario anche le parole che si pensa di conoscere bene può riservare delle piacevoli sorprese.

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    Conversioni in massa

    Una fonte di difficoltà è data dal fatto che molte parole inglesi possono essere nomi o verbi, senza nessuna modificazione. Love è sia "amore" che "amare" e questo vale per un numero veramente alto di vocaboli. Pensate che il BASIC English, un lessico selezionato di 850 parole, contiene 600 nomi, 300 dei quali possono essere usati come verbi.

    Vediamo un esempio curioso. Una persona dice: Time flies! "Il tempo vola" — e l’altra risponde: I can’t, they go by too fast, "Non ci riesco, passano troppo veloci." Come si spiega? Chi risponde fa finta di aver capito qualcosa di diverso, dando a time il valore di verbo e a flies il valore di nome plurale: "cronometra le mosche!"

    Questo è un caso di distorsione volontaria, e quindi non ha particolare valore se non come esempio-limite delle potenzialità della "conversione" (questo è il termine tecnico per il passaggio da una categoria grammaticale a un’altra). La conversione non riguarda solo nomi e verbi, ma anche altre parti del discorso. Round è un nome (lo usiamo anche da noi per le "riprese" negli incontri di pugilato, ma una fase di trattative internazionali a suo tempo si chiamò il Kennedy Round), è un aggettivo, "rotondo" -- ad esempio, in espressioni come round table, "tavola rotonda," da Re Artù alle discussioni nei convegni, è preposizione in round the corner, "dietro l’angolo," e è avverbio in look round, "guardarsi attorno." Come nome, back è la "schiena" (back ache è il "mal di schiena") o il "retro" the back of the house la parte posteriore della casa; può essere usato come aggettivo — the back yard "il cortile posteriore" — e come avverbio o particella avverbiale, soprattutto con verbi di moto go back e come back per "tornare" (rispettivamente "andare indietro" e "venire indietro"); c’è anche un verbo to back che vuol dire "sostenere," ad esempio un candidato alle elezioni, oppure "scommettere su," in frasi come to back a horse. Back up è un termine corrente dell’informatica, per indicare sia l’operazione di copiatura su disco dei programmi e dei lavori che non si vuol rischiare di perdere, sia le copie stesse.

    Quando non si viene a capo di un’espressione inglese, bisogna sempre prendere in considerazione la possibilità che una parola che conosciamo come nome sia usata come verbo — o viceversa, naturalmente. Ma anche questo è un argomento che dovremo riprendere, per questa sera vi ho intrattenuto abbastanza a lungo.

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    Non è genitivo (e non è nemmeno sassone)

    Anni fa ho trovato, nella piazza principale di una cittadina, un negozio di libreria, cartoleria e articoli vari che aveva l’insegna in finto inglese *BOOK’S SHOP, "il negozio del libro." Sono entrato per prendere delle cartoline e non ho resistito alla tentazione di chiedere al gestore come mai l’insegna fosse in "inglese". Mi ha risposto che c’erano tanti turisti stranieri e poi, con un certo orgoglio, mi ha confidato che sua figlia si era laureata in lingue e anzi aveva insegnato inglese per qualche tempo in un istituto della città.

    Non gli ho detto che sua figlia aveva commesso un errore, né tantomeno che due giorni dopo avrei cominciato a fare il commissario degli esami di maturità proprio in quella scuola. *BOOK’S SHOP è un errore perché la forma con ’s si usa non per qualsiasi genitivo, ma solo per il possessivo, ossia quando c’è una persona come possessore: "le gambe del ragazzo" sono the boy’s legs ma "le gambe del tavolo" sono the legs of the table. La libreria nel senso di "negozio" si chiama bookshop; nel senso di "mobile" o "scaffale" per libri si chiama bookcase o bookshelf.

    In inglese sono molti i casi in cui dobbiamo tenere distinti i nomi che si riferiscono agli esseri animati (e in particolare alle persone) dagli altri nomi. Con i nomi di persone la forma del cosiddetto genitivo sassone è quella normale e deve essere sempre preferita. Il libro di Giovanni (che gli appartiene, che Giovanni ha scritto o che parla di lui) è John’s book. The Book of John è invece un’espressione che indica il quarto Vangelo, il Vangelo secondo Giovanni.

    Le due forme di genitivo consentono anche di distinguere certe frasi ambigue, come "L’amore di Dio." L’amore che Dio ha per noi è God’s love mentre l’amore delle creature nei Suoi riguardi è the love of God.

    Prima ho parlato di cosiddetto genitivo sassone per indicare che il termine è entrato nell’uso e quindi ci serve, ma in realtà la desinenza -s del genitivo singolare è di tutte le lingue indoeuropee, dal sanscrito al latino al tedesco. Perché sia invalso l’uso dell’apostrofo invece di lasciare la desinenza unita al nome è un aspetto che non è ancora stato chiarito con sicurezza. Comunque l’uso dell’apostrofo ci consente di tener distinto il plurale, senza apostrofi, dal genitivo singolare con ’s e dal genitivo plurale che, nelle parole che fanno il plurale regolarmente in -s, aggiunge l’apostrofo dopo la s. Nella pronuncia non c’è differenza e solo il contesto ci dice se ciò che suona the girls voglia dire "le ragazze”, “della ragazza” o “delle ragazze" (rispettivamente girls, girl’s e girls’).

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    Ancora sul finto inglese

    Stasera ritorno su un tema che mi sta a cuore, ossia sulle strane cose che succedono quando l’inglese lo si sa poco e male ma lo si vuole esibire. Prendiamo la parola derby che da noi significa… Milan-Inter.

    In Inghilterra è il nome di una città, capoluogo di contea. Edward Stanley, 12° Conte di Derby, ha legato il suo nome a una delle più classiche gare ippiche inglesi per puledri di tre anni, che si corre dal 1780 all’ippodromo di Epsom il primo mercoledì di giugno su un percorso di un miglio e mezzo (circa 2400 metri). Da questo Derby hanno preso il nome altre importanti gare ippiche in varie parti del mondo e la parola è usata anche per altre gare, ad esempio ciclistiche.

    Non sono riuscito a ricostruire la strada che questa parola ha percorso per prendere il significato specifico che ha da noi, cioè partita tra due squadre della stessa città o di città vicine e rivali. Se qualcuno lo sa, e me lo fa sapere, lo ringrazio, basta che non si tratti di leggende non documentate o di semplici ipotesi. Ma qui m’interessa un’altra cosa, ossia la pronuncia [doeurbi] (cioè con la vocale di girl nella prima sillaba) che qualcuno usa per far vedere che ha studiato l’inglese. La città, invece, si chiama [darbi] e la contea è il Derbyshire [darbiscia].

    Ci sono altre parole scritte con ER pronunciato [a:]; le più note sono clerk, l’impiegato, e sergeant, il sergente. Tra i nomi di località troviamo Hertfordshire, la contea di Hertford [ha:tfad].

    Posso consigliare un libro che presenta tutte queste informazioni sulla pronuncia inglese; non presuppone conoscenze particolari di fonetica e ha molti esercizi che uno può fare da sé controllando poi le risposte sul libro stesso. Gli autori sono Gianfranco Porcelli e Frances Hotimsky, il titolo è Manuale di pronuncia inglese: analisi ed esercizi ed è pubblicato a Milano dalle edizioni Sugarco.

    E infine, se permettete, un altro consiglio: quando parlate in italiano dite le parole inglesi come le dicono tutti, anche se siete ben sicuri della loro pronuncia esatta nella lingua originale. Questa pronuncia vi servirà se un giorno dovrete andare a Derby — tra l’altro c’è un’università che è collegata con il Dipartimento di Lingue dell’Università Cattolica. Lì in Inghilterra, se chiedete di [derbi] o di [doeubi], vi sarà difficile trovare qualcuno che capisce subito a quale città vi riferite. Da noi, sarà meglio che ci godiamo il derby, lasciando perdere il finto inglese.

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    Idiomatically correct

    Si parla spesso, e nel complesso se ne parla a ragione, dell’inglese come lingua idiomatica. Ma che cosa si intende di preciso per idiom o "espressione idiomatica"?

    Partiamo da un esempio in italiano. Conosciamo la parola PUNTO e tutti i suoi significati; sappiamo che il BIANCO è un colore e sappiamo usare le preposizioni DI e IN. Ma quando mettiamo insieme queste quattro parole ecco che DI PUNTO IN BIANCO ci ritroviamo un’espressione il cui significato complessivo non è la somma delle quattro parole: è di più ed è diverso. Si tratta di un’espressione idiomatica. Inoltre nessuno può, senza preavviso, così, *DI PUNTO IN ROSSO modificarla. DI PUNTO IN BIANCO vuol dire "improvvisamente, senza preavviso," *DI PUNTO IN ROSSO non vuol dire niente, al massimo serve come controesempio.

    Tra parentesi, in inglese abbiamo point-blank più o meno con lo stesso significato. Le due caratteristiche che definiscono un idiom sono quindi il "valore aggiunto" che la nuova unità assume rispetto ai suoi componenti e la sua inalterabilità.

    Anche l’italiano, allora, è una lingua idiomatica, solo che siccome abbiamo avuto la precauzione di nascere in Italia non ce ne accorgiamo nemmeno, a meno che non ci confrontiamo con le altre lingue.

    Bisogna anche stare attenti a evitare i colloquialismi quando questi sono fuori luogo; per dire che qualcosa non c’entra, o è un discorso diverso, possiamo dire che "è un altro paio di maniche," con una bella espressione idiomatica, ma solo se stiamo parlando tra amici o parenti, o comunque in tono confidenziale. Lo stesso vale per l’inglese: il non idiomatico that’s quite different (è completamente diverso) non è colorito ma proprio per questo può andare bene sempre; that’s another story (è un’altra storia) è meno formale ma si usa in molti casi; l’idiom it’s a gray horse of another colour (letteralmente, "è un cavallo grigio di un altro colore" — che alcuni repertori danno come corrispondente dell’ "altro paio di maniche") è un idiom molto peculiare, che si usa poco, anche perché suona sorpassato, e quindi serve limitatamente a circostanze particolari.

    In linea generale, gli idiom più frequenti è importante conoscerli ma essenzialmente per capirne il significato, e non tanto per usarli, se non con tutte le cautele del caso. A meno che uno non voglia a tutti i costi cercare di fare lo spiritoso, anche rischiando il ridicolo, ma questo è tutto un altro paio di maniche.

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    Le strane coppie

    In inglese ci sono coppie di parole molto simili tra loro, ma con una precisa distinzione nel significato, che vengono confuse nella traduzione in italiano. La prima coppia di cui ci occupiamo stasera è aptitude e attitdude. La prima, aptitude, indica l’attitudine come predisposizione naturale a fare qualcosa: c’è chi ha molta attitudine per le lingue, la musica, lo sport o certe attività che richiedono abilità e doti specifiche, e chi è negato. Attitude è invece l’atteggiamento che si assume di fronte a un problema, a una data circostanza; se mi si chiede What’s your attitude towards the European Union? si vuole sapere qual è il mio atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea, ossia come la penso sull’integrazione, sulla moneta unica, eccetera, che cosa provo di fronte a una prospettiva sovranazionale. Non mi si chiede se ho particolari attitudini a essere un buon cittadino europeo, oltre che italiano.

    Purtroppo attitude viene spesso tradotto con "attitudine" anziché con "atteggiamento" e se il contesto non è sufficientemente chiaro si possono confondere due termini che fanno parte entrambi del linguaggio psicologico — e a questo proposito ho visto con preoccupazione questo errore di traduzione anche in testi di psicologia. Buona norma vuole che due parole diverse in lingua straniera siano tradotte con due parole diverse in italiano, soprattutto se queste due parole già ci sono, come nel caso di "attitudine" e "atteggiamento," e quindi non c’è da inventare niente.

    Un caso analogo, ma con qualche differenza, riguarda politics e policy. Politics è la politica come arte del buon governo (almeno idealmente) e ha a che fare con lo stato, le istituzioni nazionali e sovranazionali, il parlamento, il governo in senso stretto. Policy invece è la linea di condotta, non solo negli affari pubblici ma anche in quelli privati. In un locale californiano hanno rifiutato di servirmi un’acqua tonica dicendo che siccome la mia prima ordinazione era stata di un whiskey la loro policy era che una seconda ordinazione era non solo obbligatoria, ma obbligatoriamente identica alla prima. Non mi interessa commentare questa linea di condotta; potete ben immaginare come la pensa uno che desidera una bibita analcolica e si vede servire un altro whiskey. Mi interessa far notare come la parola policy sia adoperata in contesti molto lontani dalla Politica nel senso di politics. Poi anche in italiano si parla ormai di “politica” aziendale invece che di “strategia” aziendale, e qui “politica” riassume il concetto sia di politics che di policy.

    Il principio fondamentale di ogni buona terminologia è che a ogni concetto o oggetto corrisponda una e una sola parola. Ma è un principio che qualche volta viene dimenticato, soprattutto se c’è di mezzo la lingua inglese.

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    La pronuncia di Y

    Un’ascoltatrice mi ha pregato di parlare di Dylan Dog non per fare pubblicità ma perché è stufa di sentirsi correggere la pronuncia dai giornalai. Dylan, che è anche il cognome di Bob Dylan, si pronuncia infatti [dilan] e non [dailan]. La y si pronuncia [ai] quando è finale di parola ed è accentata: ad esempio, in my reply “la mia risposta”. Si pronuncia [ai] in molte parole, sempre in una sillaba accentata, anche se non è finale, come nel cognome di Mike Tyson o nel bypass. Ma non è sempre vero: oltre a Dylan, ricordo la città di Plymouth, che è un importante porto sulla Manica e che ha dato il nome ad altre due città degli Stati Uniti. Ci sono anche nomi comuni come dynasty, la dinastia — la pronuncia [dainasti] è americana, non britannica (un caso analogo è quello di privacy [privasi], che è [praivasi] oltre oceano) e parole dotte di origine greca come sycophant "il sicofante" o Sybarite [sibarait] "il sibarita."

    Normalmente la y è pronunciata [i] quando è seguita da due consonanti, come nella prima sillaba della parola mystery o della città di Sydney in Australia — questa ha la stessa pronuncia del nome Sidney che tra l’altro è il nome di Sidney Poitiers. E’ anche pronunciata [i] e non [ai] quando non è in una sillaba accentata, soprattutto in fine di parola, in vocaboli comuni come city "la città" o lady "la signora" e in nomi propri di città come Coventry e Derby o di persone come Gatsby, il grande Gatsby.

    Anche se non ho sotto mano dati precisi, direi che statisticamente ci sono più probabilità che una y si pronunci [i] che non [ai], e quindi Dylan [dilan] è forse più la regola che non l’eccezione — ammesso che si possa parlare di regole soprattutto se ci sono di mezzo i nomi propri.

    A proposito di city, la parola con la C minuscola indica genericamente la città. La differenza rispetto a town è che, storicamente, una city è sede vescovile e ha quindi una cattedrale, e una town invece no. Il fatto che oggi city sia in genere una città grande e town una città piccola è conseguenza di questa vicenda storica. La City of London o City con la C maiuscola è la storica città di Londra che oggi corrisponde alla zona con la Borsa, la Banca d’Inghilterra, i Lloyds, le banche e la Cattedrale di San Paolo. Per antonomasia, per City con la C maiuscola si intende il mondo della finanza e degli affari. Ma a Londra dovremo tornare qualche altra volta.

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    Il Regno Unito (per ora)

    Questa sera faremo un po’ di storia e di geografia, a partire da alcuni recenti referendum oltre Manica. Cominciamo col dire che l’Inghilterra, England, non è un’isola, ma occupa i tre quinti di un’isola che si chiama Great Britain, la Gran Bretagna, e che comprende Scotland, la Scozia e Wales, il Galles. La nazione britannica comprende anche Northern Ireland, l’Irlanda del Nord. Il suo nome è Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord — in inglese, The United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland e si chiama Regno Unito proprio perché nasce dall’unione del Regno d’Inghilterra, del Regno di Scozia, del Principato del Galles e dell’Irlanda.

    Anche la bandiera del Regno Unito richiama questa unione sia nel suo nome tradizionale, Union Jack, sia visivamente, perché unisce la croce di San Giorgio (rossa in campo bianco per l’Inghilterra), la croce di Sant’Andrea, (diagonale bianca in campo blu per la Scozia) e la croce di San Patrizio (diagonale rossa in campo bianco per l’Irlanda).

    Oggi l’Irlanda è una repubblica indipendente, fatta eccezione per sei contee settentrionali che formano la regione dell’Ulster.

    Se Scozia e Galles reclamano l’autonomia, non fanno altro che chiedere il ritorno a una fase storica precedente — il caso è molto diverso rispetto a quello dell’Italia Settentrionale, che non è mai stata una nazione autonoma. La Scozia ha avuto sovrani famosi come Mary Stuart, il cui nome è stato italianizzato in Maria Stuarda; è stata una nazione indipendente fino al 1707 anche se c’era stato lo stesso sovrano a capo dei due regni per circa un secolo, dal 1603, quando Giacomo VI di Scozia divenne anche Giacomo I d’Inghilterra. Se gli indipendentisti scozzesi più accesi si rifiutano di chiamare l’attuale regina Elisabetta II hanno ragione: Elisabetta I non è mai stata regina della Scozia ma solo dell’Inghilterra.

    La storia del Galles e del suo principato la ricorderò un’altra sera. Per ora volevo solo chiarire che Inghilterra, Gran Bretagna e Regno Unito non sono sinonimi.

    Uno scozzese non è un inglese, così come un abitante del Canton Ticino non è un Italiano. E dare dell’inglese a un gallese è come dare del veneto a un friulano o chiamare “piemontese” un valdostano: si rischiano reazioni... diciamo "vivaci"!

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    Signore e signori...

    Stasera parliamo di ladies e di gentlemen, di signore e signori. La lingua inglese ha tre forme diverse per il nostro "signore" (più una quarta, the Lord, per il Signore con la esse maiuscola) e dobbiamo distinguere tre casi. Il primo è quello in cui "signore" è accompagnato dal cognome, o nome o cognome, della persona a cui ci rivolgiamo e di cui parliamo; il signor Spencer è Mr Spencer.

    Secondo caso: se ci si rivolge con rispetto a un signore sconosciuto, si usa sir ad esempio in espressioni come Excuse me, sir, "scusi, signore." Sia nell’ambito militare che in quello scolastico si esige che il soldato o lo studente usi sir ogni volta che si rivolge a un superiore in grado, all’insegnante o al preside. In qualche scuola questa richiesta disciplinare si è attenuata, ma l’uso di sir è comunque segno di rispetto e buona educazione.

    Infine, terzo caso, parlando di un signore in terza persona, in frasi come "c’è un signore alla porta," si usa gentleman: there’s a gentleman at the door. Colloquialmente, gentleman è spesso abbreviato in man — ma è un po’ la stessa differenza che c’è tra "C’è un signore che vuole parlarti" e "C’è uno (o "un uomo" o "un tale") che vuole parlarti." In certi contesti gentleman corrisponde al nostro "gentiluomo." L’idea di nobiltà e di rettitudine che questa parola porta con sé oggi si va perdendo, ma si dice ancora, ad esempio, gentlemen’s agreement, accordo o patto tra gentiluomini, per un’intesa basata sulla fiducia reciproca nella correttezza altrui.

    Come sentite ogni sera, il plurale gentlemen si usa anche al vocativo, assieme a ladies, per i signori ai quali ci si rivolge collettivamente.

    Sir seguito dal nome e cognome (ad esempio, Sir Alec Guinness) e Lord seguito dal cognome (Lord Nelson) si usano al posto di Mr per le persone che hanno i rispettivi titoli o per nascita (Lord) o perché conferiti dalla Regina (Sir). Anche il vocativo cambia: se vi rivolgete a un Pari d’Inghilterra non chiamatelo Sir ma Milord. Per le consorti si usa Lady e il vocativo Milady.

    Voglio scusarmi con le signore in ascolto se ho parlato solo dei maschi, nobili e no. Ci sono complicazioni al femminile, per via delle discriminazioni tra "signora" e "signorina" e preferisco parlarne a parte, un’altra sera.

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    HALLOWEEN e GUY FAWKES

    E’ la vigilia dei santi e quindi parliamo di eve o even, la veglia o vigilia (una parola da cui viene evening, la sera) della festa di All Hallows, Tutti i Santi. La combinazione delle due parola dà Halloween. Le origini risalgono probabilmente a una festività celtica che segnava la fine dell’anno agro-pastorale e l’inizio dell’anno nuovo — un momento propizio per le divinazioni che, a quanto pare, invocavano anche gli spiriti del male. Negli Stati Uniti questa tradizione irlandese si è trasformata in una festa laica, in cui la zucca vuota e intagliata come un faccione mostruoso ricorda gli antichi demoni. Viene chiamata Jack O’ Lantern, il Jack della lanterna perché una candela la illumina dall’interno.

    Per dire Santo in inglese abbiamo due parole. Una è di origine latina saint e la adoperiamo davanti ai nomi: Saint Paul, St. Mary, ecc. e anche per indicare gli eletti: conosciamo tutti When the Saints go marching in. L’altra, hallow, di origine germanica come l’aggettivo holy, oltre che in All Hallows la troviamo come verbo nel Padre Nostro: hallowed be Thy name Sia santificato il Tuo nome.

    Il giorno successivo a All Hallows è All Souls’ Day, letteralmente "il giorno di tutte le anime" dei trapassati.

    Pochi giorni dopo abbiamo una festività britannica che da alcuni viene associata a Halloween ma che ha tutt’altra origine. Si tratta del Guy Fawkes Day. Nel 1605, un gruppo di cattolici tentarono di far saltare in aria il palazzo del Parlamento a Westminster e in esso re Giacomo primo e la sua famiglia, perché il re aveva rifiutato di varare norme di legge più tolleranti verso i cattolici. La notte tra il 4 e il 5 novembre la Congiura delle Polveri (Gunpowder Plot) fu scoperta, Guy Fawkes, un soldato, fu trovato nei sotterranei e sotto tortura rivelò i nomi dei complici. Lo scampato pericolo cominciò a essere celebrato ogni anno con una cerimonia di ispezione rituale dei sotterranei del Parlamento, e poi con falò, fuochi d’artificio e bruciando fantocci chiamati guys.

    A parte il fatto che in entrambi i casi si coglie l’occasione per festeggiamenti, soprattutto da parte dei bambini, e a parte la vicinanza nel calendario, le due ricorrenze sono diversissime per la loro storia e il loro significato, e per questo confonderle è del tutto fuori luogo.

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    Permette, signora?

    La sera in cui ho parlato di come si traduce "signore" in inglese ho promesso che avrei parlato anche di "signora" e "signorina." Anche qui si distinguono i tre casi. Il primo è quando segue il cognome o il nome e cognome: tradizionalmente abbiamo [misiz] (abbreviato Mrs) per una signora e Miss (che non è un’abbreviazione e si scrive con la M maiuscola) per una signorina. E’ stata proposta la forma Ms (simmetrica a Mr e pronunciata [miz]) per entrambe, ma finché non sarà entrata nell’uso abituale ci sarà chi la interpreta come indicazione del fatto che chi la usa è una donna divorziata, o convivente, o single non più giovane. Perché cambi la lingua occorre che cambino la mentalità e i costumi di chi la usa.

    Il vocativo formale e educato è madam in ogni caso; con miss, senza il cognome, ci si può rivolgere, ma non è cortese, a una donna giovane con mansioni che instaurano un rapporto di assistenza o di servizio — ad esempio una cameriera o una commessa. Al plurale, quando ci si rivolge a più persone, si usa ladies (è la terza parola di ogni mia chiacchierata, dopo il Good evening iniziale).

    Parlandone in terza persona, una signora sarà a lady anche se non è nobile: "una signora vuol parlarti" A lady wants to talk to you. Sempre più raro è l’uso di young lady per specificare che si tratta di una signorina. A livello colloquiale, senza tante cerimonie, si parla di a woman e a girl (rispettivamente, "una donna" e "una ragazza") invece di a lady. Lady è anche il femminile di lord, per le donne che per eredità, nomina della regina o matrimonio con un Lord o un Sir hanno un titolo nobiliare. La parola si usa anche con riferimento alla Madonna: Our Lady (Nostra Signora) è uno degli appellativi più comuni.

    La tendenza è quella di giungere a un sistema che elimini del tutto la distinzione tra donna nubile e donna sposata, così come avviene al maschile per celibi e ammogliati. In questo sistema avremo: Mr al maschile e Ms al femminile davanti al cognome; sir e madam al vocativo; gentleman e lady con riferimento formale a terze persone; man e woman per persone adulte, come forma colloquiale non particolarmente cortese; boy e girl, colloquialmente, per un ragazzo e una ragazza di cui si sta parlando.

    Ma nemmeno questo sistema trova tutti d’accordo, soprattutto perché woman, la donna, è parola che deriva da man, uomo, e questo non è accettabile da parte delle femministe.

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    Problemi di altro genere

    Più di una volta abbiamo accennato al sessismo nella lingua. Il problema si pone in tutte le lingue — anche per l’italiano ci sono state proposte di riforma — ma in inglese appare particolarmente acuto sia per la vitalità del movimento femminista americano sia per il ruolo di questa lingua nel mondo.

    La madre di tutte le battaglie antisessiste è la tendenza a usare il maschile intendendo non i maschi, ma maschi e femmine insieme: chi dice "ho tre figli" può intendere tutti maschi, o una combinazione di maschi e femmine; "ho tre figlie," invece, indica di sicuro tre femmine. Così come "l’uomo è mortale" significa "tutti, uomini e donne, sono mortali" — in inglese, Man is mortal, con man, che proprio in quest’uso generalizzante, è privo dell’articolo: man (non *the man) is mortal.

    L’inglese è molto più ricco dell’italiano di parole di genere comune: worker, ad esempio, è sia il lavoratore che la lavoratrice e student è sia lo studente che la studentessa. Il problema può sorgere quando per non ripetere la parola si usa un pronome; una volta si usava il maschile HE, "egli," intendendo he or she, ora bisogna usare entrambi i pronomi oppure ricorrere al plurale. In inglese, infatti, abbiamo un solo pronome they per i tre generi e questo risolve molti problemi che restano invece irrisolti in italiano perché noi abbiamo ESSI e ESSE. Invece di dire if a student has a problem, he must be helped ("Se uno studente ha un problema deve essere aiutato") si può dire if students have problems they must be helped, senza più il pronome maschile he, "egli," e con tutte parole di genere comune o neutro.

    Siccome però non sempre possiamo usare il plurale, e siccome usare ogni volta he or she è pesante, ci sono decine di proposte di pronomi non sessisti, di genere comune. Una delle poche che hanno avuto un qualche seguito, almeno finora, è quella che parte dai pronomi e aggettivi di terza persona plurale: they them their theirs e toglie a tutti il th iniziale; abbiamo quindi: ey per he or she; em per him or her; eir per his or her; e eirs per his or hers. Se qualcuno è interessato o interessata alle altre proposte analoghe, alcune delle quali sono veramente fantasiose, le può trovare anche su Internet cercando gender — il genere. Tra parentesi in inglese si dice sempre the Internet, con l’articolo davanti.

    Ma sul genere c’è ancora molto da dire. E’ un discorso che riprenderemo presto.

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    Altri problemi del genere

    Torniamo sulla guerra al sessismo nella lingua inglese. Un ovvio bersaglio è la parola man che si usa anche in molti composti, come il policeman e il cameramancameraman si usa anche da noi per indicare l’operatore televisivo, mentre in inglese indica anche quello cinematografico e genericamente chiunque usi una camera, un’apparecchiatura di tipo fotografico. Si insiste che questi termini devono essere sostituiti da policeperson e cameraperson, dato che non sono affatto professioni riservate a uomini.

    La prima volta che ho incontrato la parola personhole ho fatto fatica a capirla; si tratta di quello che si è sempre chiamato manhole, il tombino. E finora non mi è ancora capitato di vedere uscire una donna da un tombino ma naturalmente questo non vuol dire niente; in linea di principio anche il tombino delle fogne deve essere unisex.

    Il (o la) presidente di un comitato o di un’assemblea si è per decenni chiamato chairman. Qualora si trattasse di una donna, ci si rivolgeva a lei con Madam Chairman. Alla Conferenza di Pechino sui Diritti della Donna, la Signora Glendon, l’americana rappresentante della Santa Sede, ha iniziato il suo discorso con Madame Chairperson. In ambito universitario si sostituisce chairperson, che piace poco, con Chair — c’è qualche direttore di dipartimento che si presenta come Chair of Department. Questo è possibile perché come in italiano la parola "cattedra" indica sia il mobile che la docenza, lo stesso avviene con l’inglese chair, la sedia.

    Nemmeno la sostituzione sistematica di man con person soddisfa completamente; c’è chi ha notato, non saprei se sul serio o per scherzo, che person finisce con son, il figlio, e quindi a cameraperson dovremmo aggiungere cameraperdaughter — ove daughter, la figlia, è il femminile di son. Di sicuro ha fatto molto sul serio chi ha protestato contro history, la storia, sostenendo che si debba insegnare la herstory, la storia vista dal versante femminile. Il fatto che le parole latine Persona e Historia fossero entrambe, guarda caso, femminili e non c’entrano nulla con l’inglese son e his, pare che non conti. Così come a volte parrebbe secondario che una cameraperson donna abbia, a parità di competenza ed esperienza, lo stesso stipendio e le stesse prospettive di carriera di un uomo. L’importante è essere Politically Correct nel linguaggio, anche se l’estremismo verbale presta facilmente il fianco alla satira.

    Un "dizionario del Politically Correct English" è dedicato a una certa Donna Ellen Cooperman che dopo un anno di battaglie legali nei tribunali dello Stato di New York ha ottenuto di chiamarsi Donna Ellen Cooperperson. Sarà vero?

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    Boicottiamo gli Hooligan

    In occasione della partita Germania-Inghilterra di Italia ‘90, un giornale ha scritto che si attendevano circa 40 mila hooligans tedeschi e 25 mila inglesi. L’articolista sarebbe stato da denunciare per notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico; in effetti ci si aspettavano decine di migliaia di tifosi stranieri, non di teppisti violenti. Il pubblico si comportò in modo esemplarmente corretto e a Milano non ci furono incidenti e violenze di rilievo, a differenza di quanto è successo recentemente a Roma.

    Hooligan è il teppista, il bullo di periferia violento — non il tifoso di calcio che nella stragrande maggioranza dei casi, in Italia e all’estero, è una persona civile che va allo stadio per divertirsi e non per picchiare. La parola è di origine incerta, anche se vari dizionari la fanno risalire a un secolo fa, e precisamente al 1898. Una canzone parlava degli Hooligan, una famiglia turbolenta di origine irlandese e c’era anche un personaggio dei fumetti, Patrick Hooligan, ambientato in un quartiere popolare di Londra a sud del Tamigi.

    Gli stessi dizionari non fanno assolutamente riferimento agli stadi sportivi, e in inglese infatti si specifica football hooligans per quelli che da noi sono hooligan e basta.

    Sempre negli stessi anni c’è stato un altro personaggio, questa volta reale, il cui cognome è diventato un nome comune, il Capitano Charles Boycott. In inglese boycott è sia il verbo boicottare che il boicottaggio. Ex ufficiale dell’esercito britannico, si trasferì in Irlanda dove si occupò di amministrare i terreni di un nobile della contea di Mayo, in un’epoca di carestie che aveva portato gli agricoltori a riunirsi in lega per ottenere una riduzione degli affitti agrari. Quando nel 1880 egli non solo si rifiutò di ridurre gli affitti ma cercò di sfrattare gli affittuari, la Land League (Lega della Terra) guidata dallo statista irlandese Parnell fece di lui la vittima del primo boicottaggio: nessuna violenza, ma nessuno più gli rivolse la parola, né tanto meno si prestò a svolgere i lavori necessari nelle proprietà da lui amministrate.

    Dopo aver cercato di far venire altri lavoratori dall’Ulster, cedette e tornò in Inghilterra. L’anno successivo fu promulgata dal primo ministro Gladstone la Legge sulla Terra (Land Act, 1881), che istituiva tribunali per stabilire quale fosse il canone equo, e le condizioni degli agricoltori irlandesi migliorarono notevolmente. Al Capitano Boycott rimase solo la magra soddisfazione di aver legato il suo nome a una parola che dalla lingua inglese è poi entrata in molte altre, compresa la nostra.

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    Il Principe di Galles

    Mantengo la promessa, fatta in una trasmissione precedente, di parlare del Galles (in inglese Wales). Nel 1283 re Edoardo I d’Inghilterra, conquistato il Galles condannò a morte Davide III, l’ultimo principe del Galles. Ne seguì una serie di lotte e un periodo di grave incertezza politica che terminò nel 1301 quando il Re diede ai nobili locali un Principe di sangue reale, erede al trono, nato nel Galles, purché essi riconoscessero la sua sovranità.

    Essi accettarono: si trattava di suo figlio, il futuro Edoardo II, nato a Caernarvon, un castello del Galles settentrionale. Da allora, e fino ai nostri giorni, all’erede presunto al trono di Inghilterra viene di norma attribuito il titolo di Principe di Galles. Alcuni tra i Principi di Galles ebbero un ruolo importante nella vita politica britannica — in particolare il figlio di Giorgio III che divenne principe reggente a causa della malattia mentale del padre, e poi gli succedette come Giorgio IV.

    Il Galles ha sempre mantenuto una certa dose di indipendenza dall’Inghilterra malgrado i quasi sette secoli di unione. Il risultato del recente referendum sarà di accentuare l’autonomia per una serie di questioni politiche importanti. All’estero ci si accorge del Galles soprattutto per la sua squadra nazionale di calcio, distinta dalle altre squadre britanniche (quella inglese, quella scozzese e quella dell’Irlanda del Nord). In realtà i circa tre milioni di Gallesi conservano un forte senso della loro identità nazionale e in molti hanno cercato di mantenere vive le tradizioni locali e soprattutto la lingua, una delle varietà britanniche della lingua celtica — altre varietà le troviamo in Cornovaglia, in Scozia e in Irlanda.

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    Coppie sull’orlo di una crisi etimologica

    I vocaboli inglesi sono per la maggior parte di origine germanica, ma ce ne sono molti di origine latina, spesso entrati in inglese attraverso il francese. Per questo motivo ci sono dei doppioni che però non sono quasi mai sinonimi. Si cita spesso, ma proprio perché è eccezionale, il caso di wonderful e marvellous, che significano entrambi "meraviglioso" e per i quali è difficile trovare delle differenze di significato e di uso. Di solito le parole si specializzano e assumono significati diversi.

    Prendiamo il caso di liberty e freedom, la libertà. Liberty è il concetto di libertà come valore e ideale. La Goddess of Liberty, letteralmente la "Dea della Libertà" è quella raffigurata nella famosa statua nella baia di New York. Freedom è invece la libertà nelle sue espressioni specifiche e concrete: la libertà di stampa è freedom of the press, e Oh Freedom è un canto famoso degli schiavi americani di origine africana. Le due parole non sono sinonime e quindi non sono intercambiabili.

    Un altro caso riguarda il tavolo. La parola di etimo germanico, desk, sorella della parola tedesca Tisch, nell’inglese d’oggi si è specializzata per indicare il tavolo su cui si scrive, la scrivania, lo scrittoio o il banco di scuola. Negli altri casi si usa una parola che deriva dal latino tabula attraverso il francese table, e che si scrive come in francese ma si pronuncia [teibl].

    Una libreria è un bookshop se vende libri, oppure un bookshelf o bookcase se si parla dello scaffale o dell’armadio per i libri. La parola neolatina library è invece la biblioteca, dove i libri si consultano o si prendono a prestito, e ora anche la collezione di programmi o di altre routine nei materiali informatici.

    Abbiamo già parlato in un’altra occasione delle coppie come ox e beef, ossia quelle in cui l’animale ha il nome anglosassone e la carne il nome derivato dal francese. Un altro caso interessante, che riguarda una serie di parole, è quello delle parti del corpo, che hanno nomi germanici; gli aggettivi corrispondenti, che si usano soprattutto nel linguaggio medico, sono di origine latina: heart è "il cuore" e cardiac è "cardiaco;" liver è "il fegato" e hepatic è "epatico;" lungs sono "i polmoni" e pulmonary è "polmonare," e così via.

    Conclusione: le risorse a cui può attingere l’inglese le sfrutta tutte, ma evitando doppioni e sovrapposizioni.

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    Com-prendere, ap-prendere, sor-prendere...

    Una difficoltà per chi apprende la lingua inglese è costituita dai cosiddetti phrasal verbs o verbi frasali, quelli formati da un verbo e da una preposizione o particella avverbiale. Il verbo look significa "apparire, sembrare:" he looks tired, "sembra stanco, ha l’aspetto stanco;" significa anche "guardare" nelle forme imperative: look, Lucy’s here, "guarda, c’è qui Lucy." Ma he was looking at her photo significa "guardava la sua foto, la fotografia di lei," mentre he was looking for her photo vuol dire che "cercava la sua foto." look, look at, look for e look after (di cui diremo tra poco) sono quattro verbi diversi, a cui possiamo aggiungere look into, look up e vari altri.

    Anche in italiano abbiamo i verbi frasali. La differenza è che la particella è prima ed è unita al verbo, invece di essere dopo e separata. Prendiamo ad esempio "condurre produrre sedurre addurre dedurre tradurre indurre e introdurre." Ognuno di questi verbi ha un suo significato che non è la somma dei suoi componenti. Altrimenti, INDURRE e INTRODURRE significherebbero entrambi "portare dentro;" in realtà sappiamo che si può solo INDURRE IN ERRORE e INDURRE IN TENTAZIONE, mentre INTRODURRE ha vari altri sensi e usi. E come CIRCOSCRIVERE non vuol dire SCRIVERE ATTORNO (pensiamo la significato di CIRCOSCRIVERE UN INCENDIO) così look after non vuol dire "guardare dopo" ma "prendersi cura di, badare a." The baby-sitter is looking after the children "la baby-sitter si sta occupando dei bambini."

    L’errore è perciò quello di tentare di imparare i verbi frasali cercando di dare senso alle parti che li compongono, invece di impararli come unità a sé stanti, e nel loro contesto. Infatti anche i frasali, come tutti i verbi, possono avere più di un significato. Pensate al diverso valore di “iscrivere” nelle frasi “un bambino iscritto a scuola” e “un triangolo iscritto in un cerchio”. Il titolo di un film di qualche anno fa giocava sui molti significati di take off: il decollare degli aeroplani, il togliersi gli abiti, il fare l’imitazione di qualcuno, e altri ancora.

    Paradossalmente, capisce meglio che cos’è il make up (il trucco, nel senso di "uso dei cosmetici") chi ignora i significati di make e di up come parole distinte, e se li sa non ne tiene conto.

    Le lingue sono ricche di questi paradossi — e meno male, se no non avrei gran che da dirvi.

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    Casa, dolce casa

    Un celebre romanzo di E.M. Forster, Howards End, è stato tradotto in italiano, anche nella versione cinematografica, come “Casa Howard”. Tutti i traduttori hanno avuto difficoltà a rendere certi passi del testo in cui il discorso faceva leva sulla differenza tra house, la casa come edificio o come casa d’altri, e home, la casa come centro degli affetti e come casa propria, ossia del soggetto della frase.

    Se dico I’m going home voglio dire che "io sto andando a casa mia" e she’s going home "lei sta andando a casa sua;" se io vado a casa sua I’m going to her house e se invito qualcuno a casa mia gli dico come to my house (il soggetto sottinteso di come è you e per questo soggetto la mia è una house, non home). Espressioni tipiche in questo senso sono make yourself at home ("fa’ come se fossi a casa tua") e he felt perfectly at home there, "là si sentiva perfettamente a suo agio." Quella che uno sente come la propria città, quella degli affetti più cari, è la home town: la sua città è Parma, her home town is Parma.

    Home è anche il contrario di foreign, estero; se il Foreign Office è per gli inglesi il Ministero degli Esteri, lo Home Office è quello degli interni; e home trade, il commercio nazionale, si contrappone a foreign trade, il commercio con l’estero.

    Nel baseball, home base è la base di partenza e arrivo e su Internet la home page è la pagina iniziale con cui un sito si presenta al visitatore e dalla quale si accede alle altre. Home ha quindi queste connotazioni di "accoglienza" e di "rientro a casa propria."

    Nei composti il valore può cambiare: per esempio homework è il compito a casa per lo studente, mentre housework è il lavoro della massaia, le faccende domestiche.

    Tornando a “Casa Howard”, il problema di una resa adeguata di home è stato in parte risolto dal fatto che mentre la parola inglese è neutra, la parola “casa” è femminile e quindi è facile accentuare gli aspetti femminili e materni della casa, generatrice di affetti e accogliente. Home, Sweet Home – casa, dolce casa.

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    Specialità locali

    Dal Gorgonzola al Chianti, molti cibi e bevande prendono il nome dalla località di origine. La città di Amburgo ha dato al mondo, oltre ai galletti amburghesi, gli hamburger, che sono diventati il cibo rapido, o fast food, per eccellenza. Sono fatti di carne macinata e quindi il prosciutto, ham, non c’entra per nulla – o c’entra come il “vero” nel nome della città di Verona.

    Tuttavia la coincidenza ha fatto sì che la parola venisse divisa in ham e burger e che di lì si partisse per formare nuove parole composte, come cheeseburger, al formaggio, fishburger, a base di pesce, ecc. A questo punto si pone il problema di come chiamare gli hamburger normali, quelli di carne, ma è stato risolto o con beefburger o dando loro dei nomi di fantasia, spesso sulla base del nome della catena di fast food o di qualche altra caratteristica.

    E’ curioso come in un paese repubblicano come gli Stati Uniti si usi spesso la parola king per oggetti di dimensioni superiori al normale – di qui i king burger per le porzioni abbondanti. Apriamo una parentesi: negli alberghi americani, i letti king size sono letti matrimoniali smisurati, molto più grandi dei nostri; la dimensione leggermente inferiore, ma sempre più grande del normale, è detta queen size, la misura da regina.

    Che cosa mettiamo sugli hamburger? A seconda dei gusti, il ketchup, una parola di origine malese, oppure la Worcester sauce – [wusta] è la pronuncia inglese della città che ha dato nome alla salsa, e che da noi viene detta [worsesta] o in svariati altri modi. Altre città in cui la sillaba ce della terminazione cester non si pronuncia sono Gloucester [glòsta] e Leicester [lèsta] – a Leicester si sono svolti anni fa i campionati mondiali di ciclismo e gli errori di pronuncia erano all’ordine del giorno.

    Una curiosità storica: questi nomi di città, così come quelli di Chester, Manchester, Winchester, Rochester e altri derivano dal latino CASTRA, che era l’accampamento militare.

    Tornando alla Worcester sauce: sarà bene che, come sempre e comunque, chiediamo la salsa che vogliamo così come la chiedono tutti gli altri. Meglio un inglese adattato alle circostanze che dover mangiare quello che non ci piace.

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    Conventuali di tutti i colori

    Un episodio tragico e oscuro della storia recente d’Italia ha avuto il suo epilogo sotto uno dei ponti di Londra, il Blackfriars Bridge. Ma chi sono questi "frati neri?" Nell’uso popolare e tradizionale inglese sono i Domenicani, dal cui convento situato nei pressi ha preso nome il ponte. Non sono i soli a essere conosciuti per il colore dominante dell’abito: i White Friars (frati bianchi) sono i Carmelitani e i Grey Friars, i frati grigi, sono i Francescani.

    Queste forme popolari sono segno di una presenza radicata tra la gente, un modo per chiamare questi religiosi con parole semplici e familiari invece delle parolone di origine latina così estranee alla sensibilità inglese (Dominican, Franciscan, Carmelite).

    Nella toponomastica della Grande Londra ci sono tanti riferimenti di carattere religioso, a cominciare dall’altra city che insieme alla City of London è stato uno dei nuclei attorno ai quali è cresciuta la Londra attuale: parlo della City of Westminster. Westminster è il "monastero dell’ovest," perché in effetti si trova a ovest dell’antica Londra. Tra Londra e Westminster c’erano boschi, prati e paludi. Una delle ipotesi sull’origine di Soho, il nome di quella che adesso è la zona dei locali notturni, è che fosse un richiamo usato dai cacciatori.

    A Westminster troviamo oggi i palazzi sedi della famiglia reale, del Parlamento, del Primo Ministro e dei principali ministeri. Il cuore storico è la Westminster Abbey, l’abbazia in stile gotico che assieme alle cattedrali di Canterbury e York è una delle sedi principali della Chiesa d’Inghilterra e che è nota soprattutto per le cerimonie che riguardano i Reali d’Inghilterra, dalle incoronazioni ai matrimoni ai funerali. Durante il funerale della principessa Diana, i telecronisti italiani hanno più volte chiamato l’abbazia "cattedrale." Abbey e Cathedral ("Abbazia" e "Cattedrale") non sono mai stati sinonimi, ma nel caso particolare la confusione deve essere assolutamente evitata.

    Infatti la Westminster Cathedral, la cattedrale di Westminster, è la cattedrale cattolica di Londra; si trova nello stesso quartiere, a non molta distanza fisica dall’Abbazia ma separata da una Riforma protestante.

    Nella City of London c’è invece una cattedrale anglicana, St Paul’s Cathedral, la cattedrale di San Paolo; è un imponente edificio neoclassico, una delle chiese più grandi del mondo.

    Un’altra cattedrale, molto meno famosa, si trova a sud del Tamigi; tre cattedrali e un’abbazia per una città che è nata non da un centro ma da molti, che pian piano si sono fusi in una delle metropoli più interessanti, e nella quale ritorneremo.

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    Ma che fai?

    Il verbo italiano "fare" è tradotto in inglese in molti modi, a seconda che sia seguito da un complemento oggetto (ossia dal nome della cosa che viene fatta) o da un altro verbo — in espressioni come "fammi vedere le fotografie" o "farò lavare l’auto."

    Cominciamo dal primo caso, nel quale al verbo “fare” italiano corrispondono anzitutto i verbi do e make, ma anche molti altri. Ad esempio, "fare attenzione" e "fare una visita" sono pay attention e pay a visit, con il verbo pay che in altri contesti significa "pagare." Spero che nessuno lo trovi particolarmente strano: in italiano diciamo anche "prestare attenzione" come se l’attenzione fosse qualcosa che vogliamo indietro dopo averla consegnata per qualche tempo agli altri — come se questo “prestare” fosse lo stesso di "prestare denaro."

    Qual è la differenza tra do e make? Molti testi presentano delle "regole" che però funzionano poco e male, come quelle che distinguono tra attività intellettuali e attività pratiche, a cui corrisponderebbero rispettivamente do e make. Make è certamente il fare materiale, il fabbricare e costruire: made in Italy, prodotto in Italia, è un’espressione che gode di ampio prestigio nel mondo.

    Mother is making a cake, la mamma sta facendo una torta, è un esempio che viene dato spesso a questo proposito. E in effetti, la torta prima non c’era e dopo il lavoro della mamma c’è. A tutt’altro livello troviamo frasi come let us make man in our image "facciamo l’uomo a nostra immagine" e Maker è uno degli attributi di Dio in quanto creatore.

    Ci sono però dei casi che possono lasciare perplessi: make money non è "fabbricare denaro" ma "far soldi, arricchirsi;" e in TO make progress, "far progressi," può non esserci alcun riferimento a attività materiali — nel senso che uno può far progressi nella conoscenza di una materia o nella comprensione di qualche problematica. Per converso, TO do business, "fare affari," può essere un’attività pratica, a volte frenetica.

    Un’altra coppia di esempi può essere chiarificatrice: se fate un esercizio e commettete degli errori, you do an exercise and you make mistakes in it. Come mai due verbi diversi se l’attività è intellettuale in entrambi i casi? La differenza è che un esercizio è già pronto, preparato da altri — eventualmente è un insegnante che makes an exercise nel senso che lo redige, lo prepara; ma gli sbagli sono il frutto della creatività di chi li commette.

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    Responsabilità e condivisione

    Quando ho cominciato a occuparmi di inglese commerciale, molti anni fa, mi sono accorto di un fraintendimento ricorrente da parte di persone che, entrate in rapporto di affari con aziende britanniche di grandi dimensioni, si stupivano che queste fossero solo delle società a responsabilità limitata. Fonte dell’errore era il limited, abbreviato Ltd, in fondo al nome della ditta, che loro assimilavano al nostro S.r.l., Società a Responsabilità Limitata, un tipo di società poco adatto alla gestione di grandi imprese.

    Ora dovrebbe essere noto che Ltd corrisponde più da vicino al nostro S.p.A., società per azioni, così come l’americano Incorporated, abbreviato Inc. Più da vicino ma non esattamente, perché mentre da noi il codice elenca vari tipi di società, dalla società di fatto alla Società per Azioni, e la scelta è precostituita, il codice inglese distingue solo tra la partnership, la società di persone, e la company, la società di capitali. E’ poi compito dell’atto costitutivo e dello statuto precisare come sono regolati i rapporti tra i soci, distribuiti gli utili, e così via. Nella maggior parte delle companies private la responsabilità dei soci è limitata alle quote azionarie possedute — di qui il Limited.

    Da qualche tempo abbiamo anche le plc — Public Limited Companies come la British Telecom.

    Un’azione si chiama share, ed è la stessa parola che in un altro contesto indica la quota di pubblico che si sintonizza su una certa trasmissione, come percentuale totale del pubblico di ascoltatori o spettatori. L’azionista è colui che tiene azioni o shareholder. Share è anche un verbo che si usa in frasi come share an opinion, "condividere un’opinione" e share a room, "dividere una stanza con qualcuno."

    Un’altra parola interessante, tornando sull’argomento degli affari, è proprio la parola business. In realtà le parole sono due: una è sempre singolare con valore collettivo e si riferisce agli affari; anche il detto business is business, "gli affari sono affari," ci ricorda che business è singolare e vuole il verbo is. Non condivido il concetto, ma linguisticamente è un esempio interessante. L’altra parola business vuole dire "azienda, impresa" e quindi quando occorre ha il plurale regolare businesses. Speriamo di essere in molti a poter dire new businesses have opened in our area, "nella nostra zona si sono aperte delle nuove aziende."

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    Chi te lo fa fare?

    L’altra sera abbiamo parlato del verbo fare seguito da complemento oggetto, in espressioni come "fare la spesa" do some shopping, "fare un abito" make a dress, "fare attenzione" pay attention. Questa sera vediamo di dire qualcosa su "fare" seguito da un altro verbo, in frasi come "far vedere qualcosa a qualcuno" o "far lavare l’automobile." Vorrei evitare spiegazioni grammaticali, ma una distinzione è necessaria e cercherò di chiarirla con un paio di esempi. Se dico che una ditta "fa lavorare molti dipendenti," quei dipendenti lavorano; se dico che "fa lavorare molti capi di abbigliamento," quei capi non lavorano ma sono lavorati. Nel primo caso, "lavorare" ha valore attivo, nel secondo caso è passivo. Un altro esempio lo uso solo quando gli studenti hanno ben chiaro che non intendo offendere nessuno: ed è la differenza tra "vi faccio studiare l’inglese" dove studiare è attivo, e "vi faccio studiare da uno psichiatra," dove studiare è passivo — in questo caso gli studenti non studiano ma sono studiati.

    Per ora ci occuperemo solo del "fare" seguito da infinito con valore attivo; in inglese bisogna ulteriormente distinguere se questo "fare" abbia il valore di "permettere," di "costringere," di "convincere" o altro. Nel primo caso, "permettere," si usa Let: "fammi vedere le tue foto" let me see your photos — "fammi sapere quando arrivi" let me know when you arrive.

    Nel secondo caso, "causare o costringere" si usa make: "mi ha fatto perdere tempo" he made me waste my time "Solo tagliare le cipolle lo fa piangere" Only cutting onions makes him cry. Si noti che il verbo che segue let e make è alla forma semplice, ossia all’infinito senza il to: he made me waste my time (non *to waste), only cutting onions makes him cry (non *to cry).

    Nel senso di "ottenere e convincere" si usa GET; "mi ha fatto accettare il suo invito" she got me to accept her invitation; "la mamma ha fatto fare la spesa a Mary" mother got mary to do the shopping. Qui avrete notato che invece l’infinito è con il to: got me to accept, got mary to do. Degli altri casi parleremo un’altra volta, se no ci complichiamo troppo la vita.

    Desidero concludere invece con un cenno alla parola shopping che stasera ho usato in un paio di esempi. Da noi la adoperiamo per le spese nei negozi del centro, soprattutto per regali e generi voluttuari. Per un inglese going shopping vuol dire semplicemente andare a far le compere, comprese quelle per la spesa quotidiana di cibo e di articoli per la casa. È il solito uso, sempre più frequente da noi, di parole inglesi per ciò che dà un certo tono e di quelle italiane per le occupazioni quotidiane, senza tener conto più di tanto del significato originale.

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    La pronuncia di O

    Per una serie di vicende storiche che qui non è il caso di analizzare, molte parole inglesi scritte con la lettera o si pronunciano con la stessa vocale che troviamo in parole scritte con la u come bus, l’autobus. Ci sono in questo gruppo parole molto frequenti, come il verbo"venire," come, il participio passato di do, done "fatto," mother e brother, "madre e fratello," love, "l’amore" e il verbo "amare," e numerose altre. Un caso particolare riguarda le parole son e sun: scritta con la o è "il figlio," scritta con la u è "il sole," ma la pronuncia è identica. A queste parole bisogna aggiungere quelle che ne derivano, come lover, lovely e lovable da love.

    Ho fatto questa premessa per segnalare un errore frequente nella pronuncia di parole come company la società in senso commerciale o la compagnia in genere, del nome della città di Londra, London, e di comfort che si usa spesso per i servizi, le attrezzature e le comodità offerte da un albergo o da altre strutture ricettive. Ripeto che la pronuncia inglese di comfort ha nella prima sillaba la stessa vocale di much love, e sottolineo che prima della F in inglese c’è una M e non una N come nel finto inglese degli opuscoli turistici.

    Un’altra parola di questo tipo è cover, nota da noi soprattutto nel senso di "copertina delle riviste" e nei composti cover girl, la "ragazza di copertina," e cover story, l’articolo più importante richiamato dal titolo sulla prima pagina. Da cover deriva il verbo TO discover, "scoprire," e da questo Discovery, che è il nome di una delle navicelle spaziali americane.

    Un’altra sera ho parlato di in front of per dire che non significa "di fronte" ma "davanti:" the seat in front of you è "il posto davanti a voi" (la frase la sentiamo in aereo quando ci viene indicato dove possiamo mettere il bagaglio a mano). Qui la ripeto per far notare la pronuncia di front.

    Certamente ci troviamo di fronte a una difficoltà di pronuncia, nel senso che la grafia non ci aiuta: cover e lover si pronunciano come abbiamo detto, mentre Dover, la città delle bianche scogliere, e rover, negli scout e nella Land Rover si pronunciano con il dittongo [ou]. In story, che abbiamo detto a proposito di cover story, la pronuncia della o è [o:] (o lunga) e tutti questi suoni vocalici sono diversi dalla pronuncia più frequente della lettera o in parole come stop o non-profit. Questi problemi li ritroviamo per tutte le vocali inglesi, e ci sarà ancora molto da dire.

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    In attesa della Natività

    E’ tempo di Avvento e dedicheremo alcune trasmissioni al Natale così come si presenta nella lingua e nella tradizione inglese. Cominciamo proprio dalla parola Christmas, il Natale, una parola che conosciamo anche attraverso canzoni molto popolari negli Stati Uniti come White Christmas, Bianco Natale. Christmas si compone del nome di Cristo, Christ, e del suffisso -mas che ha la stessa origine della parola Mass, "la messa," ma si scrive con una S sola e significa "festività." Troviamo questo suffisso anche per altre ricorrenze come Candlemas, la Candelora (la festa della Purificazione, il 2 febbraio) e Michaelmas, San Michele — 29 settembre — data tradizionale dei trasferimenti nel settore agro-pastorale e usata anche per indicare l’inizio dell’anno scolastico e accademico. In varie istituzioni il semestre autunnale si chiama tuttora Michaelmas Term.

    Tornando al Natale, o meglio al suo nome inglese, notiamo per prima cosa che il nome di Cristo, Christ [kraist], nelle parole composte e derivate si pronuncia o [krist], come in Christian, "cristiano," e Christianity, il "cristianesimo," o [kris] senza la [t] in Christmas, Christendom, "la Cristianità," e christen "battezzare." Esistono anche le parole di origine greca baptize e baptism per "battezzare" e "battesimo," ma si preferiscono christen e christening, rispettivamente. Il “nome di Battesimo” è il Christian name ma nei documenti ufficiali questo termine non si può più usare perché non è politically correct nei riguardi dei non-cristiani.

    Avrete forse notato una divergenza tra italiano e inglese: da noi la Cristianità è l’insieme dei cristiani di tutto il mondo e dei paesi che essi abitano; in inglese questo è il Christendom, con lo stesso suffisso che troviamo in kingdom il "regno" da king "re:" è il territorio, in senso lato, su cui regna il Cristo. La parola Christianity indica invece il "cristianesimo," la religione cristiana nelle sue varie confessioni.

    E a questo proposito sarà utile sapere che professarsi cristiani, ad esempio in Irlanda, dicendo I am a Christian significa avere molte probabilità di essere ritenuti protestanti, mentre un cattolico di solito si dichiara tale: I am a Catholic. Molti inglesi usano poi Roman Catholic, "cattolico romano," proprio perché un tratto caratteristico è la fedeltà al Papa e alla Chiesa di Roma.

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    Riesco a farmi capire?

    Ritorniamo sul verbo "fare" e sulle sue traduzioni in inglese per occuparci del caso in cui è seguito da un altro verbo, all’infinito, con significato passivo. Si tratta di frasi come "ho fatto lavare l’automobile:" il verbo lavare ha valore passivo perché l’automobile non lava ma viene lavata. Il contrario avviene in "ho fatto partire l’automobile" dove l’automobile parte e quindi il verbo partire è attivo. Una frase come "ho fatto lavare l’automobile" oppure "ha fatto riparare il tetto" richiede che "fare" sia tradotto con la forma appropriata del verbo HAVE oppure GET, a cui seguono, nell’ordine, l’oggetto che riceve l’azione e il participio passato del verbo che corrisponde all’infinito italiano:

    I had my car washed, He got the roof mended

    Qui è importante l’ordine delle parole: they have cleaned their room vuol dire che "hanno pulito la loro camera;" they have their room cleaned vuol dire che la fanno pulire da qualcun altro.

    Una frase che in italiano è ambigua, come "ho fatto avviare il motore" in inglese ha due traduzioni: I have started the engine se il motore l’ho avviato io, e I have had the engine started se l’ho fatto avviare da qualcun altro.

    Un caso ancora diverso riguarda il verbo "fare" alla forma riflessiva, in frasi come "farsi capire" o "farsi rispettare;" in inglese abbiamo il verbo make seguito dal pronome riflessivo e dal participio passato dell’altro verbo. "Riesco a farmi capire in inglese" è I can make myself understood in English, e "si fa amare e rispettare da tutti i suoi scolari" è she makes herself loved and respected by all her pupils.

    Infine ci sono casi in cui abbiamo verbi specifici che traducono in inglese il nostro "fare" seguito da infinito; uno l’abbiamo già visto, ed è quello di start per "far partire." Un altro caso è quello di "far pagare" che in molti casi corrisponde al verbo inglese charge: "Quanto fanno pagare per entrare?" How much do they charge for the entrance? Un altro esempio: The hotel charged me 20 pounds for the extras, "l’albergo mi ha fatto pagare 20 sterline per gli extra."

    Spero di essere riuscito a dipanare, almeno in parte, una matassa molto ingarbugliata; ho fatto del mio meglio — I have done my best.

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    Affari, notizie e informazioni

    Sere fa parlavamo di società e imprese e ho usato la parola businesses, al plurale, per dire "le aziende;" ricordavo anche il detto business is business, "gli affari sono affari," che non mi piace come concetto ma che illustra molto bene il fatto che business in questo senso è singolare, seguito dal verbo is, anche se corrisponde a un plurale in italiano "affari."

    Ci sono altri casi del genere: parole come information, le "informazioni," news, le "notizie" e advice, i "consigli:"

    This information is very useful "Queste informazioni sono molto utili"

    This is very good news "Queste sono ottime notizie"

    Your advice was precious "I tuoi consigli sono stati preziosi"

    Di solito possiamo usare questi singolari con valore collettivo anche quando parliamo di un’informazione, di una notizia o di un consiglio al singolare. Se mi viene data un’informazione, posso dire Thank you for the information. Se proprio occorre specificare che ci riferiamo a elementi singoli possiamo ricorrere a a piece of information, "un’informazione," a piece of news, "una notizia," a piece of advice, "un consiglio." Si ricorre a queste forme quando si specifica il numero: "Ho due notizie per te" I’ve got two pieces of news for you.

    L’opposto avviene con people, "la gente, le persone," che è sempre plurale in questo senso. "Molta gente era in ritardo a causa della neve" Many people were late because of the snow — dove many e were sono forme plurali che concordano con people. People si può adoperare con un numero: There were ten people in the waiting-room "c’erano dieci persone nella sala d’attesa;" qui si può anche adoperare persons ma è meno frequente: there were ten persons... Person è il singolare di people: "conosco molte persone, ma una sola ti può aiutare" I know a lot of people, but only one person can help you.

    Ci sono dei singolari con valore collettivo, come Parliament e police; sono usati al singolare quando li si descrive nel loro complesso: "il parlamento britannico si compone della Camera dei Comuni e della Camera dei Lord" The British Parliament consists of the House of Commons and the House of Lords. Quando invece ci si riferisce all’attività dei componenti si usa il plurale: "la polizia ha arrestato un delinquente pericoloso" The police have arrested a dangerous criminalhave arrested, non has.

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    Un nome al giorno

    I nomi dei giorni in inglese si richiamano alla mitologia germanica, ma con curiose affinità con i nostri perché in buona misura modellati sull’uso dei Romani, i quali a loro volta avevano ereditato l’uso dei Babilonesi. Cominciamo con la domenica, che nell’uso inglese è il primo giorno della settimana. Nella nostra lingua è la dies dominica, il giorno del Signore, in inglese, come in Latino, è il giorno del sole, il Sunday.

    Poi viene il lunedì o giorno della Luna — in inglese Moon, da cui Monday, con una variazione nella vocale di Moon. Il giorno del primo sbarco sulla luna, nel 1969, negli Stati Uniti era lunedì (da noi, per la differenza di fuso orario, era già martedì) e quel giorno venne proclamato il Moon Day.

    Il dì di Marte è dedicato a un dio guerriero della mitologia nordica, Tiw, da cui Tuesday. Tiw era uno dei figli di Odino o Woden, in antico inglese, da cui Wednesday, anche qui con una variazione nella vocale. La somiglianza con Woden si coglie di più nella grafia, visto che nella pronuncia la prima D di Wednesday è muta. Il dì di Giove tonante è Thursday, il giorno di Thor, il dio del tuono che in inglese si chiama infatti thunder.

    Arriviamo a venerdì, che anche in inglese è dedicato a una donna, Frigg la moglie di Odino, dea dell’amore e della bellezza, come Venere; da Frigg a Friday c’è una normale evoluzione della vocale [i] in [ai].

    Saturday, il sabato, viene da Saturn, Saturno, e anche qui è stata preservata la mitologia romana. Noi abbiamo chiamato questo giorno “sabato” dall’ebraico Shabbat (che deriva da shavat, "smettere," o "astenersi").

    Il martedì grasso, ultimo giorno di carnevale, si chiama Shrove Tuesday, da un verbo shrive che significava "far penitenza, confessarsi;" il cibo tradizionale sono le frittelle, fatte con le uova e il grasso proibiti durante la Quaresima.

    Ash Wednesday e Palm Sunday corrispondono esattamente al mercoledì delle Ceneri e alla Domenica delle Palme.

    Il giovedì santo è detto anche Holy Thursday ma più tradizionalmente Maundy Thursday, dove maundy viene da mandatum: "Mandatum novum do vobis" ("vi do un comandamento nuovo;" dal Vangelo di Giovanni al cap. 13).

    I nomi dei giorni in inglese sono tutti neutri, in italiano sono sei maschili e uno femminile, con buona pace della logica. I nomi inglesi dei mesi sono del tutto simili ai nostri e se da un lato sono quindi meno interessanti, dall’altro sono molto più facili da imparare.

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    Avere o non avere...

    TO BE OR NOT TO BE... no, non vi recito l’Amleto, ci mancherebbe altro, ma vi parlo dei tanti usi del verbo TO BE e in particolare di quelli in cui non corrisponde al nostro verbo "essere." Cominciamo con l’aver fame, sete e sonno: I AM HUNGRY, "ho fame," I AM THIRSTY, "ho sete," I AM SLEEPY, "ho sonno."

    E poi aver freddo o caldo: I’M COLD, "ho freddo," ARE YOU WARM? "Hai abbastanza caldo?" ARE YOU HOT? "Hai troppo caldo?" — Apro una parentesi per sottolineare, attraverso i due ultimi esempi, che in inglese abbiamo due aggettivi per caldo: WARM è il caldo che fa piacere, il tepore confortevole; HOT è il caldo eccessivo, fastidioso, almeno se stiamo parlando di clima. Infatti se uno ama il tè ben caldo, la HOT WATER, "l’acqua bollente," è tutt’altro che sgradita. Se vi dicono che un cibo è HOT prendete in considerazione l’ipotesi che HOT non voglia dire "bollente" ma "piccante" — ad esempio un piatto indiano col CURRY.

    Ma torniamo al nostro TO BE che significa avere anche in TO BE AFRAID, "avere paura:" ARE YOU AFRAID OF THE DARK? "Hai paura del buio?" WHO’S AFRAID OF THE BIG BAD WOLF? "Chi ha paura del grosso lupo cattivo?" Ma anche qui c’è un altro uso: se cercate una persona e la sua segretaria vi dice I’M AFRAID HE’S OUT intende dire "Mi dispiace ma non c’è."

    Anche l’aver ragione o aver torto si esprimono con TO BE: YOU ARE RIGHT, "hai ragione," HE WAS QUITE WRONG, "aveva completamente torto."

    Soprattutto all’imperativo, TO BE seguito da un aggettivo può tradurre FARE: BE GOOD, "fa’ il bravo," DON’T BE SILLY "non fare lo sciocco," ARE YOU BEING DIFFICULT? "Stai facendo il difficile?"

    Un altro uso importante è quello di TO BE seguito dall’infinito di una altro verbo; in questo caso c’è un’idea di obbligo, che deriva da una norma o da un accordo. Vi do qualche esempio: THE ROOMS ARE TO BE VACATED BEFORE TEN "Le camere devono essere lasciate libere per le dieci;" THESE DOORS ARE NOT TO BE LOCKED "queste porte non devono essere chiuse a chiave;" I AM TO SEE MY SISTER AT FIVE "devo trovarmi con mia sorella alle cinque." Tipico è l’uso da parte dei dottori nelle prescrizioni: YOU ARE TO TAKE THESE PILLS TWICE A DAY "Deve prendere queste pillole due volte al giorno."

    WHAT ELSE AM I TO SAY? Che altro devo dire? Solo augurarvi la buonanotte...

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    Rime e allitterazioni (2)

    Fin da bambini ci abituiamo ad accorgerci delle rime, non solo nelle poesie e filastrocche ma nella lingua di ogni giorno — ad esempio nei nomi, da Eta Beta a Oriella Dorella, da Adriano Celentano a Cirino Pomicino. Gli inglesi hanno lo stesso tipo di attenzione per la allitterazione, che è una specie di rima all’inizio delle parole. Topolino è Mickey Mouse e Paperino è Donald Duck; tra i personaggi dello spettacolo, possiamo ricordare Charlie Chaplin e Doris Day, Diana Dors e Marilyn Monroe, Robert Redford e Stephen Spielberg. Buona parte della poesia inglese più antica è allitterativa, cioè basata sulle allitterazioni e non sulle rime; e in tutte le epoche successive è rimasta questa particolare sensibilità al ripetersi delle consonanti iniziali.

    La cosa curiosa è che in italiano abbiamo anche noi moltissime allitterazioni. Le troviamo nei proverbi e in frasi fatte come "fare le fusa, sano e salvo, vivo e vegeto, tagliare la testa al toro;" nei nomi di personaggi noti, da Federico Fellini a Marcello Mastroianni, da Claudia Cardinale a Pamela Prati (non fate caso agli accostamenti che sono puramente casuali) e numerosissimi altri; e in slogan politici, dal "Trento e Trieste" degli irredentisti alla "strage di stato" dei sessantottini — anche qui vi prego di non dare interpretazioni che sono totalmente al di fuori delle mie intenzioni. Però da noi le allitterazioni passano molto spesso inosservate, perché manca l’abitudine a notarle e a coglierne l’effetto.

    Delle opere teatrali di Shakespeare, quattro hanno titoli allitterativi: Love’s Labour’s Lost, Measure for Measure, The Merry Wives of Windsor, All’s Well that Ends Well. A meno che vi siano ripetizioni, come in "Tutto è bene quel che finisce bene" o "Misura per Misura" (ma un titolo più frequente per quest’ultima è "La legge del taglione"), le allitterazioni vanno perdute nella traduzione ("Le allegre comari di Windsor") o vengono recuperate parzialmente e un po’ per caso, come in "Pene d’amore perdute."

    Molti titoli di giornale sono allitterativi: una piccola indagine per campione condotta su sedici pagine di The European vecchio formato ha trovato 21 titoli con allitterazioni più o meno marcate, una delle quali nel titolo di una rubrica: World Watch, ossia "osservatorio mondiale." Gli argomenti vanno dal British beef ban, la messa al bando della carne bovina britannica, a The trials and tribulations of a footballer and a president "le prove e le tribolazioni di un calciatore e di un presidente." C’è una sensibile maggiore concentrazione nella cronaca sportiva (8 titoli in 4 pagine), ma la presenza delle allitterazioni è notevole ovunque.

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    Volli, sempre volli

    In italiano, il verbo "volere" è entrato nei proverbi: "L’erba voglio..." con quel che segue. In inglese non abbiamo nulla del genere perché il verbo want non è altrettanto perentorio, e può essere usato in molte circostanze senza rischiare di essere scortesi o aggressivi. Oltre a "volere" significa anche "occorrere," "aver bisogno di" e può avere per soggetto una cosa e non una persona. Se dico this umbrella wants mending voglio dire che "quest’ombrello ha bisogno di essere riparato."

    I manifesti americani per il reclutamento dei soldati hanno lo slogan tradizionale Uncle Sam Wants You, “lo Zio Sam ha bisogno di te”. Zio Sam deriva dalla sigla U.S.Am per United States of America S Am si sono unite ed è venuto fuori il nome Sam e la U è stata reinterpretata come abbreviazione di uncle, "zio."

    Dai film western conosciamo poi la forma WANTED del participio passato che spicca sui manifesti dei ricercati seguita spesso dalle parole DEAD OR ALIVE, "morto o vivo." Noi diciamo "vivo o morto," una traduzione che non rispetta l’ordine originale ma rispecchia la priorità delle scelte. Già è brutta l’ipotesi di dover ammazzare qualcuno, sia pure un bandito. Che questa alternativa preceda addirittura l’ipotesi della cattura del ricercato vivo mi sembra inquietante. Ma torniamo al verbo "volere."

    Al condizionale, cioè in forme come "vorrei, vorresti, ecc." il verbo want è solitamente sostituito da like, "gradire, piacere." "Vorrei andare al cinema, I’d like to go to the cinema; "vorresti un gelato?" would you like to have an ice-cream?

    C’è un altro verbo, wish, che a volte viene presentato come il corrispondente di "desiderare." In realtà, wish si usa soprattutto in due casi:

    il primo è come corrispondente di "magari" in frasi come "magari avessi più tempo libero" I wish I had more spare time e "magari l’avessi saputo prima" I wish I had known before;

    l’altro uso è per augurare e in questo caso wish è anche un nome, cioè l’augurio: una frase di stagione è my best wishes for Christmas and the New Year "i miei migliori auguri per il Natale e l’anno nuovo." Best wishes sono anche i "cordiali saluti" come chiusura di una lettera amichevole. Tornando a wish come verbo, vi auguro una dolcissima serata, I wish you a very sweet night.

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    Le festività invernali

    Ritorniamo sull’argomento del Natale e questa volta ci occupiamo dei canti natalizi in lingua inglese. Ho fatto questa precisazione e non ho detto "canti inglesi" perché molti tra i più noti e diffusi sono versioni inglesi di canti natalizi a volte classici, come Adeste Fideles (O Come All Ye Faithful) a volte più recenti ma ormai tradizionali come Silent Night che è il tedesco Stille Nacht.

    Ci sono poi dei canti che vengono contrabbandati per natalizi e invece sono semplicemente invernali, come Jingle Bells, una canzone del filone "nonsense" sul piacere dell’andare su a one-horse open sleigh, su una slitta aperta trainata da un cavallo — che poi si scopre essere un povero ronzino che crea parecchi guai. Non è nemmeno la slitta di Babbo Natale il quale almeno è un personaggio che deriva dalla versione nordica della figura di san Nicola — Santa Claus da St. Nicholas.

    E’ come quando andiamo a cercare un cartoncino di auguri natalizi: sempre più spesso, nei supermercati e in molti negozi, cercano di venderci immagini di paesaggi invernali, con la neve e i bambini imbacuccati, senza nessun riferimento alla Sacra Famiglia e alla grotta di Betlemme o almeno alla stella cometa che guidò i Magi — e quando faccio presente che per il Natale voglio un’immagine della Natività (se no, perché dovremmo chiamarlo Natale?) tante volte vengo guardato come uno che ha pretese strane. E mi viene fatto di pensare che se più persone facessero come me, rifiutando di augurare un buon inverno e di fare acquisti in quei negozi, forse vedremmo una maggiore attenzione al Natale cristiano — se non altro per non perdere i clienti.

    Scusate la digressione, ma era solo per dirvi come anche tra le musiche cosiddette natalizie cercano di contrabbandarci canzoni che con la Natività hanno poco a che fare. La stessa White Christmas, “Bianco Natale”, è il lamento di una persona trasferita in una zona meridionale degli Stati Uniti — può essere la California o la Florida — che rimpiange i luoghi dove cade la neve e i bambini possono aspettarsi di sentire i campanelli della slitta: in altre parole, ogni cartoncino di auguri gli fa venire la nostalgia dell’inverno tradizionale, ma senza nessun riferimento alla Natività che invece è altrettanto vera all’equatore come al polo.

    Fortunatamente la tradizione inglese ci ha consegnato delle bellissime Christmas Carols, ma di questi canti autenticamente natalizi parleremo un’altra volta perché ho esaurito il tempo a mia disposizione.

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    GET

    Un verbo molto usato in inglese e con parecchi significati è get. Come verbo transitivo corrisponde a "ricevere" in frasi come I got your letter yesterday, "ieri ho ricevuto la tua lettera," e a "prendere," in vari sensi — "guadagnare," "comperare" o "procurarsi:" he gets four hundred pounds a month "guadagna 400 sterline al mese;" where do they get all those nice dresses? "Dove prendono tutti quei bei vestiti?"

    In inglese britannico, got accompagna spesso have sia nel significato di "avere, possedere," I’ve got a lot of friends here, "ho molti amici qui," sia nel senso di "dovere," he’s got to leave at once, "deve partire immediatamente." Get viene anche usato, e forse qualcuno ricorda che ne abbiamo parlato qualche tempo fa, nelle espressioni con "fare" seguito da un altro verbo, quando "fare" ha il significato di "ottenere" o di "convincere" we got her to help us "ci siamo fatti aiutare da lei."

    Vicino a questo significato è il get che troviamo in get things done, "realizzare" nel senso di "ottenere che sia fatto ciò che deve essere fatto:" she can get things done è detto di una che ha buone capacità realizzative, che sa come si fa a tradurre in pratica i progetti e a far eseguire gli ordini.

    Anche get, come molti verbi di uso frequente, entra a far parte di verbi frasali, alcuni dei quali sono molto usati come et up "alzarsi dal letto." He gets up at six every morning "si alza alle sei ogni mattina" (ho precisato "alzarsi dal letto" perché "alzarsi da seduti" è stand up).

    Come verbo intransitivo GET indica l’arrivare: they got home at five, "arrivarono a casa alle cinque." Get è anche il "farsi," il "diventare:" it’s getting late, "si sta facendo tardi;" he got very angry "si arrabbiò molto;" the soup is getting cold "la minestra si raffredda." A volte si associa l’idea del riuscire a fare qualcosa superando qualche difficoltà. "Non avevo la chiave e allora sono entrato dalla finestra" I hadn’t got my key so I got in through the window got in invece di went in che sarebbe l’entrare normale, senza fatica né problemi. Come abbiamo sentito dagli esempi, get seguito da un aggettivo corrisponde spesso a un verbo che deriva dall’aggettivo stesso: old è "vecchio" e get old è "invecchiare;" tired è "stanco" e get tired è "stancarsi." Ma before you get tired — "prima che vi stanchiate," concludo...

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    Grande!

    Ci sono almeno tre aggettivi inglesi che corrispondono all’italiano "grande" e sono big, great e large. Big si usa per le forme che corrispondono agli accrescitivi italiani: "uno scatolone" a big box, "una ragazzona" a big girl; big è qualcosa di grandi dimensioni anche in verticale, al contrario di large che si riferisce all’estensione in orizzontale: "una grande casa con un grande giardino" sarà a big house with a large garden.

    Con riferimento alle persone big si riferisce all’importanza e alla notorietà: Charlie Chaplin was a very big film star, "Charlie Chaplin fu una grandissima stella del cinema," ma big non indica necessariamente qualità intellettuali e morali, anzi, in alcuni contesti è lievemente dispregiativo: he considers himself a big shot but he is only a fool "si ritiene un ‘pezzo grosso’ ma è solo uno sciocco." Davanti ai nomi che indicano attività big indica che è svolta in notevole quantità: Americans are big coffee drinkers "gli americani sono dei grandi bevitori di caffè." In alcuni casi big significa "grosso:" a big mistake "un grosso sbaglio," big-game hunting la caccia grossa" (qui GAME è la "selvaggina"). Noi abbiamo importato questo aggettivo e lo usiamo come nome, ad esempio quando parliamo dei big dello spettacolo.

    Great si usa con riferimento alla qualità morale e intellettuale delle persone: I think John Kennedy was a great president "ritengo che John Kennedy sia stato un grande Presidente." Si usa anche per certi gradi di parentela my great-grandfather was a great musician "il mio bisnonno era un grande musicista." Great si trova anche in molti nomi propri, da Great Britain "la Gran Bretagna" a Alexander the Great, "Alessandro Magno." Inoltre esprime apprezzamento: that’s a great idea "è una splendida idea;" horse-riding is great fun "l’equitazione è un grande divertimento;" colloquialmente si usa anche come esclamazione: I’ve bought a cake. Great! "Ho comperato una torta. Evviva!"

    Large, invece, non è mai riferito a persone ma a cose e specificamente alla loro dimensione fisica; Piazza Duomo is a large square significa che è ampia, di grandi dimensioni — se avessi detto a great place l’avrei descritta come luogo importante, di notevole valore (artistico, in questo caso). Conosciamo large e extra-large per le taglie più grandi dei capi di vestiario.

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    Mi seguite? E se mi fossi perso?

    Una pubblicità molto diffusa riguarda dei rubinetti che si vantano di non saper perdere. Lo slogan non sarebbe traducibile in inglese, dove "perdere" riferito ai rubinetti e ai contenitori di liquidi si dice leak ossia "colare" mentre negli altri casi si usano altri due verbi. Il contrario di "vincere" è lose (lost - lost). They lost the match "hanno perso la partita." Lose è anche lo "smarrire," sia in senso proprio, materiale he lost his wallet "ha perso il portafoglio," sia in espressioni come I’ve lost my patience "ho perso la pazienza." Lost and Found è l’insegna dell’ufficio oggetti smarriti, che in effetti è l’ufficio degli oggetti ritrovati.

    In un tema un ragazzino inglese ha scritto che John Milton dopo essersi sposato ha scritto Paradise Lost, il “Paradiso Perduto”, e dopo essere rimasto vedovo ha scritto Paradise Regained, il “Paradiso Riconquistato”. Il gusto della battuta, oltre tutto facile e scontata, gli è costato un brutto voto perché le date non coincidono. Get lost corrisponde al nostro "Sparisci!" E ora qualcuno lo traduce con "Sperditi!"

    Si può usare lose solo per qualcosa che ci appartiene; altrimenti, in frasi come "perdere il treno" o "perdere un’occasione" dobbiamo usare miss: to miss the train, to miss an opportunity. Se l’oggetto di miss è una persona, questo verbo significa "sentire la mancanza:" I miss you "sento la tua mancanza." Per estensione, lo si usa anche per oggetti o luoghi a cui si è affezionati: he misses his home village "Sente la mancanza del suo villaggio natio." Miss è anche il mancare il bersaglio, spesso col valore di "mancare di poco, sfiorare." Ma a coloro che recriminano che non ce l’hanno fatta per poco a raggiungere qualcosa, un proverbio ricorda che a miss is as good as a mile, l’andare molto vicini allo scopo senza raggiungerlo vale quanto restarne lontano un miglio — e vorrei fare notare come nel proverbio le due parole chiave, miss e mile, sono legate tra loro dall’allitterazione, ossia dal ripetersi dell’iniziale M. Della allitterazione, che in inglese è più importante della rima, abbiamo già parlato ma sicuramente è un argomento che ritorna spesso. Concludo con un ultimo esempio sull’uso di miss:

    I miss my radio when I’m not in Milan, "mi manca la mia radio quando non sono a Milano."

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    Espressioni imperfette

    Nell’italiano colloquiale, soprattutto settentrionale, si usa spesso l’imperfetto al posto di forme verbali più complesse — in casi come "se lo sapevo non ci andavo" invece di "se l’avessi saputo non ci sarei andato" oppure come "lei doveva scendere due fermate prima" per "lei sarebbe dovuto scendere due fermate prima." Come sempre, parliamo della lingua italiana per capire meglio le analogie e le differenze rispetto all’inglese. In questo caso abbiamo una forte differenziazione, perché in inglese abbiamo sempre bisogno delle forme che corrispondono ai nostri congiuntivi e condizionali e non possiamo semplificare, nemmeno nei dialoghi tra amici.

    La prima frase, "se lo sapevo non ci andavo," sarà quindi if I had known (“se l’avessi saputo”) I wouldn’t have gone there ("non ci sarei andato" — più letteralmente, "non sarei andato là"), e la seconda frase, "doveva scendere due fermate prima," è you should have got off two stops before. Il segreto per impadronirsi di queste forme è quello di non partire dalla lingua italiana, della quale tante volte ci sfuggono i meccanismi, ma di fare molto esercizio direttamente in inglese con frasi complete che si riferiscono a situazioni ben precise. Per esempio, ci sono forme di rimprovero come "me lo dovevi dire" you should have told me che hanno un loro preciso uso e significato.

    Ritornando per un attimo ancora sul primo esempio, "se lo avessi saputo," voglio far notare che quel "lo" che in italiano abbiamo prima del verbo "sapere" in inglese non compare: if I had known... Il nostro "lo so" è semplicemente I know.

    Questi usi colloquiali dell’imperfetto sono da tenere distinti dagli usi più normali, che sono soprattutto due: il primo è quello che esprime ciò che stava accadendo in un certo momento del passato: "pioveva" it was raining; l’altro si riferisce a azioni che erano abituali: "da bambino giocavo con le automobiline" I used to play with toy cars when I was a child. Come abbiamo sentito, nel primo caso abbiamo il passato progressivo: "pioveva" equivale a "stava piovendo" it was raining — ricordiamoci che se in italiano si PUÒ usare la forma "stare facendo" in inglese si DEVE usare la forma progressiva; nel secondo caso abbiamo la forma used to: "giocavo" sta per "ero solito giocare" I used to play.

    Ancora una volta la lingua inglese ci è servita per accorgerci delle ricchezze nascoste nella nostra — nelle forme dell’imperfetto che adoperiamo spesso a preferenza di altre più precise ma meno vive e immediate.

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    Luci rosse e altri colori

    Adult Contemporary, tra poco, con F. L. e tanta bella musica — musica dolce, che anche un ex-giovane come me ama ascoltare. Ma stiamo attenti a non descriverlo, in inglese, come un adult programme perché purtroppo adult in molti contesti ha assunto il valore di "vietato ai minori" ossia osceno e chi non conoscesse la trasmissione e questa radio potrebbe avere un’impressione del tutto sbagliata.

    Tra gli eufemismi a cui prestare attenzione c’è anche blue, il colore, nell’espressione blue movies, che sono i film a luci rosse. Non è il solo caso in cui l’uso dei colori diverge — per esempio, "giallo d’invidia" è green with envy, ossia, letteralmente, "verde di invidia," e il giallo del semaforo è detto amber, "color ambra" (che in effetti è una descrizione più accurata).

    Tra le espressioni idiomatiche curiose c’è paint the town red, letteralmente "dipingere di rosso la città" ma in effetti "darsi alla pazza gioia e combinarne di tutti i colori."

    Tornando a blue, questa parola corrisponde non solo al nostro blu ma anche all’azzurro — the sky is blue "il cielo è azzurro." Per il blu scuro e il blu più chiaro in Inghilterra si parla anche rispettivamente di Oxford Blue e Cambridge Blue, dai colori degli emblemi delle due università ripresi soprattutto in certe competizioni sportive. Il celeste è lo sky blue e qui apro una parentesi per ricordare che sky è il cielo visibile, mentre c’è un’altra parola, heaven per il cielo invisibile, il Regno celeste.

    Blue ha anche un significato tutto diverso, di "triste, malinconico." I blues sono i canti malinconici degli americani di origine africana. La terra dei blues, il sud degli Stati Uniti, è detta Dixieland, dove Dixie è il nomignolo che viene da Dixon, l’inglese che insieme a Mason ha stabilito il confine tra il Maryland e la Pennsylvania. Insieme al fiume OHIO, la Mason and Dixon Line, lunga 375 chilometri, è stata la linea di demarcazione tra gli stati schiavisti a sud e quelli liberisti a nord e il termine è tuttora usato per ricordare questa divisione che il secolo scorso condusse alla guerra civile.

    Questo come origine del nome Dixieland; in quanto al genere musicale, vi lascio in compagnia di chi ne sa molto più di me e conduce questa dolce serata...

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    Christmas carols

    Ho promesso che in prossimità del Natale avrei parlato di canti natalizi inglesi e questa sera vi dirò di una Christmas carol, Good King Wenceslas. Questo canto, molto noto in Inghilterra e che risale al secolo scorso [XIX], ricorda la vita di San Venceslao, un re boemo del decimo secolo, martire e patrono della Cecoslovacchia. Il suo nome in lingua boema è Vàclav, che è anche il nome del primo presidente della Repubblica Ceca Vàclav Havel.

    La nonna di Venceslao, Ludmilla, era cristiana e aveva fatto crescere il nipote nella fede; ma la mamma di lui, Dragomira, pagana e ambiziosa, la fece uccidere — anche Santa Ludmilla martire è venerata tra i patroni della Boemia. Dragomira assunse il ruolo di reggente ma i suoi intrighi di corte e il desiderio del popolo di porre fine alle lotte tra cristiani e non-cristiani portarono Venceslao, non appena maggiorenne, a prendere in mano le redini del governo. Era un uomo pio, che pare avesse fatto voto di castità e che favorì l’opera dei missionari tedeschi per l’evangelizzazione della Boemia.

    Tuttavia il suo zelo per la diffusione del cristianesimo rese più aspra l’opposizione dei suoi avversari. Di fronte alle invasioni tedesche del 929, Venceslao si sottomise al re di Sassonia Enrico I l’Uccellatore, ma questo indusse alcuni nobili a cospirare contro di lui contrapponendogli il fratello Boleslao, fino a convincere quest’ultimo ad assassinarlo. Venceslao fu ucciso in un agguato presso la porta di una chiesa, mentre stava andando a Messa. Aveva circa 22 anni.

    Spaventato dalle notizie dei miracoli che si verificavano sulla tomba di Venceslao, Boleslao fece traslare la sua salma nella chiesa di San Vito a Praga, che divenne uno dei grandi santuari mete di pellegrinaggi nel medioevo. Venceslao venne considerato il santo patrono della Boemia quasi subito dopo il suo assassinio.

    Il percorso che ha condotto questo giovane martire vissuto nel cuore dell’Europa a diventare uno dei personaggi più celebri e cari del Natale inglese è un percorso in buona parte avvolto nel mistero, come quello che ha fatto sì che San Nicola, Vescovo di Mira in Asia Minore e patrono di Bari, desse origine alla figura di Santa Claus, poi banalizzata e sfruttata a fini commerciali come Babbo Natale. Ma del resto questo anno santambrosiano ci ha portato a riflettere sulle vicende che hanno fatto incontrare a Milano Ambrogio nato a Treviri, nell’attuale Germania, e Agostino nato a Tagaste in Nordafrica. Piccoli misteri segni del grande Mistero che con il Natale ha preso dimora in mezzo a noi.

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    Lavorare stanca

    Un poster che ho visto in un ufficio diceva I LIKE MY JOB — IT’S THE WORK I HATE "mi piace il mio posto di lavoro, è l’attività di lavoro che detesto." Job è il lavoro come occupazione, è il posto, mentre work è l’agire nel lavoro. Il lavoro intenso, che stanca, è hard work e le due parole si usano anche in espressioni come they work hard, "lavorano sodo."

    Entrambe le parole hanno anche altri significati. Job può significare "impegno difficile, impresa" in frasi come convincing him was quite a job "convincerlo è stata una bella impresa." Job è anche il singolo lavoro; lavorare a cottimo implica to be paid by the job, ossia essere pagati per ogni pezzo prodotto o per ogni lavorazione effettuata.

    Work significa "lavorare" se il soggetto è una persona: Frank works for a radio network "Franco lavora per una rete radiofonica." Work significa "funzionare" se il soggetto è una cosa — una macchina, un progetto, ecc. Your plan will never work "il tuo piano non funzionerà mai," the lift is not working today "oggi l’ascensore non funziona."

    Work è anche l’esito dell’agire e operare e quindi significa "opera" in espressioni come a work of art "un’opera d’arte" o this is the work of the devil "questa è opera del diavolo."

    Clockwork è il meccanismo a orologeria. The Clockwork Orange è stato tradotto come "Arancia meccanica" ma forse "Arancia a orologeria" avrebbe conservato meglio il valore originale, visto che "a orologeria" lo diciamo soprattutto delle bombe — anche se il clockwork è il motore a molla che azionava le automobiline e tutto ciò che veniva caricato con una chiave.

    C’è una terza parola, labour, che si riferisce al lavoro come manodopera, la forza lavoro che si oppone al capitale: capital and labour sono i capisaldi del dibattito in economia politica. Da questa parola viene il nome del Partito britannico del Lavoro, il Labour Party, che noi abbiamo tradotto come "Partito Laburista." In tutt’altro contesto, labour è il travaglio del parto e per estensione la pena e il dolore che possono derivare da ciò che è difficile da compiere.

    Per questa sera ho finito il mio lavoro — my job is finished tonight; vi saluto...

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    Ancora sui "frasali"

    Alcuni ascoltatori mi hanno fatto sapere che seguono regolarmente queste conversazioni sull’inglese. Li ringrazio e mi scuso con loro se qualche volta mi trovo a riprendere argomenti che almeno in parte sono già stati trattati. Il fatto è che la lingua inglese, come ogni lingua, è un organismo molto complesso nel quale ogni aspetto si interseca con tutti gli altri e le questioni di grammatica si intrecciano con quelle che riguardano i vocaboli.

    Qualche ripetizione è anche necessaria per garantire che chi ascolta per la prima volta o saltuariamente possa capire ciò che si dice.

    Questa sera riprendiamo il discorso sui verbi frasali, quelli che si compongono di una parte verbale e di una particella o di una preposizione — verbi come stand up "alzarsi in piedi (da seduti)" e look after "badare a qualcuno o occuparsi di qualcosa."

    Badare alla differenza tra una particella come up in stand up e una preposizione come after in look after serve per collocare esattamente gli elementi della frase. Con molti verbi transitivi (quelli seguiti da un complemento oggetto), una particella può seguire immediatamente il verbo: "Cerca questa parola sul dizionario" look up this word in the dictionary oppure può essere messa dopo l’oggetto look this word up in the dictionary — ripeto la parte essenziale perché si senta bene la differenza: look up this word e look this word up. Se l’oggetto è un pronome — ossia se invece di dire "questa parola" uso il pronome "la" — il pronome deve stare tra il verbo e la particella: "cercala sul dizionario" look it up in the dictionary (non posso dire *look up it).

    Invece un verbo preposizionale è sempre seguito dalla preposizione in ogni caso: "guarda queste foto" look at these photos; "guardale" look at them.

    Lo stesso vale per i verbi seguiti sia da particella che da preposizione come TO look down upon somebody che vuol dire "guardare qualcuno dall’alto in basso" nel senso di "disprezzare e sentirsi superiori." Some people look down upon all immigrants "alcune persone disprezzano tutti gli immigranti" — Some people look down upon them all "alcune persone li disprezzano tutti."

    Look presenta casi sia di uso frasale look up, look down upon, sia di uso preposizionale look at, look for, look after, look into. Quello di look non è comunque un caso eccezionale, anzi è frequente che i verbi più usati abbiano forme sia frasali che preposizionali.

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    Onomatopee

    Alcune parole hanno un suono che ricorda ciò che descrivono: parole come "tintinnare" o "sussurro;" i linguisti le chiamano onomatopee e alcune di esse si riferiscono a rumori tipici, versi di animali, e simili. Sembrerebbe che queste forme debbano essere uguali, o almeno simili, in tutte le lingue, perché descrivono gli stessi oggetti, ma un gallo fa “chicchirichì” in italiano, “cocoricò” in francese e cock-a-doodle-doo in inglese. La vocale dominante è la I in italiano, la O in francese e la U in inglese, anche se i galli cantano più o meno tutto allo stesso modo (apro una parentesi per dire che in inglese per il cantare del gallo non si usa il verbo TO sing ma un verbo apposta, TO crow).

    Da noi il cane fa bau-bau o bù-bù e in inglese le forme corrispondenti sono bow-wow e arf, quest’ultima soprattutto per i cani più grossi. I gatti fanno mew [miau] e il verbo miagolare è TO mew [mju] — è curioso notare come esattamente lo stesso verbo viene usato per lo stridere del gabbiano.

    Molto onomatopee le abbiamo apprese dai fumetti. La porta che sbatte fa "slam" e in inglese TO slam the door è proprio "sbattere la porta." Un’esplosione fa "boom," e la parola boom è anche un termine di economia per la fase di rapida espansione del sistema economico-finanziario di una nazione. Un’altra onomatopea diventata poi vocabolo comune è zip per la cerniera lampo — che in realtà in inglese inglese si chiama zip fastener e in inglese americano zipper.

    Ci sono almeno un paio di casi in cui il passaggio da una lingua all’altra ha dato luogo a esiti forse imprevisti e comunque particolari. In inglese la tosse è cough [kòf]; è uno dei casi in cui gh finale si pronuncia f, come in enough "abbastanza" e rough "ruvido, agitato;" ne è nata una parola pseudo-italiana che, nel linguaggio dei fumetti rappresenta il lamento delle persone che stanno soffocando. Abbastanza simile è il caso del sospiro di disappunto o di rimpianto per qualcosa che è andato male o è stato irrimediabilmente perduto. Il sospiro in inglese è sigh [sai], una parola come high che termina in -igh pronunciato [ai]; nei fumetti questa parola è diventata [sig], il sospiro è diventato un sussulto o un singulto ma ormai quest’uso è radicato e ce lo teniamo.

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    Ci facciamo una birra?

    Da qualche tempo anche da noi si sono diffusi i pub simili a quelli inglesi e irlandesi. Simili ma diversi soprattutto in un aspetto: da noi il locale è unico mentre in Inghilterra la maggior parte dei PUB si compone di ambienti diversi. C’è il public bar che è il più modesto come arredamento, il meno confortevole — pochi tavolini, sgabelli di legno, ecc.; invece il saloon bar e il lounge sono più accoglienti, coi divani di velluto, più spazio, più tavoli. Naturalmente le stesse bevande hanno un prezzo diverso a seconda del locale in cui si entra. Nel Far West, dove il bar è come da noi un locale unico, hanno adottato il termine più elegante saloon indipendentemente dal grado di eleganza e accoglienza dell’ambiente.

    In un classico pub inglese si ordinano (e pagano) le bevande al banco e poi ci si va a sedere — se si trova posto; è un modo di gestire il servizio molto diverso dal nostro, e che spesso causa malintesi. Un inglese che ordina da bere al bar e poi va a sedersi non fa altro che seguire le sue abitudini — c’è sempre chi non si rende conto che da noi l’uso è diverso.

    Col diffondersi dei pub si è scoperto che chiedere a beer, “una birra” è come da noi entrare in un’osteria e chiedere del vino. Bisogna almeno precisare la quantità — un calice, un quarto, e così via, e il colore, bianco, rosso, rosé.

    In inglese abbiamo a pint, una pinta (poco meno di mezzo litro) e a glass — letteralmente, un bicchiere — che corrisponde a mezza pinta. La birra, che gli inglesi più tradizionalisti preferiscono chiamare ale invece di beer, è di diversi tipi. La birra alla spina, draught beer, può essere bitter, che è la più diffusa, o mild, più scura e più leggera. In molti pub si può trovare anche una birra nera e molto forte, stout, anch’essa from draught. La più celebre è la Guinness irlandese ma ce ne sono molte. La bitter (birra amara) non c’entra nulla con gli aperitivi che noi chiamiamo "bitter."

    In bottiglia, le birre chiare sono light ale o pale ale (letteralmente, birra leggera o birra pallida) e quelle scure si chiamano brown ale (birra marrone). Poi ogni birreria dà nomi più o meno fantasiosi ai propri prodotti ma, come dice un libro sui pub inglesi, a pale ale by any name tastes the same, "una pale ale con qualsiasi nome ha lo stesso gusto."

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    A, ma non come Ancona

    Quando Berlino era una città divisa dal Muro, il punto di passaggio più importante, vicino alla porta di Brandeburgo, era il Checkpoint Charlie. Checkpoint è il "punto di controllo" — ma perché Charlie? Semplicemente perché era il terzo e i militari, come i controllori del traffico aereo, adottano un alfabeto nel quale a ciascuna lettera corrisponde una parola. L’alfabeto è:

    Alpha – Bravo – Charlie – Delta – Echo – Foxtrot – Golf – Hotel – India – Juliett – Kilo – Lima – Mike – November – Oscar – Papa – Quebec – Romeo – Sierra – Tango – Uniform – Victor – Whiskey – X-ray – Yankee – Zulu

    Questo alfabeto comprende parole di origine diversa: ci sono nomi di personacome Charlie, Mike, Oscar e Victor e un chiaro riferimento a Romeo and Juliet di Shakespeare; nomi geografici come India, Lima, Quebec and Sierra; lettere dell’alfabeto greco (Alpha, Delta); parole che si riferiscono a balli e altre attività del tempo libero (Fox-Trot, Golf, Tango) e altre di varia origine.

    All’origine c’è l’uso inglese di servirsi dei nomi di persona dove noi usiamo le città (A come Ancona B come Bari, ecc.). Sono state sostituite le parole che potevano essere confuse tra loro e quelle che non sono note internazionalmente.

    E’ così importante la chiarezza, che nelle comunicazioni tra aerei e torri di controllo è stata cambiata anche la pronuncia di alcuni numeri: 4 e 9 four e nine sono diventati fower e niner, con l’aggiunta di una sillaba. Il 5 da five è diventato fife e 3 e 1000 (che iniziano con un suono di TH difficile per molti stranieri) three e thousand sono diventati tree e tousand.

    In questo linguaggio non si risponde yes o no, troppo brevi e confondibili; no è negative, mentre a yes corrispondono varie parole da roger a wilco, a seconda che si voglia dire semplicemente che il messaggio è stato ricevuto, oppure che l’ordine verrà immediatamente eseguito, oppure ancora che sarà eseguito in futuro, quando sarà il momento giusto, e altri ancora.

    Se si pensa che alcuni gravissimi incidenti sono stati probabilmente causati o almeno favoriti da errori nella comunicazione tra terra e bordo, si capisce come lo sviluppo di un linguaggio molto preciso, che parte dall’inglese ma lo modifica in misura sensibile, sia un elemento molto importante nella sicurezza della navigazione.

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    Parlare con l’accento giusto

    Contrariamente a quanto molti pensano, le difficoltà maggiori per imparare la pronuncia inglese e soprattutto per comprendere gli inglesi quando parlano non derivano né dai rapporti problematici tra grafia e pronuncia delle parole né dalla presenza di suoni che noi non abbiamo, come quelli rappresentati dalle lettere th in parole come three e thursday ("tre" e "giovedì") o this e that ("questo" e "quello"), ma dipendono dalla variazione notevole tra le sillabe e le parole accentate, da una parte, e quelle non accentate dall’altra.

    Intendo dire che una parola come "banana" in italiano ha lo stesso suono di A nelle tre sillabe, mentre in inglese la seconda sillaba, accentata, ha una vocale diversa dalle altre due: [b@na:n@].

    Un’alternanza simile la troviamo anche nella pronuncia di alcune parole che hanno soprattutto una funzione grammaticale: articoli, congiunzioni, verbi ausiliari e simili.

    In un’espressione come rock ’n’ roll ("dondola e rotola") la congiunzione and viene spesso scritta come ’n’ per segnalare anche nello scritto che la pronuncia si riduce alla consonante n: rock ’n’ roll; questo indebolimento da and a n avviene regolarmente, anche quando nello scrivere usiamo la grafia normale, da Tom and Jerry a whisky and soda.

    Altro esempio: "Ti piace questo programma? Sì, moltissimo:" Do you like this programme? Yes, I do, very much. La prima volta l’ausiliare DO è pronunciato [d]: d’you like... La seconda volta ha la forma forte [du:] perché è accentato: yes, I do.

    Così posso parlare del modale must, the modal must con la forma forte [mast]; ma all’interno di una frase come "devo andare" la pronuncia è diversa: I must [ms] go, dove must ha perso la t finale e la vocale è molto più debole. Questo è un caso tipico nel senso che non si usano grafie alternative, con apostrofi o altro, per segnalare la forma debole — semplicemente il modale si pronuncia così quando non è in una sillaba accentata, e cioè nella maggioranza dei casi.

    Questi indebolimenti possono sommarsi e quello che viene effettivamente detto risulta molto diverso da quello che ci si potrebbe attendere da una pronuncia in cui ogni parola viene accentata: mi riferisco alla differenza tra why - don’t - you - tell - him ("perché non glielo dici?") e [wainciutelim]. Il fatto è che la pronuncia normale e corretta è la seconda e non la prima...

    Anche questo è un argomento su cui ritorneremo, dopo questo primo assaggio.

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    Prêt-à-porter

    Una delle parole italiane che creano qualche problema quando le si deve tradurre in inglese è il verbo "portare." Una distinzione che la nostra lingua non opera ma in inglese a volte è essenziale riguarda la direzione del movimento di portare: verso la persona che parla o lontano da essa. Nel primo caso il verbi più usato è bring (che ha la forma brought al passato e al participio passato): un insegnante può dire allo scolaro "portami il tuo quaderno" bring me your copybook; e su certi inviti a feste tra a amici c’è l’indicazione bring a bottle "Porta una bottiglia" — e si intende... non di gazzosa.

    Portare via da chi parla è take took taken: "porta questo pacco alla posta" take this parcel to the post office. Lo stesso verbo si usa per persone, nel senso di accompagnare: can you take me to the station? "puoi accompagnarmi alla stazione?." take ha anche il significato di "prendere" in vari casi: con i mezzi di trasporto — don’t take the bus, take a taxi "non prendere l’autobus, prendi un tassì;" can I take your umbrella? "posso prendere il tuo ombrello?" Dove sono distribuiti cataloghi o altri omaggi si trova la scritta Please Take One "Prego prendetene uno." take è anche usato con riferimento al tempo in espressioni come take your time "fai con calma, prenditi il tempo che ti occorre" e come How long does it take to get to the airport? "Quanto tempo ci vuole per arrivare all’aeroporto?"

    Portare nel senso di indossare è wear wore worn "Portava un cappellino rosa" She wore a pink hat — è il verbo che troviamo anche in wash and wear, "lava e indossa," per i capi che non hanno bisogno di essere stirati.

    Nel senso di "trasportare o reggere," "portare" è carry: "questo ascensore porta sei persone" this lift carries six people; i cash and carry sono quegli empori in cui si paga per contanti e si porta via da sé la merce acquistata.

    Bring, take, wear, carry — basta? No, ci sono molte altre espressioni; ad esempio, se vi chiedessi di "portare pazienza," vi direi be patient — letteralmente, "siate pazienti." Ma a questo punto ne avete portata abbastanza, il resto ve lo dirò un’altra sera.

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    Old London

    Ritorniamo a spasso per Londra, questa volta non in cerca di monumenti o luoghi famosi ma per osservare alcuni oggetti caratteristici, che ormai fanno anch’essi parte del paesaggio — quelli, per intenderci, che insieme al traffico che tiene la sinistra ci fanno capire che siamo nella capitale dell’Inghilterra quando vediamo la scena di un film o di un documentario. Cominciamo con il più vistoso, l’autobus rosso a due piani o double-decker. Deck è una delle molte parole che traducono la parola italiana "piano" e di cui ci occuperemo domani sera; deck è anche, direi soprattutto, il ponte della nave e la parola double-decker mette assieme deck con l’aggettivo double "doppio" e la desinenza -er che in questo caso significa "ciò che ha" — double-decker è "ciò che ha un doppio ponte."

    Sempre rosse, almeno nella versione tradizionale che molti vogliono preservare dagli assalti della modernizzazione, sono le cabine telefoniche pubbliche o telephone boxes; e qui c’è da dire che la parola box in inglese significa molte cose, tranne quello che noi chiamiamo il box — la rimessa per l’auto di solito nel piano interrato delle case. Nel caso dei telefoni, si chiama box la cabina pubblica, mentre le cabine telefoniche situate all’interno degli edifici si chiamano telephone booths.

    Ancora rosse, e ancora boxes sono (da qualche parte, purtroppo, dobbiamo dire erano) le pillar boxes, le tradizionali e monumentali cassette per le lettere a forma di colonnina — da cui il nome: pillar è il pilastro, la colonna — piantate sui marciapiedi ben in vista, testimoni di una nazione di persone che hanno sempre avuto — e in certa misura conservano — il gusto del letter-writing, della corrispondenza epistolare.

    Del tutto simili a quelli inglesi sono i double deckers, le telephone boxes e le pillar boxes nella Repubblica d’Irlanda, ma tutti rigorosamente dipinti di verde smeraldo, non di rosso. E sia in Gran Bretagna che in Irlanda, come da noi, c’è la trasformazione da veicoli pubblici a veicoli pubblicitari, coperti quasi completamente dai poster che reclamizzano qualche prodotto.

    Del paesaggio londinese fanno anche parte integrante i monumentali taxi neri, di cui esisteva una versione ancor più monumentale della quale sopravvivono solo pochi esemplari, ormai troppo dispendiosi da mantenere e far circolare, e usati soprattutto come auto per cerimonie particolari, soprattutto matrimoni.

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    Piano, piano, piano...

    Ieri sera ho promesso che avrei parlato delle traduzioni in inglese della parola "piano;" è la prima parola che cerco in un dizionario bilingue italiano-inglese quando voglio vedere se è un dizionario ricco, abbastanza completo e ben organizzato. Infatti "piano" è un nome, un aggettivo e un avverbio e in tutti e tre i casi ha molti significati. Questa sera ne potremo esaminare solo alcuni, quelli in cui è usato come nome.

    "Piano" può significare "progetto" — in inglese, plan, project, scheme; "il comune ha varato un piano di sviluppo" the Municipality have launched a development scheme. "Piano" è anche un termine della geometria: plane, che si usa anche in senso figurato the talks were on a friendly plane "le conversazioni furono su un piano amichevole." Il piano di una casa è floor e anche, specialmente in inglese americano, storey. My flat is on the sixth floor "il mio appartamento è al sesto piano" (tra parentesi, floor è anche il pavimento). Deck, come si diceva ieri sera, è il piano di un autobus London buses are mostly double-deckers "la maggior parte degli autobus di Londra sono a due piani." Una frase come "le pecore scesero al piano" (ossia in pianura) in inglese è the sheep came down to the plain dove plain si pronuncia come il piano geometrico plane.

    Il piano di un mobile è il top: "il piano di questo tavolo è di marmo" the top of this table is marble. Il piano come strumento musicale, abbreviazione di pianoforte è piano — come per molti termini musicali, la lingua inglese ha adottato la parola italiana.

    Quando "piano" significa "livello" in inglese troviamo proprio level: "mette i fumatori sullo stesso piano dei bracconieri" he considers smokers on the same level as poachers.

    Il "primo piano" in senso cinematografico è un close-up — un vocabolo che qui da noi è stato usato per il nome di un dentifricio. Il secondo piano, lo sfondo, è invece il background, e anche questa è una parola che si usa in senso figurato per indicare ciò che sta dietro agli aspetti più visibili — ad esempio l’esperienza passata di una persona, lo sfondo in cui si inquadra una ricerca, e così via.

    Gli altri usi di questa parola li esamineremo un’altra sera; la lingua inglese va presa a piccole dosi — piano piano!

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    Usi locali e traducibilità

    Mi è capitato di recente di sentire una conversazione in tram in una lingua che non ho riconosciuto – ho capito solo passport, una delle parole "internazionali," e subito dopo MARCADABOLLO, in italiano — detta come un’unica parola. E’ un’espressione intraducibile nella maggior parte delle lingue perché tipica del nostro sistema burocratico. Parlando con gli inglesi e gli americani mi ci vuole sempre un po’ di tempo per spiegare che cos’è una carta da bollo – e non riesco a spiegare (anche perché non è chiaro nemmeno a me) perché mai si usi ancora un sistema di prelievo fiscale inventato quando si scriveva con penna e calamaio.

    Alcune parole e espressioni risultano quindi intraducibili direttamente; altre corrispondenze sono ampiamente imperfette. Ad esempio, da noi nel contesto scolastico si usa il verbo "copiare" per indicare quello che gli studenti non dovrebbero fare durante il compito in classe. Nello stesso contesto, in inglese si usa il verbo cheat che significa propriamente "imbrogliare" e mette in rilievo la disonestà dell’azione. Dietro queste parole c’è una mentalità diversa: la persona a cui fai copiare è l’amico, quella di cui rilevi l’imbroglio è la persona con cui sei in competizione, prima nella scuola e poi nella vita di lavoro.

    Un’espressione interessante, in questo quadro, è civil servant che si riferisce ai funzionari statali – una categoria che in Inghilterra ha sempre escluso molti di coloro che da noi erano o sono "statali" come i postini, i ferrovieri o gli insegnanti. Il "servitore civico" è al servizio della cittadinanza – anche se sulla carta intestata si vede OHMS che sta per On Her Majesty’s Service – "al servizio di Sua Maestà." E’ investito di poteri e quindi deve esercitare la sua autorità, ma questo si inquadra in un clima di rispetto dei diritti delle persone che entrano in rapporto con la pubblica amministrazione. Il tutto, senza carte o marche da bollo.

    Concludo con un rapido cenno a altre parole che fanno riferimento alle tradizioni britanniche. La House of Commons è la Camera dei Comuni, dove per "comuni" non si intendono le Municipalities, le municipalità, ma i commoners ossia le persone comuni che non hanno titoli nobiliari. Per i nobili, i Pari d’Inghilterra, c’è The House of Lords, la Camera dei Lord.

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    Tutto il mondo è paese?

    Questa sera vi racconto il mio primo impatto con l’Inghilterra. Dopo 23 ore di viaggio in treno, nave e treno – erano anni in cui si usava ancora molto poco l’aereo – dopo 23 ore, dicevo, arrivo a Londra alla Victoria Station dove mi aspetta una coda di mezz’ora per prendere il taxi. Infine viene il mio turno, salgo con le due valigie e la sacca a tracolla su uno di quegli enormi taxi neri che ora si vedono solo nei film e do all’autista l’indirizzo della mia destinazione, una casa di Highgate che è un quartiere settentrionale di Londra.

    Dopo qualche minuto l’autista si ferma, mi dice di aver forato una gomma e mi chiede se preferisco cambiare taxi o aspettare che lui cambi la ruota. Io non so dove sono e dove cercare un taxi, sono stanchissimo e gli dico di cambiare la ruota.

    Lui scende, apre il cofano, inserisce una leva, solleva il taxi, me e tutto il bagaglio e in un attimo cambia la ruota; dopo di che, altrettanto alla svelta, compie le operazioni inverse e risale. E a questo punto mi dice che non può proseguire senza ruota di scorta, mi chiede di scendere e di pagare la cifra segnata dal tassametro, che nel frattempo ovviamente era aumentata.

    Intanto per curiosità mi ero messo a leggere l’avviso con l’indicazione dell’ufficio oggetti smarriti (lost and found: smarriti e ritrovati) e altre notizie utili, tra cui un indirizzo per i reclami. E allora gli rispondo che prima di scendere volevo annotare questo indirizzo. What for? mi chiede: "perché?" Per fortuna (ero ancora studente), mi viene in mente il verbo to complain "per reclamare" e lo dico — probabilmente il tono non era proprio dolce e gentile, data la stanchezza e l’irritazione. Allora di colpo il tassista smette di fare storie e mi porta subito a destinazione.

    Così, appena arrivato a Londra ho imparato tre cose: che certi comportamenti uno se li può aspettare in qualsiasi parte del mondo; che però in Inghilterra i reclami venivano presi sul serio e potevano avere conseguenze gravi; e quindi che il verbo to complain è molto importante. Per questo stasera gli ho dedicato tutto il tempo a disposizione.

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    Discorsi bestiali

    Molte delle similitudini, delle metafore e delle espressioni idiomatiche fanno riferimento al mondo animale, alle qualità vere o presunte che le varie bestie mostrano di avere. In tanti casi c’è somiglianza tra inglese e italiano: "furbo come una volpe" as sly as a fox, "coraggioso come un leone" as brave as a lion, ma ci sono anche delle differenze. "Forte come un toro" in inglese è as strong as a horse — ossia come un cavallo, mentre "matto come una cavalla" è as mad as a March hare (oltre che as mad as a hatter). La Lepre Marzolina (March hare) e il Cappellaio matto (mad hatter) sono due personaggi di Alice in Wonderland, “Alice nel Paese delle Meraviglie”.

    Da noi si dice "curioso come un gatto" e un proverbio inglese rincara la dose: curiosity killed the cat "la curiosità uccise il gatto."

    L’animale timido per eccellenza è il coniglio — in italiano. In inglese, invece, in questo caso si parla di chickens (galli, galline, polli e pulcini). He’s a chicken "è un coniglio" ossia un pauroso — non "un pollo" che è un ingenuo. La parola chicken viene usata anche come verbo in espressioni come chicken out of something, ritirarsi da qualcosa (per esempio, da a fight “una lotta”) per paura. I pulcini li ritroviamo in don’t count the chickens before they’re hatched — "non contare i pulcini prima che siano usciti dal guscio" che equivale al nostro "non dire quattro se non li hai nel sacco."

    E a proposito di uova, "meglio un uovo oggi che una gallina domani" corrisponde come significato globale a a bird in the hand is worth two in the bush, “un uccello catturato ne vale due ancora liberi” — letteralmente in the hand è "in mano" e in the bush è "tra i cespugli." Un altro notissimo proverbio consiglia don’t put all your eggs into one basket, "non mettere tutte le uova in un cestino solo" ossia non affidare tutte le tue sorti a un’unica possibilità. Per concludere col pollame, parliamo di oche; in inglese la gallina dalle uova d’oro è the goose that lay the golden egg "l’oca che depose l’uovo d’oro." E per dire che non si fanno differenze o favoritismi si dice che what’s sauce for the goose is sauce for the gander "la salsa che va bene per l’oca va bene anche per il papero."

    C’è da farsi venire la pelle d’oca goose bumps...

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    Stiamo scherzando?

    Gli inglesi raccontano sugli irlandesi le stesse barzellette che i tedeschi raccontano dei polacchi e i francesi dei belgi. In tutti e tre i casi si tratta del paese cattolico più vicino e quindi potrebbe trattarsi di un lascito delle guerre di religione e delle lotte dei tempi passati. E gli Irlandesi? ATTRIBUISCONO le stesse caratteristiche agli abitanti della contea del Kerry, i Kerrymen.

    La contea del Kerry ha rispetto all’Irlanda più o meno la stessa posizione, nell’angolo sud-ovest, che la provincia di Cuneo ha rispetto al Piemonte. Sono gli abitanti delle aree decentrate e più isolate a fare le spese dell’ironia degli abitanti della capitale e delle zone più centrali.

    A loro volta, naturalmente, i Kerrymen dicono che agli altri piacciono le barzellette sui Kerrymen perché sono facili da capire...

    Come dicevo, le barzellette sono più o meno le stesse in tutti i Paesi, salvo piccoli adattamenti locali — ed è incredibile con quale rapidità si diffondano le migliori al di là dei confini delle nazioni.

    Invece i giochi di parole sono intraducibili, sia perché si basano su rime, scambi di lettere e altri meccanismi che non reggono alla traduzione, sia perché la sensibilità varia molto da paese a paese. Inglesi e francesi sono molto sensibili al calembour, al gioco di parole, anche perché quelle lingue si prestano molto più della nostra, perché sono moltissimi i casi di parole diverse per grafia e per significato ma pronunciate allo stesso modo, come, in inglese, il verbo TO SEE "vedere" e SEA "il mare."

    Do un esempio — "qual è la differenza tra un marinaio in pensione a retired sailor e un cavallo cieco a blind horse?" a retired sailor cannot go to sea and a blind horse cannot see to go, con la contrapposizione fra go to sea "andar per mare" e see to go "vederci a camminare." Vi chiedo scusa: analizzare le barzellette è il modo più sicuro per ucciderle — ma anche chi ha colto subito la battuta non l’ha trovata gran che divertente: da noi i giochi di parole di questo tipo ottengono al massimo un mezzo sorriso.

    Tutto quello che ho detto finora secondo me ha molto poco a che vedere con l’English sense of humour che è il senso dell’umorismo inteso come capacità di cogliere il lato comico della vita, il ridicolo che spesso si nasconde anche nelle situazioni drammatiche. L’inglese sa far emergere questi aspetti paradossali attraverso rapidi accenni, poche parole dette a mezza voce, spesso con ironia, e facendo ricorso all’understatement, al dire meno di quel che in realtà si intende.

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    Lei parla itang’liano?

    Mi ero ripromesso di non tornare sul tema delle parole inglesi usate per snobismo e spesso a sproposito in italiano, ma ho cambiato idea quando ho scoperto che c’è un libro che ha analizzato da questo punto di vista il linguaggio delle riunioni aziendali.

    Il libro si intitola Parlare Itang’liano e "itang’liano" è la lingua ibrida di coloro che danno l’impressione che si farebbero tagliare una mano piuttosto di rinunciare a usare le parole inglesi di moda nel gergo dei dirigenti aziendali — quelli che ritengono disonorevole essere "dirigenti" perché loro sono executives, managers, staff eccetera.

    Ebbene, una delle parole "inglesi" citate nel libro c’è la parola quorum, in espressioni come "raggiungere il quorum per la validità della seduta." E in altri contesti ho trovato che sono state considerate inglesi parole come sponsor e monitor. In altre parole, il vecchio latino, buttato via come un ferrovecchio, sta rientrando alla grande attraverso la lingua di moda.

    Un dizionario elettronico che ho consultato, alla richiesta di trovare le parole di etimo latino presenti in inglese ne trova 15120, e sono solo quelle nelle quali l’origine latina è più direttamente riconoscibile. Manca, ad esempio, la parola table che deriva dal latino tabula ma è entrata in inglese nel periodo medievale attraverso il francese table. Molte di queste 15000 parole hanno conservato la grafia latina senza alterazioni.

    La prima di queste che si incontra in ordine alfabetico è abacus, l’abaco per fare i calcoli. E’ una parola adottata come nome da varie ditte (solo a Milano ce ne sono cinque o sei) e non credo che sia stato per amore del latino.

    Per qualche tempo è stata pubblicata una rivista di divulgazione scientifica la cui testata era Genius. Nel primo editoriale il direttore diceva chiaramente che la parola latina era stata riportata a nuova vita dalla sua presenza nella lingua inglese — e a questo punto uno non sa più se dirla all’italiana o all’inglese.

    Un certo numero di questi vocaboli sono nomi neutri appartenenti alla seconda declinazione; terminano in -um al singolare e in -a al plurale. I due più usati sono datum -a e medium -a. Per entrambi la forma plurale pronunciata più o meno all’inglese è quella entrata nell’uso italiano, rispettivamente per i dati elaborati da un computer e per i mezzi di comunicazione sociale; qualche volta li si trova usati come se fossero singolari — anche in inglese inglese: your data isn’t enough "i tuoi dati non sono sufficienti."

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    Retroformazioni

    "Marconi Disco EDIT..." Quante volte sentiamo questa frase, che annuncia "in un minuto, un disco"! La parola edit è spesso citata nei libri sulla lingua inglese perché è una di quelle che hanno compito un percorso contrario a quello della maggioranza delle altre parole. Mi spiego: è frequente che da un verbo derivi il nome di chi compie quell’azione — come in italiano abbiamo “insegnante” da "insegnare" e "lavoratore" da "lavorare," così in inglese abbiamo teacher da teach, worker da work, assistant da assist e così via, per parecchie centinaia di casi.

    Invece per edit è successo il contrario: la parola editor esisteva da prima che per "retroformazione" si ottenesse il verbo edit. Il caso è analogo a quello di baby-sitter da cui, in inglese, deriva il verbo babysit per indicare l’attività di accudire ai bambini.

    Editor è anche uno dei "falsi amici," nel senso che non vuol mai dire "editore" ma solo altre cose. L’editore, colui che pubblica, in inglese è il publisher. Editor può essere il direttore di un giornale (e le letters to the editor sono le "Lettere al Direttore") oppure è un redattore o caporedattore — in questo caso di solito viene precisato l’argomento di cui si occupa: sports editor è il redattore sportivo o il capo della redazione sportiva.

    Editor è anche il curatore di un libro, ossia chi raccoglie in volume dei brani d’antologia, o una serie di saggi su un certo argomento o gli atti di un convegno, oppure colui che produce un’edizione critica di qualche classico.

    Un film editor è lo specialista del montaggio, colui o colei che ricuce i vari frammenti di film, le singole scene girate, ordinandoli in sequenze e, sotto la guida del regista, li organizza nella forma definitiva.

    Il verbo edit, in questo contesto, vuol dire quindi inizialmente "organizzare i frammenti" e poi, come tutte le parole, vive di vita propria in patria e all’estero, entra in combinazione con altre parole, si riconverte da verbo a nome e alla fine ce lo ritroviamo assieme a due parole italiane in "Marconi disco edit."

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    Lingue e nazioni

    In italiano, una stessa parola (ad esempio, "spagnolo") indica sia l’abitante di una nazione ("è arrivato uno spagnolo"), sia la lingua ("conosco bene lo spagnolo"), e si usa anche come aggettivo, come quando parliamo di "vino spagnolo."

    In inglese di solito la lingua e l’aggettivo coincidono, mentre per il nome dell’abitante si ricorre spesso a una parola diversa. Uno spagnolo è a Spaniard, ma "parlo spagnolo" è I speak Spanish e "vino spagnolo" è Spanish wine. Ricordo, prima di vedere altri esempi, che in inglese si scrivono obbligatoriamente con l’iniziale maiuscola tutti i nomi e gli aggettivi di nazionalità, in ogni loro uso — e quindi anche per indicare la lingua.

    Alcuni aggettivi che terminano per -sh come English o per -ch come French aggiungono man e woman per ottenere i nomi degli abitanti: un inglese è an Englishman e una francese è a Frenchwoman. Molti altri sono analoghi a Spanish e c’è una parola apposta per l’abitante: abbiamo quindi frasi come a Swede speaks Swedish (uno svedese parla svedese) e analogamente per danesi e finlandesi a Dane speaks Danish, A Finn speaks Finnish.

    Abbiamo quindi bisogno di parole diverse per dire, ad esempio:

    The Pope Is From Poland "Il Papa proviene dalla Polonia"

    The Pope is a Pole "Il Papa è un polacco"

    The Pope is Polish "Il Papa è polacco"

    The Pope speaks Polish "Il Papa parla polacco" — come lingua materna, e poi, come sappiamo, parla tante altre lingue.

    Al plurale, abbiamo regolarmente Spaniards, Danes, Poles ecc. mentre Englishmen e Frenchwomen seguono le forme irregolari del plurale di man e woman, ossia men e women.

    Il caso più semplice è quello delle parole che terminano in -ese come Japanese e Chinese, che sono sia nomi che aggettivi e che restano invariati anche al plurale: i cinesi e i giapponesi the Chinese and the Japanese. Quelli che terminano in -an come Russian, russo, Albanian, albanese e Italian sono anche loro sia nomi che aggettivi, e prendono regolarmente la s al plurale: we are Italians, I speak Italian, I like Italian music, mi piace la musica italiana — ma anche l’altra, tutta la dolce musica di questo programma.

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    Etimi greci e latini

    Qualche sera fa ho detto che sarei tornato sulla presenza di parole di origine greca e latina nella lingua inglese. E’ una presenza non solo massiccia ma anche tipicamente conservatrice, nel senso che la grafia adottata dalla lingua inglese spesso riproduce esattamente o molto da vicino la grafia originale. Lo vediamo da qualche tempo anche nel film che parla delle fatiche di Ercole — la forma latina Hercules si è trasferita in inglese e la stessa parola indica anche un grande aereo da trasporto, soprattutto militare.

    La pronuncia è invece anglicizzata: Hercules [h3:kj@li:z]; analogamente, il thesaurus, che a seconda dei contesti può significare varie cose, dall’antologia al dizionario dei sinonimi — conserva la grafia latina e si pronuncia [TIsO:r{s]. Se pensiamo alla parola italiana "tesoro" vediamo come questa si è trasformata rispetto al latino: il TH è diventato T, il dittongo AU è diventato O e a una O si è ridotta anche la desinenza US.

    La pronuncia anglicizzata a volte rende irriconoscibili le parole latine quando le si sentono dire dagli inglesi. Ad esempio, la prima parola di Habeas Corpus, [heibias] è poco riconoscibile. La seconda, [kòps] lo è un po’ di più. L’Habeas Corpus è la legge sulla carcerazione preventiva: occorre subito una sentenza del magistrato perché si possa privare una persona della libertà, si possa trattenerlo corporalmente.

    Dicevo prima che la riproduzione delle parole di origine classica non sempre può essere esatta — questo vale ad esempio per le parole greche. Quando era in voga il rhythm and blues, ho visto almeno un centinaio di copertine di dischi stampate in Italia e nemmeno una aveva la parola rhythm scritta giusta; rhythm è una traslitterazione accurata dal greco, molto più precisa della parola italiana "ritmo."

    Anche il titolo di un film di Hitchcock, Psycho, è un esempio di una parola trascritta molto accuratamente, ma con una pronuncia [saikou] molto diversa dal nostro "psico;" lo stesso per pseudo che è scritto allo stesso modo dell’italiano ma si pronuncia [sju:dou] .

    C’è quindi un grande patrimonio della cultura europea che molti italiani ignorano e che qualche volta non riconoscono quando se lo trovano riproposto attraverso la lingua inglese. Forse, basterebbe un po’ di attenzione.

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    Una gita in Svizzera

    Il nome ufficiale della nazione svizzera è il latino CONFEDERATIO HELVETICA, da cui anche la targa automobilistica CH. Però se uno guarda la crosta del formaggio trova il marchio Switzerland che è il nome inglese della Svizzera, e anche l’aggettivo inglese Swiss è sempre più usato per dire "svizzero" senza far torto a nessuna delle quattro lingue ufficiali della confederazione.

    Una nota marca di orologi è formata fondendo tra loro le parole inglesi Swiss e watch. A proposito di watch ricordo che in inglese le parole che corrispondono a "orologio" sono due: watch è quello che si porta addosso, normalmente al polso; una volta si usavano gli orologi da tasca, che gli uomini tenevano nel taschino del panciotto — adesso non si usa più nemmeno il panciotto. E sempre nell’ambito dei watches ci sono quelli da donna incorporati negli anelli.

    L’orologio che non si porta addosso è il clock; può essere piccolo come una sveglietta da viaggio o grande come quello della Clock Tower — la torre dell’orologio — del Palazzo del Parlamento di Londra, ma ha la caratteristica di essere posto su una parete o posato su una mensola o un comodino.

    O’clock, ossia of the clock "dell’orologio" si usa per dire le ore intere: it’s five o’clock "sono le ore cinque" — letteralmente "è cinque dell’orologio." Per le frazioni di ora, ci sono due modi di dirle; il primo, più tradizionale, usa past dall’ora alla mezz’ora e to dalla mezza all’ora successiva, dicendo prima i minuti e poi le ore: le otto e dieci sono ten past eight "dieci (sottinteso: minuti) dopo le otto; le sei e un quarto sono a quarter past six; le undici meno un quarto a quarter to eleven.

    Oggi, con la diffusione degli orologi digitali, si sta estendendo un modo più diretto di dire l’ora, mettendo semplicemente in sequenza ore e minuti: le sei e quindici sono six-fifteen e le ventidue e quarantacinque sono ten-forty-five. Gli inglesi preferiscono il sistema basato sulle dodici ore, non sulle ventiquattro. Solo se c’è pericolo di confusione si precisa in the morning "di mattina" in the evening "di sera" ecc. Nello scritto si usano le abbreviazioni a.m. per le ore antimeridiane e p.m. per quelle pomeridiane.

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    E’ ora di...

    Ieri sera ho parlato di ore e orologi e questa sera vorrei aggiungere qualche piccola curiosità. Anzitutto a proposito della Clock Tower, la torre dell’orologio del Palazzo del Parlamento (The Houses of Parliament) di Londra: originariamente il Big Ben non è la torre e nemmeno l’orologio, ma il campanone da 13 tonnellate che batte le ore. Ben è il diminutivo di Benjamin, Beniamino, e Sir Benjamin Hall era il sovrintendente ai lavori all’epoca dell’installazione dell’orologio nel 1859. Pare che la stazza di Sir Benjamin fosse tale da ricordare la mole della campana. In seguito il nomignolo Big Ben ha finito per indicare l’orologio.

    Una seconda curiosità. Credo che vi sia capitato di vedere qualche scena di cartone animato in cui un orologio si anima, il quadrante diventa una faccia e le lancette diventano mani. Se vi è sembrato che il cartoonist, l’animatore, abbia avuto una fantasia particolarmente sbrigliata, sappiate che in lingua inglese il quadrante di un orologio si chiama face, "faccia", e le lancette sono hands, "mani". Quindi questa ‘umanizzazione’ dell’orologio è già nella lingua inglese di ogni giorno, e gli animatori non hanno fatto altro che visualizzarla graficamente. Questo spiega anche come mai la scena si ritrova in vari cartoni animati di diversi autori.

    E ora, "Quel treno per Yuma." E’ il titolo di un film western di parecchi anni fa. Il leitmotiv della colonna sonora è una canzone che ha lo stesso titolo del film: nella versione originale, The Three-Ten to Yuma, letteralmente "il tre e dieci per Yuma." In inglese anche gli orari possono essere usati come aggettivi e messi prima del nome a cui si riferiscono: five o’clock tea il tè delle cinque; the eleven o’clock news il notiziario delle 23. Nel caso del three-ten to Yuma la parola train è sottintesa perché il contesto è chiarissimo e non occorre precisare che si sta parlando di un treno.

    Infine una curiosità storica. Un grande orologio che si trovava in molte locande era detto Act of Parliament Clock, ossia "orologio del decreto legislativo." Nel 1797 venne imposta una tassa di cinque scellini a tutti i possessori di orologi — molti dei quali se ne sbarazzarono, con effetti disastrosi sull’industria del settore, al punto che la legge fu abrogata l’anno successivo. L’orologio delle taverne poteva servire quindi a far risparmiare ai clienti l’imposta. In realtà quegli orologi erano entrati in uso prima della legge, quando le diligenze cominciarono a viaggiare a orari prestabiliti.

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    Viaggiare apre la mente — ma non sempre

    Una volta sono andato per lavoro in una città sul mare da cui un tempo partivano per terre lontane le navi cariche di emigranti. Scendendo da un taxi ho chiesto la ricevuta e l’autista mi ha dato un pezzo di carta, non intestato, spiegazzato e scribacchiato sul retro, su cui ha scritto il prezzo della corsa e una specie di sigla, ma senza né data né numero di taxi — insomma una cosa che non avrei mai potuto presentare per avere il rimborso. Ho cercato di protestare ma con un sorriso e qualche battuta l’autista mi ha fatto chiaramente capire che potevo scordarmi di avere una ricevuta regolare.

    Avevo già rinunciato a quei soldi; ma un po’ più tardi, alla fine del pranzo con cinque colleghi, il gestore del ristorante ci ha presentato un conto unico per tutti. Gli abbiamo chiesto di farci conti separati e lui ci ha dato sei ricevute in bianco, dicendoci di metterci noi la cifra che volevamo. Allora io ho scritto un importo che comprendeva il costo del pasto e quello del taxi e così ho avuto il rimborso di tutto.

    Una domanda: in quale città è successo tutto questo? Siccome sapete che vi parlo dell’inglese e dell’Inghilterra la risposta è facile: ero a Liverpool. Se per caso avete pensato a un’altra città, italiana, all’ombra del Vesuvio, vi siete sbagliati.

    Mi spiace raccontare questi episodi perché apprezzo e stimo gli inglesi. In più, amo la lingua inglese, e non solo per motivi professionali. Però non sono d’accordo con gli esterofili che parlano degli altri paesi come se lì tutto fosse molto meglio che da noi.

    Si usa dire che travelling broadens the mind "viaggiare allarga la mente;" ma da un’altra università inglese ho ricevuto un ritaglio di giornale col titolo Travelling narrows the mind "viaggiare restringe la mente." Che cos’era successo? Un professore di francese aveva portato un gruppo di suoi studenti a passare un week-end in Francia. Questi ragazzi, che avevano scelto di studiare lingue per interesse e stima verso gli altri popoli, si sono dovuti accorgere che anche dall’altra parte della Manica ci sono quartieri poveri con sporcizia e degrado, negozianti disonesti, baristi scortesi, e così via, e una certa immagine della Francia idealizzata si era molto appannata. Le Havre non è molto meglio di Portsmouth.

    Studiare le lingue vuol dire anche costruirsi un’immagine realistica degli altri popoli, una visione equilibrata delle luci e delle ombre. Così possiamo apprezzare davvero gli altri Paesi e anche la nostra Italia, dove molti stranieri preferiscono venire ad abitare.

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    Regole di pronuncia

    La lingua inglese è ricchissima di regole di pronuncia. Non sono quelle che gli studenti stranieri vorrebbero, ossia quelle che consentono di ricavare con sicurezza la pronuncia dalla grafia. Del resto queste regole non le abbiamo nemmeno per l’italiano: lo straniero vede parole che si assomigliano moltissimo, come "pausa" e "paura" e non ha nessuna regola che gli spieghi perché non si dice *"paùsa" come "paura" o *"pàura" come "pausa." L’idea che l’italiano "si legge come si scrive" è un’illusione.

    Quali sono allora le regolarità che troviamo in inglese? Alcune riguardano la pronuncia del plurale dei nomi (che è anche la pronuncia della terza persona del presente dei verbi) e del passato regolare dei verbi. Per cogliere queste regolarità bisogna prima avere distinto i suoni in due gruppi, a seconda che nel pronunciarli vengano fatte vibrare le corde vocali oppure no. Il primo gruppo comprende tutte le vocali e i dittonghi e la maggior parte delle consonanti. Dopo questi suoni la desinenza -s si pronuncia [z] (che è il simbolo della s di “rosa”) e la desinenza -ed si pronuncia [d] — a call, two calls [kòlz] — I call, I called [kòld]; I live, he lives, they lived [liv livz livd]. Se però la parola finisce con un suono sibilante, la desinenza -s si pronuncia [iz] glass glasses, rose roses, dish dishes, watch watches, orange oranges. E se il verbo finisce per [t d] anche qui aggiungiamo una sillaba [id]: want wanted, intend intended.

    Dopo una consonante del secondo gruppo, ad esempio [p t k], la desinenza -s si pronuncia [s] e la desinenza -ed si pronuncia [t]: look, looks, looked [luk luks lukt]; laugh laughs laughed [la:f la:fs la:ft]. Quest’ultimo, il verbo "ridere," l’ho scelto come esempio proprio perché sottolinea che non è alla grafia che dobbiamo badare ma alla pronuncia: termina per [f] che è una consonante analoga a [p t k] (si parla di consonanti sorde) e ne segue la stessa regola. In questo senso tecnico, sordo è il contrario di sonoro: le vocali, i dittonghi e la maggior parte delle consonanti sono sonore.

    Esercizio

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    Invito a palazzo

    Dal 1931 e fino al 1954, il grattacielo più alto dell’isola di Manhattan, con i suoi 381 metri senza contare l’antenna televisiva installata alla sommità, è stato l’Empire State Building, il "palazzo dello stato-impero."

    Lo stato-impero è lo stato di New York, e la parola building indica i palazzi pubblici, o, come nel caso dei grattacieli, anche gli edifici aperti al pubblico, senza distinzioni relative alla proprietà, pubblica o privata. La parola building è di origine germanica ed è una forma del verbo TO build "costruire;" al building si contrappone la parola palace, di derivazione latina attraverso il francese, che indica i palazzi reali o le residenze di nobili o vescovi. La regina d’Inghilterra risiede a Buckingham Palace, il palazzo residenza dei duchi di Buckingham finché nel 1761 re Giorgio III non lo acquistò per farne dono alla moglie; la residenza ufficiale tradizionale della corte d’Inghilterra, che per questo veniva anche detta Corte di San Giacomo, è St. James’s Palace, il "Palazzo di S. Giacomo," da molti considerato la più brutta reggia d’Europa. E’ per evidenti ragioni di prestigio che la parola Palace viene usata nella denominazione di molti alberghi.

    Tornando a New York City, notiamo anzitutto che la dicitura corrente è appunto New York City, per distinguere la città dallo stato omonimo. Infatti una persona può dire I live in New York anche se abita a Buffalo o Rochester, esattamente come un abitante di San Diego può dire I live in California — tra parentesi, proprio la California ha superato New York come stato più popoloso degli Stati Uniti nel 1970. Oltre a Manhattan, di New York City fanno parte altri quattro distretti o boroughs: Brooklyn, The Bronx, Queens, e Staten Island (chiamato Richmond fino al 1975), e tuttavia quando si pensa a New York di solito ci si riferisce a Manhattan. A sua volta quest’isola è tutt’altro che uniforme, perché al suo interno ci sono Chinatown, Little Italy, la Harlem negra e quella ispanica, ecc. I gruppi etnici si sono addensati in aree precise per difendersi in un clima ostile, ma questo ha perpetuato le divisioni e i sospetti. Se c’è una lezione da imparare, è quella di non commettere lo stesso errore, ghettizzando gli immigrati.

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    "Ladies" e "Gentlemen"

    Questa sera parlerò di un argomento che non è il massimo della finezza ma che pure ha una sua precisa importanza per il viaggiatore e il turista. E’ utile sapere, ad esempio, che se negli Stati Uniti avete bisogno di una toilet dovete cercare la restroom — la traduzione letterale sarebbe "camera da riposo." Sulle porte, se non c’è qualche immagine o pittogramma, troverete di solito le scritte GENTLEMEN e LADIES. A volte si trova GENTS, come plurale di gent abbreviazione di gentleman, e anche MEN e WOMEN, ma questo negli ambienti meno formali.

    A meno che non vi troviate a Disneyland: — perché il quel caso si è PRINCES o PRINCESSES, principi o principesse. E in un locale per giovani in California alla fine degli anni ’60 sulle due porte c’erano le scritte BONNIE e CLYDE con riferimento ai protagonisti di un film allora molto in voga.

    Ma viaggiando si trova di tutto — dalle scritte in lingue sconosciute (se siete in Ungheria, ricordate che la parola che comincia per F NON si riferisce alle femmine) a piccoli quiz — come quando ci abbiamo messo un po’ di tempo a capire come stessero le cose nella toilette di un ristorante francese, finché un collega ha notato che una porta era rosa e l’altra era azzurra.

    Nei locali pubblici inglesi l’accesso alle toilets richiedeva l’inserimento di una moneta da un penny — una di quelle vecchie, grosse, di rame — e to spend a penny, "spendere un penny," è rimasto come eufemismo per "recarsi ai servizi." Come il nostro "vado a lavarmi le mani," anche l’inglese I’m going to wash my hands è un’espressione corrente tra persone educate. Un’altra forma usata dalle signore è I’m going to powder my nose "vado a incipriarmi il naso" e in alcuni ambienti molto formali e tradizionalisti si parla tuttora di powder room, "il locale della cipria" per indicare la toilette femminile.

    Nelle case inglesi, invece, spesso vi sono due locali separati per bathroom e toilet, e quindi se chiedete del bagno per usare la forma più educata può darsi che vi indichino la porta sbagliata. L’espressione water closet, da cui viene WC, non la usa più nessuno; la sigla la si trova quasi esclusivamente nella descrizione di case in vendita o di alberghi.

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    Consonanti a coppie

    In una recente trasmissione ho accennato indirettamente al fatto che abbiamo coppie di suoni consonantici; provate a pronunciare due parole italiane come "fino" e "vino:" potete notare che all’inizio, per entrambe le consonanti iniziali, i denti superiori sono a contatto con il labbro inferiore e l’aria spira per tutta la durata delle consonanti stesse. Potete fare un’altra prova tenendo più lunghe le consonanti, per esempio in "beffe" (plurale di "beffa") e "bevve," passato di "bere." Qual è allora la differenza tra f e v, se entrambe sono, per dirla in termini tecnici, spiranti labiodentali? La differenza è che mentre pronunciamo il suono [f] le corde vocali non vibrano, mentre pronunciando [v] vibrano. Potete avvertire la differenza appoggiando le dita sul pomo d’Adamo mentre pronunciate le due consonanti. Riprendendo due termini già usati in precedenti occasioni, diciamo che [f] fa parte delle consonanti sorde e [v] delle consonanti sonore.

    Anche alla grafia th corrispondono due suoni: quello sordo lo troviamo in three, il numero 3 e Thursday, "giovedì." Quello sonoro nell’articolo the e nei dimostrativi this e that — e entrambi si ritrovano in molte altre parole.

    Tutta questa premessa ci serve per sottolineare un’altra regolarità della pronuncia inglese: la presenza di una consonante sorda alla fine dei nomi o degli aggettivi e della sonora alla fine dei verbi corrispondenti. In qualche caso la grafia rimane identica: to use con la [z] sonora è il verbo "usare," the use con la [s] sorda è il nome "l’uso." Lo stesso in close [klouz] the door "chiudi la porta" e a close [klous] friend "un amico intimo."

    Ci sono altri casi in cui l’alternanza tra sonora e sorda viene indicata anche nella grafia: the extent (con la [t] sorda finale) è "l’estensione" e to extend, con la sonora [d], è il verbo "estendere." Proof è la prova, la dimostrazione, e to prove è il verbo "provare" nel senso di "dimostrare:" nella pronuncia c’è solo l’alternanza tra la consonante sorda e la sonora [pru:f pru:v], nella grafia cambiano un paio di lettere. Teeth (col th finale sordo) sono i denti e to teethe (col th finale sonoro) è il "mettere i denti" del bambino piccolo.

    In qualche caso c’è anche un cambiamento di vocale: l’esempio più importante è life [laif] "la vita" e to live [liv] "vivere."

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    Con le migliori qualifiche

    In italiano gli aggettivi che accompagnano i nomi a volte possono precederli o seguirli senza grosse differenze nel significato: "una dolce serata" o "una serata dolce" sono espressioni che molto spesso si possono scambiare tra loro. In inglese si può dire solo a sweet night con l’aggettivo sweet sempre prima del nome night. Questo vale anche quando gli aggettivi sono più di uno "un nuovo libro, molto interessante" è a new, very interesting book. Adult e contemporary sottintendono la parola music che viene dopo i due aggettivi.

    Ci sono poche eccezioni e si riferiscono tutte a cariche ufficiali come quella di Pubblico Notaio notary public, Console Generale Consul General, Presidente eletto President Elect, erede presunto (al trono) heir apparent, e così via. Queste forme si sono per così dire cristallizzate nel tempo e risalgono a quando dopo la conquista normanna il francese era la lingua ufficiale dell’amministrazione pubblica e della burocrazia in Inghilterra.

    In inglese oggi è rimasta qualche espressione francese come force majeure "un caso di forza maggiore."

    Al di fuori di questi casi, l’aggettivo segue il nome solo in presenza di certi verbi o di usi particolari di quei verbi; darò alcuni esempi: se dico Charlie painted the white door intendo dire che "Charlie ha dipinto la porta bianca" — e non è detto se l’abbia dipinta ancora di bianco o di un altro colore; mentre invece Charlie painted the door white significa che ha dipinto di bianco la porta che probabilmente prima era di un altro colore. Un caso analogo l’abbiamo col verbo to find trovare: Se Chiara deve fare una ricerca e deve trovare i libri sull’argomento, la frase Clare found the relevant books vuol dire che Chiara ha trovato i libri adatti, pertinenti; li ha trovati materialmente, in biblioteca o in libreria; invece la frase Clare found the books relevant vuol dire che esaminandoli o leggendoli ha trovato (nel senso che ha scoperto o accertato) che i libri sono pertinenti.

    Se trovate gradevole questo programma if you find this programme pleasant l’appuntamento è per domani sera. I like the music sweet "mi piace che la musica sia dolce..."

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    Superlativo!

    Può darsi che a quest’ora, dopo una giornata di lavoro, di studio o di altre attività, qualche nostro ascoltatore sia stanco, molto stanco, stanchissimo, stanco morto. In inglese "stanchissimo" e "molto stanco" si esprimono allo stesso modo: very tired — non c’è una desinenza che corrisponda al nostro -issimo ma solo l’avverbio che corrisponde a "molto" cioè very (tra parentesi, l’avverbio che corrisponde a "veramente" non è very ma really). Anche in inglese abbiamo l’espressione dead tired, che corrisponde esattamente al nostro "stanco morto" tranne che nell’ordine delle parole: dead, "morto," viene prima di tired "stanco," e non dopo.

    Se per "stanchissimo" si dice "stanco morto," perché per "lentissimo" non si può dire "lento morto"? In inglese si può, e in effetti la conversazione di stasera ha preso lo spunto da un segnale con la scritta DEAD SLOW che ho visto recentemente all’ingresso del parcheggio di un club — da noi si usa un’espressione come "a passo d’uomo." Dead si usa come rafforzativo in vari altri casi: "Elena era totalmente contraria alla proposta" Helen was dead against the suggestion; "l’autobus si fermò completamente" the bus came to a dead stop. A dead loss è "una perdita netta," non solo in senso commerciale ma anche figurato, ossia un evento negativo senza nessuna contropartita positiva.

    A volte dead significa "esattamente" — "Venere era esattamente al centro del telescopio" Venus was dead in the centre of the telescope; "arrivammo esattamente in orario" we arrived dead on time.

    Il colmo della notte è the dead of night e il colmo dell’inverno è the dead of winter. Dead si dice anche di linee telefoniche interrotte o che comunque non funzionano the line went dead "la linea si è interrotta" (letteralmente "andò morta"). Dead end è la strada senza uscita, anche in senso metaforico, ossia detto di un’iniziativa senza sbocco, che non approda a niente.

    La parola dead ha ancora vari altri usi e significati, ma siccome avevo cominciato con l’ipotesi che chi è all’ascolto possa essere dead tired non mi pare il caso di insistere.

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    Parole in catene

    In inglese è molto più facile che in italiano costruire catene di parole in cui la prima si accoppia con la seconda, la seconda con la terza, e così via. Un esempio è compact disk jockey club house organ music master piece e la serie potrebbe continuare a lungo.

    In questa catena si riconoscono parole composte molto usate anche da noi, come compact disc (CD per gli amici) e disc jockey — anche quest’espressione è spesso abbreviata alle iniziali D. J.; jockey è in origine il fantino e Jockey Club è il circolo ippico presente in tutti gli ippodromi e da cui prende nome un importante gran premio. Club house è nei centri sportivi — dai maneggi ai campi di golf — il locale di ritrovo con il bar, la segreteria, ecc. La club house di un campo di golf ha spesso il nome The 19th Hole, "la diciannovesima buca."

    House organ è nelle maggiori imprese la rivista interna prodotta dall’ufficio delle relazioni pubbliche, l’organo aziendale. A proposito, ormai in italiano si parla di "relazioni" invece che di "rapporti" con il pubblico, per via dell’inglese relations; in compenso le relazioni, nel senso di resoconti, si chiamano "rapporti" sulla base dell’inglese reports. E mentre da noi "Un PR" è la persona che svolge questa attività, in inglese PR è solo l’attività in sé.

    Da house organ proseguiamo con organ music che è semplicemente — e letteralmente — la musica per organo, così come music master è il maestro di musica. masterpiece, scritto spesso come una parola sola, tutta unita, è il "capolavoro" ossia, come in italiano, o l’opera più importante di un artista o comunque qualcosa di molto ben riuscito.

    Abbiamo messo insieme, abbastanza casualmente, nove parole — ripeto la catena: compact disk jockey club house organ music master piece, un po’ per ribadire che la lingua inglese ha un alto grado di componibilità e un po’ per dare un filo conduttore ai nostri vagabondaggi tra le parole. Se avete voglia, provate a trovare qualche catena del genere.

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    DEAL

    Quando il Presidente Roosevelt negli anni ‘30 cambiò il corso della politica economica con interventi pubblici in un sistema che era sempre stato rigorosamente privatistico, si parlò di New Deal e il termine è entrato nell’uso internazionale e, ormai, nei libri di storia. Deal è una parola che si usa come nome e come verbo e ha vari significati. Si adopera spesso nel senso di "quantità" nell’espressione a great deal: "ci vuole molta pazienza con lui" you need a great deal of patience with him. Un affare grosso, una trattativa importante, è a big deal.

    Il verbo deal corrisponde in buona misura al nostro verbo "trattare" sia nel senso di "avere per argomento" che in senso commerciale. Non però nel senso di "trattare bene o male qualcuno" o "curare una malattia," per cui si usa treat. Vi do alcuni esempi, pregandovi di fare attenzione alla parola che segue deal.

    "Questo libro tratta di problemi sociali" this book deals with social problems. In italiano abbiamo "trattare di," in inglese deal with.

    With lo ritroviamo in frasi come "Trattiamo con il Giappone e altri paesi orientali" we deal with Japan and other Eastern countries e "non so come trattarlo" I don’t know how to deal with him. Il tipo di merce trattata è invece introdotta dalla preposizione in: "trattiamo merci di cotone" we deal in cotton goods. Dealer è il commerciante in genere e, in qualche caso, è il distributore: "abbiamo rivenditori in tutte le città principali" we have dealers in all the major cities.

    Il senso di "distribuire" lo troviamo anche nei giochi di carte, dove deal è appunto il "dare le carte" e dealer è il mazziere.

    Deal a blow significa "dare un colpo" sia in senso fisico che in senso morale: "la notizia diede un colpo mortale alle mie speranze" the news dealt a mortal blow to my hopes. Dealt è il passato irregolare di deal.

    Quindi c’è molto da dire trattando di to deal: there’s a great deal to say dealing with deal.

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    CAN

    Una delle parole più usate nella lingua inglese è il modale can. I modali sono quei verbi ausiliari che indicano volontà, possibilità, obbligo, permesso, ecc. e che quindi corrispondono ai nostri "potere, volere e dovere" seguiti da un altro verbo.

    Can esprime la possibilità di fare qualcosa: "stasera sono libero, possiamo andare al cinema" I’m free tonight: we can go to the cinema; esprime anche la capacità di fare qualcosa e in questo caso corrisponde all’italiano "sapere:" "Chiara sa guidare molto bene" Clare can drive very well.

    Can si usa anche per chiedere e per dare il permesso: "posso prendere a prestito la sua penna, per favore?" Can I borrow your pen, please? "Ora potete andare" you can leave now.

    Un altro uso riguarda il valore di verità che si attribuisce a un’affermazione. Come in italiano: se dico che "il treno è in ritardo" faccio un’affermazione; se dico che "il treno può essere in ritardo" faccio un’ipotesi, ad esempio per spiegare come mai una certa persona non sia ancora qui. In inglese the train is late esprime certezza — the train can be late introduce un elemento di dubbio, una supposizione. In questo caso si usa spesso may, invece di can, ma ce ne occuperemo un’altra sera — i modali è meglio studiarli uno per volta.

    Il modale can ha una forma could che corrisponde al nostro "potrei, potresti," ecc. e come il condizionale italiano attenua la forza di can e quindi viene usata, ad esempio, per essere più gentili nel chiedere un favore: could I borrow your pen please? "potrei prendere la sua penna, per favore?"

    La forma negativa di can è cannot, scritta come una parola di sei lettere, e la forma contratta è can’t. Vediamo ora un gioco di parole: chi può dire we eat what we can and we can what we can’t? Per capirlo bisogna sapere che can è anche il barattolo o la lattina, da cui deriva il verbo to can "inscatolare." La frase allora significa "mangiamo quel che possiamo” we eat what we can “e inscatoliamo quel che non possiamo” we can what we can’t — sottinteso eat, “mangiare”. Sono contadini che inscatolano ciò che producono e che loro stessi non riescono a mangiare.

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    Complimenti?

    Una delle espressioni inglesi che spesso vengono fraintese è il With Compliments sui biglietti che accompagnano certi oggetti che ci vengono dati. Nessuno ci sta facendo i complimenti o si sta congratulando con noi: semplicemente si intende dire che la cosa viene offerta in omaggio — una traduzione accurata sarebbe quindi "con i nostri omaggi." Lo stesso vale per l’aggettivo che ne deriva, complimentary: una copia omaggio (di una pubblicazione) è una complimentary copy e un campione gratuito di un prodotto è un complimentary sample.

    I complimenti, nel senso di felicitazioni o rallegramenti per qualche successo o fatto positivo sono congratulations: "complimenti per la promozione" congratulations on your promotion.

    L’espressione “fare complimenti” è intraducibile in inglese semplicemente perché non si usa la manfrina di fingere di rifiutare sapendo che chi ospita insisterà perché si accetti: in Inghilterra un no, thank you viene preso alla lettera, come desiderio di non avere ciò che viene offerto. Per non rischiare di restare senza qualcosa che vi va di avere, rispondete subito YES, PLEASE — avrete notato la differenza tra yes please e no thank you, mentre in italiano è "sì grazie / no grazie;" se dite solo thank you la persona a cui rispondete resterà incerta ma è più facile che lo prenda per un "no" che per un "sì." Quando un inglese dice make yourself at home "fa’ come se fossi a casa tua" dice sul serio; quando durante un party si servono i rinfreschi chi ospita non si preoccupa più di tanto di badare che ognuno si serva a proprio gradimento, lo dà per scontato. Per inciso, l’inglese ha due parole diverse per chi ospita: host, femminile hostess, e chi viene ospitato: guest, mentre l’italiano "ospite" è ambiguo.

    Tornando ai complimenti, in inglese non abbiamo nemmeno un’espressione che traduca direttamente "fare i complimenti" nel senso di dire cose carine a qualcuno — a proposito del suo aspetto, della sua simpatia o altro. Non intendo dire che gli inglesi o gli americani non sappiano fare i complimenti: di espressioni gradevoli dette per far piacere agli altri esprimendo apprezzamento ce ne sono fin che se ne vuole. Solo manca una parola che esprima l’idea globale e collettiva che in italiano si riassume nei "complimenti."

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    MUST (e dintorni)

    Per dire che qualcosa è d’obbligo, perché è molto bella, importante o prestigiosa, si dice che è un must — e un produttore di beni di lusso ha dato questo nome a una sua linea di prodotti. In questo caso si usa come nome una parola, must, che di solito è un verbo modale, il modo più comune in inglese per esprimere "dovere."

    Più precisamente, must indica di solito un obbligo che sorge dalla persona che parla: se in italiano dico che "Giorgio deve andarsene subito," non è chiaro se se ne deve andare perché lo voglio io o perché altre circostanze glielo impongono; o meglio, la frase in sé è ambigua, poi di solito il contesto ci permette di capire in che senso "deve." In inglese, invece, cambia anche il verbo: George must go at once indica che sono io a obbligarlo, mentre George has to go at once vuol dire che qualcos’altro, diverso dalla mia volontà, lo costringe ad andare.

    Se parlo in prima persona, come ad esempio in "questa sera devo restare a casa," con I must stay at home tonight indico che sono io a imporlo a me stesso mentre I’ve got to stay at home tonight vuol dire che mi tocca stare a casa perché c’è qualche circostanza che mi costringe a non uscire.

    Come l’italiano "dovere," must viene usato non solo per esprimere obbligo ma anche supposizione; se dico di una tale che "deve avere più di 50 anni" she must be over fifty, evidentemente non le impongo niente — voglio solo segnalare che non sono perfettamente sicuro di quello che sto dicendo, se no, userei la forma senza "dovere" e direi "ha più di 50 anni" she is over fifty.

    Negli esempi abbiamo sentito che per segnalare un obbligo esterno si usa il verbo have, eventualmente accompagnato da got, seguito dall’infinito col TO del verbo. "Devi stare attento" you’ve got to be careful, "deve preparare un esame" she has to prepare an exam.

    Ora il mio tempo sta per finire, my time is up, devo terminare I have to stop: chi ama la radio sa che questa trasmissione è un must.

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    Ma loro, come lo dicono?

    Dedico la conversazione di stasera alla pronuncia di parole inglesi note anche a noi per motivi diversi ma solitamente rese in modo distorto. Ho già chiarito qual è il mio punto di vista su questo problema, ma lo ripeto per coloro che non avessero ascoltato altre mie trasmissioni sull’argomento.

    Sono del parere che quando parliamo in italiano dobbiamo dire le parole inglesi come le dicono tutti — se vogliamo farci capire e non fare gli snob. Le Cascate del Niagara sono le cascate del Niagara e non le cascate del [naiègara]. Però se ci capita di andare negli Stati Uniti o in Canada dobbiamo chiedere delle Niagara Falls, altrimenti se diciamo Niagara all’italiana faranno molta fatica a capirci. Così come, ne parlavo un’altra sera, se dobbiamo recarci a Derby in Inghilterra sarà bene che diciamo [da:bi], ma Milan-Inter è il derby e non il DERBY [da:bi]— e tanto meno il [doeurbi] che non esiste proprio come pronuncia.

    Il transatlantico che affondò tragicamente nella traversata inaugurale si chiamava, in inglese, TITANIC [taitènik], da TITAN [taitn] che nella mitologia antica era il titano; in anni più recenti, TITAN è anche il nome del missile americano delle prime missioni spaziali.

    La città dell’Arizona che da noi viene detta [tukson] o [takson] dai suoi abitanti è chiamata TUCSON [tu:sa:n] — e lo stato che si scrive ARKANSAS si deve pronunciare [arkanso:]; pare che ci sia una legge, vecchia ma mai abrogata, per cui è illegale, nello stato dell’ARKANSAS, usare una pronuncia scorretta.

    La strada di Londra con i club più esclusivi si chiama Pall Mall e la pronuncia più tradizionale è [pel mel] — il suo nome deriva dal gioco della palla-maglio di origine francese. Una pronuncia americana [po:l mo:l] esiste ma non si riferisce alla via di Londra ma alle sigarette.

    Non è un caso che quasi tutte le parole di cui ci siamo occupati questa sera siano nomi propri. Sono i nomi che più di altri seguono percorsi alternativi e si allontanano dalle regole più diffuse. E non soltanto quelli geografici, ma anche i cognomi. Lo scrittore CRICHTON che molti chiamano [kric’ton] in realtà si chiama [kraitn]. E un attore americano di origine italiana, DON AMECHE [don amici] proprio da noi trovava il cognome storpiato in Ameche o anche alla francese, Amèche. E a questo proposito, uno dei più noti popoli nativi nord americani si chiama APACHE [apèci] e non Apache, alla francese, come diciamo noi.

    Sono solo esempi, mi basta segnalare il problema e semmai raccomandare l’uso di qualche buon dizionario della pronuncia inglese.

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    Se plurale deve essere...

    Ho ricevuto recentemente una lettera in cui la parola computers è scritta con la esse del plurale inglese anche se in quel contesto si parla di un solo computer, al singolare. E in un’intervista un personaggio dello spettacolo ha detto "un mio fans." In quest’ultimo caso può trattarsi benissimo di un lapsus — so per esperienza diretta come sia facile prendere delle papere, e in quanto alle lettere, ho l’impressione che sempre meno persone rileggano quello che hanno scritto, prima di spedirlo. In ogni caso mi pare significativo che si sia commesso proprio quell’errore, che rivela non solo una conoscenza approssimativa dell’inglese ma anche uno scarso rispetto della grammatica italiana.

    Non capita spesso, ma una volta tanto ci sono due regole abbastanza chiare e precise. La prima è che in italiano le parole di origine straniera o che comunque finiscono con una consonante sono invariabili — e quindi diciamo (o dovremmo dire) "praticare molti sport," "ci sono in giro dei bei film," eccetera. Finora non ho sentito dire *”i gases” per "i gas" o *“gli autobuses” per "gli autobus" ma ho paura che arriveremo anche a questo.

    L’altra regola è che le parole importate da altre lingue, i cosiddetti "prestiti," seguono le norme della lingua che li accoglie.

    In inglese troviamo il plurale all’inglese dei prestiti italiani: ad esempio, le pizze sono PIZZAS, gli affreschi sono FRESCOS e le terrecotte sono TERRACOTTAS. Un caso a parte sono quelle parole che non si usano al singolare se non in rari casi e che sono state importate in inglese direttamente al plurale, parole come SPAGHETTI, MACARONI, ZUCCHINI e CONFETTI (che però non sono quelli che noi chiamiamo "confetti," ma i coriandoli).

    La regola del plurale inglese dei prestiti non vale solo per quelli italiani ma per tutte le lingue moderne. I primi satelliti sovietici erano detti *“sputniks” e non “sputniki”. Se si volesse essere corretti bisognerebbe conoscere le regole della formazione del plurale di tante lingue. "Yogurt" è una parola di origine turca — ma come fa al plurale in turco? Non sapendolo, seguiamo le regole: in inglese, caso mai venisse usato il plurale, sarebbe yoghurts e in italiano "gli yogurt". Non avrebbe senso usare in italiano il plurale inglese per una parola turca.

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    Plurali classici

    Parlando ieri sera di prestiti, ossia di parole importate in inglese da altre lingue ho precisato a un certo punto che le regole del plurale valevano per le lingue moderne. Era una precisazione importante a cui non ho dato rilievo per mancanza di tempo e perché avevo deciso di riprendere il discorso stasera. Per i prestiti da lingue classiche, infatti, si seguono spesso le regole di quelle lingue.

    In questi quattro mesi di conversazioni radiofoniche sulla lingua inglese ho già ricordato un paio di volte una parola come medium, e soprattutto il suo plurale media, molto importante per via dei mezzi di comunicazione sociale o mass media. Medium ha tuttavia altri significati; come da noi "medium," indica la persona che avrebbe il potere di mediatore tra noi e gli spiriti dei trapassati — in questo senso si usa spesso il plurale all’inglese mediums; in inglese medium è anche un termine scientifico per indicare una sostanza che fa da ambiente a un processo biologico (come il "brodo di coltura" delle cellule) o comunque considerata come mezzo di trasmissione di una forza o di un effetto.

    Un altra parola che ha entrambe le forme plurali è formula; nel senso di formula matematica o chimica si usa il plurale alla latina formulae e pronunciato con una i prolungata come suono finale; nel linguaggio quotidiano formula viene usata per indicare il preparato per l’allattamento artificiale che viene somministrato con il biberon, e qui il plurale più frequente è quello all’inglese, formulas.

    La parola data vive ora di vita propria indipendente da datum, di cui è il plurale alla latina. Si usa come nome plurale, col verbo alla forma del plurale e con modificatori come these, many, a few ma non è mai preceduta dai numerali; e si usa come nome astratto solo singolare, con verbi e modificatori singolari (come this, much, little), e richiamandola col pronome it. Entrambi gli usi sono corretti e correnti, ma la forma plurale è più frequente nei testi a stampa, evidentemente perché la impongono molti editori.

    Il plurale terminante in -a lo troviamo anche in parole di origine greca come phenomena — qui il plurale è abituale perché di solito, nelle scienze e in filosofia non si parla di casi isolati ma di fenomeni complessi. La parola phenomenon, al singolare e spesso abbreviata in phenom, la si usa invece per indicare individui eccezionali, strani o molto particolari — anche in italiano si può dire in questo senso che una certa persona "è un fenomeno" o "ha un talento fenomenale."

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    Ancora sui prestiti classici

    Per la terza trasmissione consecutiva torno a parlare delle parole straniere, classiche e moderne, presenti in inglese. Ieri sera non ha fatto tempo a dire delle parole di origine latina che sono originariamente dei plurali neutri in -a ma che ormai si usano come singolari. Una di queste parole è agenda (anche in italiano "agenda" è un nome singolare); in inglese indica non il taccuino ma quello che noi chiamiamo "l’ordine del giorno" di una riunione o il programma di lavoro in un progetto.

    Una parola dello stesso gruppo, che si usa sempre meno, come l’oggetto a cui si riferisce, è candelabra che è il candeliere a più braccia.

    Un’altra lingua classica da cui provengono parole col plurale irregolare è l’ebraico. Cherub ha il plurale cherubim per indicare i cherubini, e seraph ha seraphim per i serafini. Notiamo che in italiano "cherubino" e "serafino" sono parole singolari che si sono modellate sul plurale ebraico e non sul singolare. Il plurale all’inglese cherubs è usato solo per gli angioletti nella pittura o nella scultura e, per traslato, per le persone che hanno l’aspetto roseo e ingenuo di un bambino.

    Il plurale in -im lo troviamo anche in un’altra parola ebraica ma questa volta moderna, nata nel 1944: si tratta del kibbutz. Un po’ perché la stampa inglese ne ha parlato subito al plurale adottando la forma ebraica, un po’ perché il plurale all’inglese, che sarebbe *kibbutzes, suona male, kibbutzim è ormai entrato stabilmente nell’uso.

    Visto che siamo tornati ai giorni nostri, ricordo che in italiano abbiamo le quattro forme degli aggettivi come "buono, buona, buoni, buone" mentre in inglese c’è solo good, maschile femminile e neutro, singolare e plurale.

    Un esito curioso riguarda la parola bravo, o, più spesso, bravò con l’accento in fondo alla francese (!), usata insieme agli applausi per esprimere l’apprezzamento da parte del pubblico. In inglese si applica la regola per cui gli aggettivi sono invariabili e quindi si grida bravo anche se l’artista è femmina o se sono in più di uno. bravo, quindi, (e non *brave) anche alle Spice Girls — se vi piacciono...

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    Conosci la Gran Bretagna?

    Qualche tempo fa è stata condotta un’inchiesta tra gli studenti di una Facoltà per Interpreti e Traduttori per verificare la loro conoscenza del Regno Unito. Si trattava quindi di studenti accuratamente selezionati in base alle loro conoscenze linguistiche e presumibilmente molto interessati verso i Paesi stranieri — proprio per questo i risultati sono stati molto deludenti.

    Le domande erano di vario tipo: alcune di carattere tradizionale, come quella di indicare il capo del governo — e una persona su cinque o non ha risposto o ha indicato la regina invece del Primo Ministro (che allora era Mrs Thatcher); altre chiedevano di segnare su una cartina muta la posizione delle città più importanti e il corso dei cinque fiumi principali. Non pochi hanno fatto sfociare il Tamigi nel Canale della Manica, e alcuni hanno dato l’idea o di non sapere dove si trova Londra o di non ricordare che il Tamigi la attraversa.

    Alla domanda di indicare quale sia la seconda città britannica per popolazione, solo uno studente su sei ha dato la risposta esatta. E’ come se l’84% degli studenti stranieri di italiano non sapesse che dopo Roma in Italia c’è Milano. Si tratta di una grande città industriale, con oltre un milione di abitanti, gemellata con Milano come tutte le seconde città dei grandi paesi europei (assieme a Barcellona, Lione e Francoforte) ma da noi quasi sconosciuta.

    Non ho né la voglia né i titoli per fare la predica a nessuno, ma se abbiamo problemi nei rapporti con l’Europa — dagli immigrati alle quote latte — forse un po’ dipende dal fatto che conosciamo poco e male gli altri Paesi e magari ci importa poco di eleggere rappresentanti al Parlamento Europeo sulla base delle capacità dei candidati come negoziatori e amministratori e non sulla base degli schieramenti interni. L’Inghilterra è entrata nella Comunità nel 1973 dopo anni di discussioni se fosse meglio importare il burro dalla Germania e Danimarca o continuare a farlo arrivare dalla Nuova Zelanda — e questioni simili, che almeno dimostrano concretezza e la consapevolezza che la Comunità ha le sue regole, i suoi pregi e i suoi difetti.

    Alle ultime elezioni europee in Irlanda si sono scelti i candidati indipendentemente dai partiti pur di garantire la presenza di persone preparate. Da noi, forse qualcuno lo ricorda, c’erano appena state le elezioni politiche, e le europee sono state utilizzate come una specie di esame di riparazione pro o contro Berlusconi.

    Sapere le lingue, e in particolare l’inglese, dovrebbe proprio servire ad aprirsi verso gli altri popoli e paesi.

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    Errori maiuscoli

    Parlando di popoli e di lingue qualche sera fa ho detto che in inglese tutti i nomi e gli aggettivi di nazionalità si scrivono con l’iniziale maiuscola anche quando gli aggettivi sono usati per indicare la lingua: in ogni caso, quindi, English si scrive con la E maiuscola e Italian con la I maiuscola.

    Si scrivono maiuscoli anche gli aggettivi riferiti alle religioni: Christian, Catholic, Protestant, Muslim, eccetera. Lo stesso vale per gli aggettivi riferiti ai partiti e movimenti politici: Conservative, Republican, Socialist, Communist, ecc. Per essere più precisi, queste parole si scrivono con la minuscola se non c’è un riferimento politico diretto o nei loro altri significati — per esempio, per dire che una stima dei danni è cauta e moderata si parla di a conservative estimate of the damages, intendendo con questo che la cifra è probabilmente stimata per difetto. Le maiuscole si usano sempre, in particolare, nei nomi dei partiti e nelle designazioni dei governi, come in "Partito Democratico" The Democratic Party, "governo laburista" The Labour Government.

    Sempre maiuscoli devono essere scritti anche i nomi dei giorni e dei mesi — e non chiedetemi perché invece quelli delle stagioni no. E tra le parole che si scrivono sempre maiuscole c’è il pronome I, "io".

    Nei titoli dei libri e anche in molti titoli di giornali si usa spesso l’iniziale maiuscola per tutte le parole importanti — nomi, verbi, aggettivi e avverbi — mentre restano minuscoli gli articoli, gli ausiliari, le preposizioni e le congiunzioni, a meno che non siano la prima parola del titolo, che comincia sempre con la maiuscola.

    Per il resto l’uso inglese è simile a quello italiano. "Lettera maiuscola" si dice capital letter e l’aggettivo capital si usa per "maiuscolo" anche in senso metaforico: a capital joke "uno scherzo maiuscolo" o "una battuta divertentissima." Per indicare che qualcosa deve essere scritto in tutte maiuscole, come su certi moduli, si usa l’espressione block capitals. La lettera minuscola è semplicemente una small letter una lettera piccola. Termini più tecnici per maiuscole e minuscole sono rispettivamente upper-case letters e lower-case letters.

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    Città britanniche

    Qualche sera fa ho parlato di una ricerca per vedere quale immagine ha della Gran Bretagna un certo numero di italiani selezionati su un campione di studenti. Riferivo che alla domanda di indicare quale sia la seconda città britannica per popolazione, solo uno su sei ha dato la risposta esatta. E osservavo che è come se l’84% degli stranieri non sapesse che dopo Roma in Italia c’è Milano. Si tratta di una grande città industriale, con oltre un milione di abitanti, gemellata con Milano come tutte le seconde città dei grandi paesi europei (assieme a Barcellona, Lione e Francoforte) ma da noi quasi sconosciuta.

    Non ho detto di quale città si tratta e quindi questa sera do la soluzione per chi avesse dei dubbi: la città è Birmingham, nella regione delle Midlands o "terre di mezzo," nel cuore dell’Inghilterra. Una delle ragioni della scarsa notorietà di questa città può essere il fatto che non se ne parla nelle cronache sportive — a differenza di quanto avviene per Manchester, Liverpool, Newcastle, Nottingham o Leeds. Infatti la squadra di calcio di prima divisione di Birmingham si chiama Aston Villa. Aston è un importante quartiere nella zona nord della città, con la seconda università e altre istituzioni importanti. In parte è un caso analogo a quello della Sampdoria, con la prima parte del nome che si riferisce a Sampierdarena. E non sapere in quali città giocano l’ Arsenal, il Crystal Palace, il Celtic o i Rangers è come non sapere quale sia la città di Inter, Juventus, Lazio o Atalanta.

    Alcune squadre di Londra prendono il nome dal quartiere di origine: Chelsea, Tottenham e Wimbledon — ma quest’ultimo è molto più noto per il torneo di tennis.

    Prima ho citato Celtic e Rangers che non giocano nel campionato inglese English League ma in quello scozzese Scottish League perché sono le squadre di Glasgow. Oltre che dalla normale rivalità sportiva sono divise dal fatto di essere le squadre preferite rispettivamente dai cattolici e dai protestanti e quindi non è raro che le partite tra queste due squadre si carichino anche di tensioni sociali. La capitale della Scozia, Edimburgo Edinburgh è detta The Heart of Midlothian "il cuore della contea del Lothian centrale" e da questo prende il nome la squadra, Hearts of Midlothian, detta semplicemente Hearts, i cuori.

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    Motivazione

    Mi è stato chiesto, in privato, se queste lezioni di inglese per radio possono davvero servire per imparare l’inglese. La domanda mi è sembrata interessante e vorrei dare una risposta rivolgendomi a tutti gli ascoltatori. Anzitutto io non ho mai usato la parola "lezioni" ma semmai ho parlato di "conversazioni" che hanno per argomento la lingua inglese e qualche volta anche la cultura, la storia, la geografia e le istituzioni dei paesi di lingua inglese.

    Una lezione ha una durata diversa, fa parte di un ciclo di interventi ossia di una serie ben organizzata, prevede degli esercizi e soprattutto, nel caso delle lingue straniere, prevede una possibilità di dialogo — per imparare a parlare l’inglese bisogna avere l’occasione di parlarlo, di far pratica; la radio offre solo la possibilità di un ascolto. Ho l’impressione — ma è solo un’impressione che non posso verificare — che chi mi ha seguito con una certa regolarità probabilmente ha imparato due frasi: quella con cui vi saluto all’inizio, Good evening, ladies and gentlemen! e quella conclusiva che riprende il "dolce è la sera, dolce è la notte" di questa trasmissione: sweet is the night on Circuito Marconi! In entrambi i casi, e specialmente nel secondo, non si tratta di espressioni che possono servire nella vita di ogni giorno.

    Queste conversazioni si ascoltano nell’atmosfera rilassata del programma, come diversivo e come accompagnamento di altre attività — a questo proposito, una collega mi ha detto di avermi ascoltato in taxi e vorrei mandare un cordiale saluto ai tassisti sintonizzati sul Circuito Marconi. E’ molto facile dimenticare quello che si ascolta per passatempo, senza un particolare impegno e senza una vera necessità di ricordarlo — direi anzi che è normale dimenticarlo. Però qualcosa può colpire l’attenzione, può far scattare un ricordo o chiarire un dubbio, può suscitare una curiosità o stimolare una riflessione — e questo qualcosa è diverso per ciascun ascoltatore.

    Forse una sola cosa vorrei riuscire a comunicare: il fascino che esercitano le lingue, come espressione dell’anima degli altri popoli. Per imparare qualsiasi lingua la premessa essenziale è proprio questa sensazione di attrazione, di solidarietà verso gli altri, questa voglia di conoscere modi di esprimersi diversi da quelli a cui siamo abituati. E’ stato ampiamente dimostrato che se si ha un’avversione, anche inconscia, rispetto a una lingua e al popolo che la parla, non la si impara mai davvero — al massimo si mettono assieme quelle poche frasi che servono per sopravvivere.

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    Ancora itang’liano

    Ho detto più volte da questi microfoni che stiamo cambiando la lingua italiana a causa degli influssi dell’inglese; ho fatto l’esempio dei profughi, che adesso si chiamano "rifugiati" per via dell’inglese refugees — e potrei aggiungere il fatto che nessuno prende più provvedimenti, ma tutti adottano "misure," dall’inglese measures che vuol dire "provvedimenti;" in inglese la "misura" nel senso di "misurazione" è measurement e nel senso di "taglia," ad esempio di un abito, è size.

    In inglese l’ansia si chiama anxiety e oggi molti dicono "ansietà" quando in realtà vorrebbero dire "ansia." Un caso ancora più notevole è l’aggettivo "prospero," riferito ad esempio a un paese ricco. In inglese si dice prosperousa prosperous country e ora mi capita abbastanza spesso di sentire dire "prosperoso" come sinonimo di "ricco." Qui non si tratta di capire l’inglese ma di conoscere l’italiano, di sapere la differenza tra "prospero" e "prosperoso," tra "una nazione prospera" e "una balia prosperosa" (di quelle che ormai non esistono più se non nei vecchi romanzi e nei film storici).

    Il fatto strano è che siccome nella lingua inglese ci sono molte parole di una o due sillabe, un’imitazione dell’inglese dovrebbe portare a accorciare le parole italiane, non ad allungarle. Ma l’adozione delle forme pseudo-inglesi per questioni di prestigio si associa a un altro fatto: e cioè che sempre per ragioni di prestigio si preferisce la parola più lunga, soprattutto se in apparenza è un termine che suona più tecnico o scientifico. Il verbo che significa "chiarire" in inglese è clarify; un po’ per ricalcare la forma inglese e un po’ per usare un termine in apparenza più dotto molti ora preferiscono "chiarificare" anche se si passa dalle tre sillabe di "chiarire" e di clarify a cinque — o forse proprio per questo.

    All’inglese specifically corrisponde l’italiano "specificamente," ossia "in modo specifico;" per qualche motivo che mi sfugge molti preferiscono dire "specificatamente" che pure esiste ma significa "in modo specificato" e quindi non è la stessa cosa di "specificamente."

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    PULL!

    Recentemente un quotidiano commentava le divergenze tra politici e magistrati con una vignetta in cui un Pubblico Ministero punta la doppietta contro due leader politici e grida: POOL! con due o e con evidente riferimento a "mani pulite." La parola usata da chi fa tiro al piattello è un’altra, molto simile, ossia pull! "tira" — cioè "tira la corda che fa scattare il meccanismo di lancio del piattello."

    Pull è infatti il verbo "tirare" e lo ritroviamo nel pullover, che è quel capo che viene indossato tirandolo al di sopra della testa — over vuol dire "al di sopra."

    La parola pool è diversa da pull nella grafia, nella pronuncia e nel significato. In origine pool è la pozzanghera o il laghetto naturale; poi è stata usata per le cisterne e i bacini di raccolta artificiali, che consentono di riunire tutta l’acqua disponibile per poi ridistribuirla a seconda delle necessità per i diversi impieghi. La piscina si chiama swimming-pool, da swim, nuotare.

    Una seconda parola pool, di origine francese, indica la "puglia" cioè l’insieme dei soldi scommessi nel gioco d’azzardo. Anche qui c’è un’idea di raccolta e di assegnazione; secondo alcuni, la fusione e confusione tra le due parole pool è stata accentuata dal fatto che il francese fiche, il gettone nel gioco a soldi, assomiglia all’inglese fish, pesce, che può trovarsi in un pool naturale.

    Da questa comune idea di raccolta, messa in comune e ridistribuzione nasce l’uso della parola pool in economia, per indicare i consorzi di imprese e altri organismi che riuniscono e coordinano realtà diverse per trarne il massimo vantaggio e poi dividere equamente i benefici. Uno dei progenitori del Mercato Comune Europeo è stato il pool del Carbone e dell’Acciaio.

    Oggi alcune linee aeree sono gestite in pool da compagnie diverse, ognuna delle quali fornisce una parte dei servizi e alcuni voli. In molte aree urbane degli Stati Uniti sono state lanciate iniziative di car pool: i pendolari di una zona residenziale che devono raggiungere lo stesso quartiere di lavoro sono incoraggiati a mettersi a turno a disposizione di altri, così che circolano meno auto e ognuno guida la sua una volta ogni tre o quattro giorni. Il superamento dell’individualità e la gestione al meglio delle risorse sta anche alla base del pool che si è costituito al Palazzo di Giustizia.

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    BOWL (Super e non)

    Il mese scorso negli Stati Uniti si è disputato il Super Bowl, che è l’incontro che decide il campionato di football americano professionistico. La Lega Nazionale, National Football League, si divide in due gironi, la American Football Conference e la National Football Conference, che fino al 1966 erano due campionati distinti. Le squadre vincitrici dei due gironi si incontrano per la Super Coppa — questo è infatti il significato di Super Bowl.

    Bowl, la parola di cui ci occupiamo stasera, è infatti la coppa, ma ha anche altri significati. Il più noto da noi è quello di "boccia" nel gioco del bowling che in inglese si pronuncia [boulin’] e che da noi è diventato [buling].

    In realtà bowling è qualsiasi gioco di bocce; in Inghilterra e Stati Uniti il gioco delle bocce è simile al nostro ma le bocce hanno all’interno un peso che le sbilancia e le fa curvare quando rallentano — non è facile dosare il tiro ma se si è bravi si può andare a punto anche aggirando le bocce già giocate.

    Il gioco dei birilli che noi abbiamo importato nella versione meccanizzata e che chiamiamo [buling] per gli inglesi è tenpin bowling, dove tenpin indica appunto i dieci birilli; un tempo i birilli erano nove ma una legge puritana proibì il gioco del ninepin; la legge venne aggirata aggiungendo il decimo birillo.

    Tornando a bowl, oltre alla coppa (sia per il vino che come trofeo) la parola indica molti oggetti che hanno una forma analoga, semisferica: la sugar bowl è la zuccheriera; in un territorio montuoso bowl è la conca. La Hollywood Bowl è un enorme teatro all’aperto che ha il palco racchiuso da un fondale emisferico, in modo che suoni e voci siano proiettati verso il pubblico. E il nome di bowl è stato dato anche a altre costruzioni simili: stadi sportivi — ad esempio per il baseball — arene, palazzetti e simili.

    La parola baseball — come football — contiene la parola ball "palla" che non va confusa con bowl anche se la pronuncia è abbastanza simile.

    Ricordo infine che per "coppa" nel senso di "trofeo sportivo" si usa anche la parola cup, che nell’inglese di ogni giorno significa invece "tazza" — una tazza di tè o di caffè sono a cup of tea, a cup of coffee.

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    GUYS and DOLLS

    Abbiamo già parlato delle varie scritte sulle porte delle toilets: GENTLEMEN e LADIES, di solito; PRINCES e PRINCESSES (principi e principesse) a Disneyland; BONNIE e CLYDE in un bar beat degli anni ’60, eccetera. Un’ascoltatrice mi ha segnalato che nella serie televisiva Happy Days ci sono GUYS e DOLLS, anche qui con riferimento a un film di successo che da noi è stato tradotto come “Bulli e Pupe”. E’ una buona traduzione: dolls sono le bambole in generale, comprese quelle di cui cantava Fred Buscaglione nel suo Ehi, bambola!

    L’origine di guy è interessante. La radice è la stessa del nome italiano Guido e la forma è la stessa del nome francese Guy, un nome portato anche da personaggi noti, come lo scrittore Guy de Maupassant e lo stilista Guy Laroche. Guy Fawkes è quello della congiura delle polveri (ne abbiamo parlato alla fine di ottobre) e da lui viene il nome comune guy per indicare il fantoccio bruciato nei falò che ricordano e festeggiano la scoperta della congiura. Per estensione guy si adopera correntemente nel linguaggio familiare per dire "un tizio, un tale" — è una di quelle parole da non adoperare se non si è ben sicuri di non offendere nessuno: dire there’s a guy that wants to talk to you è come dire "c’è un tizio che ti vuol parlare."

    La regola generale a cui vale la pena di attenersi è quella di evitare le espressioni idiomatiche e gergali se non si è ben sicuri del fatto proprio. Tornando a guy, la parola è stata ed è adoperata in vari modi soprattutto nel linguaggio giovanile, specialmente americano; una ragazza può dire my guy per indicare "il mio ragazzo, il mio ‘lui’." Nell’ambiente del film Guys and Dolls o della serie Happy Days queste parole hanno un valore molto vicino a quello del romanesco "bulli e pupe," un valore che il film ha contribuito a diffondere e rafforzare.

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    Da verbi ad aggettivi

    In inglese, per dire "una ragazza dagli occhi azzurri" si può dire a blue-eyed girl, dove dal nome dell’occhio eye si deriva un aggettivo eyed costruito aggiungendo la desinenza -d come se si trattasse del participio passato di un verbo. A sua volta, eyed è preceduto da blue, il colore azzurro, e l’espressione blue-eyed è usata come un unico qualificativo davanti a girl. Non è questo il solo caso: una questione che può essere esaminata da molti lati è a many-sided question; "Papà Gambalunga," il protagonista del vecchio film omonimo, in inglese è Daddy Long-Legs; un uomo come lui, con le gambe lunghe, può essere descritto come a long-legged man, mentre uno sgabello a tre gambe è a three-legged stool.

    Queste forme in cui nomi come eye, side e leg diventano participi (eyed, sided e legged) prendono a modello altre forme in cui il participio passato funziona da aggettivo: "stanco" è tired, dal verbo tire "stancare"; "perplesso" è puzzled dal verbo puzzle — che corrisponde al nome puzzle (in inglese questa parola indica tutti i rompicapi, non solo quello dei pezzettini da incastrare: un cruciverba è un crossword puzzle). Da un verbo come interest "interessare" derivano i participi interesting e interested, entrambi usati come aggettivi, per "interessante" e "interessato."

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    Politically Correct

    Questa sera voglio spigolare alcune curiosità da un libro che si intitola The Official Politically Correct Dictionary and Handbook, pubblicato a New York nel 1992 e che di ufficiale non ha proprio niente. Sulla quarta pagina di copertina, in piccolo e in un angolo, la parola humor chiarisce a quale genere appartiene il libro.

    Molti degli esempi riportati nel libro sono comunque tratti da documenti reali, come quello di una Società che annunciava il licenziamento di un certo numero di dipendenti con l’espressione career-change opportunity, ossia l’occasione buona per cambiare carriera. E la NASA parlando del disastro del Challenger ha detto che stava conducendo una anomaly investigation, una "indagine sull’anomalia." Ricordo che l’anomalia, il difettuccio, è costata la vita a cinque persone. Sono chiari tentativi di mascherare realtà di tipo ben diverso.

    Se da un lato abbiamo la sostituzione, più o meno ipocrita, di termini forti ed espliciti con altri meno forti, dall’altra abbiamo l’operazione contraria di chi vuole richiamare certe problematiche anche usando termini particolarmente duri.

    Si propone, ad esempio, di non usare più la parola zoo (abbreviazione di zoological garden), ma, ad esempio, animalcatraz che ricorda l’isola di Alcatraz nella baia di San Francisco, un tempo sede di un famoso penitenziario; una proposta alternativa è zulag, fusione di zoo e gulag.

    Alcuni vegetariani la carne cucinata, meat, la chiamano invece flesh, che è la parola che indica la carne viva, o anche processed animal carcasses, "cadaveri di animali lavorati." E c’è chi chiama "beni rubati," stolen goods, le uova, il latte, la lana e tutto ciò che è stato tolto agli animali vivi.

    L’espressione processed tree carcasses, "carcasse di alberi lavorate," viene usata da alcuni ecologisti per ricordare che i libri sono fatti di carta che a sua volta è frutto dell’abbattimento degli alberi. Assault with a deadly weapon, "assalto con un’arma mortale," è l’espressione con cui è stato definito il fumare le sigarette in un ambiente pubblico.

    Ogni volta che affronto questi temi ci tengo a chiarire che non metto in discussione la validità, o quantomeno la legittimità, delle argomentazioni degli ecologisti, degli animalisti, dei vegani, ecc. Ne parlo solo dal punto di vista linguistico, come fenomeno sempre più diffuso e di cui si deve tenere conto, indipendentemente dal giudizio che si può esprimere su certe posizioni estreme. E sperando che l’attenzione alle parole sia seguita dall’attenzione ai fatti.

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    L’inglese settoriale

    La parola italiana "gergo" ha tre significati diversi che corrispondono a tre diverse parole in inglese. Jargon è il gergo come linguaggio specialistico: i medici usano tra loro il medical jargon, avvocati e giudici usano il legal jargon e così via non solo per le professioni ma un po’ per tutte le attività, comprese quelle del tempo libero.

    Slang è il gergo nel senso di "linguaggio colloquiale e familiare;" qualche sera fa abbiamo parlato di guy come parola che può sostituire man o boy in certi contesti — si parlava di Guys and Dolls, "bulli e pupe." In italiano sappiamo quando possiamo permetterci di usare parole di slang più o meno dialettali, o con richiami più o meno espliciti a argomenti che possono essere tabù in certe circostanze: sappiamo quando possiamo dire "Gli hanno fregato il motorino" e quando invece dobbiamo dire "Gli hanno rubato il ciclomotore." Dicevo, e ripeto, che usare voci di slang in inglese è molto rischioso a meno che non si sia ben inseriti in una cerchia di amici; in tutti gli altri casi è meglio evitare.

    Infine esiste il cant che è il gergo della malavita e che per definizione è segreto: se voi sapete — in italiano, in inglese o in qualsiasi altra lingua — qual è la parola segreta che indica la cocaina, o fate parte del "giro" della droga oppure vi è stata detta una parola che i criminali non adoperano più.

    Lo studio dei jargons, ossia dell’inglese specialistico, è molto interessante e adesso abbiamo delle analisi non solo del fenomeno nel suo complesso ma anche di settori specifici. Nel 1997 mi sono occupato in particolare dell’inglese dei mass media e dell’informatica — e anche in queste conversazioni ho fatto cenno a temi variamente collegati a questa materia, dal computer alla comunicazione tra aerei e torri di controllo.

    A chi mi ha chiesto dove trovare un’esposizione sistematica mi permetto di segnalare un libro uscito da poco, The English of Communication and Information Sciences, pubblicato a Milano dalle Edizioni Sugarco. Non richiede una conoscenza avanzata dell’inglese — tutti i termini tecnici sono spiegati e chiariti nel testo — e contiene anche letture di vario tipo (il sottotitolo è Analysis and examples, analisi ed esempi). Ho riportato nel libro brani di una certa estensione perché i linguaggi specialistici non sono solo una questione di vocaboli o di fraseologia, ma anche di organizzazione del discorso. Capire bene il senso globale e la logica del testo è la premessa indispensabile per capire il senso delle singole parole.

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    Verso l’infinito

    Una delle difficoltà che si incontrano a un certo punto dello studio dell’inglese riguarda la forma da usare per i verbi che seguono altri verbi. In italiano di solito c’è l’infinito; in inglese qualche volta troviamo la forma dell’infinito col to: "voglio partire subito" I want to leave at once, "cominciò a piovere" it began to rain; a volte c’è la forma semplice, senza il to: "fammi vedere le tue foto" let me see your photos; altre volte ancora c’è la forma in -ing "smettila di parlare" stop talking.

    In qualche caso ci sono delle regole precise che aiutano: se il verbo regge una preposizione, la preposizione a sua volta regge una forma in -ing: "sta pensando di cambiare l’auto" he is thinking of changing his car; "ha insistito per andare in treno" she insisted on going by train — to think of e to insist on vogliono dopo di sé la -ing form del verbo che segue.

    Con i verbi come "vedere" e "sentire" — verbi di percezione — si usa la forma semplice senza to se l’azione è percepita completamente, dall’inizio alla fine: "ho visto cadere il bambino" i saw the child fall; si usa la forma in -ing se l’azione è percepita in un certo momento del suo svolgersi: "vedevamo cadere le foglie" we could see the leaves falling (il cadere delle foglie di un albero può durare giorni e non è un’azione che si vede dall’inizio alla fine); se poi il verbo di percezione è alla forma passiva, è seguito da un infinito col to: "Alex è stato visto uscire" Alex was seen to go out.

    In qualche caso ci sono variazioni nel senso del verbo; abbiamo detto sopra stop talking, "smettila di parlare;" ma in he stopped to talk to the stranger , to stop non significa "smettere di" ma "fermarsi per:" "si fermò per parlare con lo sconosciuto."

    Dobbiamo evitare di confondere queste forme we must avoid confusing these forms; nell’esempio, ho usato confusing perché il verbo avoid è uno di quelli che reggono la forma in -ing per motivi propri, lessicali, e non sulla base di regole di grammatica. Questi verbi, purtroppo, vanno imparati uno per uno.

    La -ing form si trova spesso usata dopo verbi che esprimono il continuare o il cessare di una azione: "continuò a leggere" she went on reading; "ha smesso di fumare" he quit smoking o he gave up smoking o he cut off smoking — è diverso da he stopped smoking, che è detto di chi momentaneamente spegne la sigaretta per poi riprendere a fumare alla prima occasione. Nel caso di go on, give up e cut off la forma in -ing dipende anche dal fatto che si tratta di verbi frasali; nel caso di continue, keep, quit e stop è data dall’idea di proseguimento o cessazione.

    Un verbo che cambia significato a seconda della forma da cui è seguito è remember; cominciamo con un esempio, confrontando due frasi: "si è ricordato di imbucare la lettera" he remembered to post the letter; "si ricordava di aver imbucato la lettera" he remembered posting the letter. Per dire che ci si ricorda di fare qualcosa si usa remember seguito da infinito col to: "per favore ricordatevi di spegnere la luce" please remember to switch off the light; ma il ricordare di aver fatto qualcosa in precedenza è indicato dal fatto che il verbo che segue è alla forma in -ing: "ricordi di aver spento le luci?" do you remember switching off the lights?; "ricordo di averlo conosciuto a Venezia" I remember meeting him in Venice.

    Sul verbo remember, già che ci siamo, diciamo qualcos’altro. Anzitutto che in italiano posso dire indifferentemente "mi ricordo di te" e "ti ricordo;" in inglese è sempre e solo I remember you. L’italiano "ricordare" può anche significare "rammentare" come in "ricordami di comperare del formaggio" e in questo caso in inglese abbiamo un altro verbo, remind: remind me to buy some cheese “ricordami di comperare del formaggio”. Un reminder è un promemoria, e in particolare una lettera commerciale in cui si sollecita il pagamento di un debito; in questo caso il first reminder è un semplice promemoria, in tono cortese; il second reminder è in toni più decisi e cita il fatto che il primo sollecito non ha avuto esito; il third reminder di solito ha un carattere ultimativo e minaccia un’azione legale legal steps se la fattura non viene saldata in tempi rapidi.

    Ora devo smettere di parlare I must give up talking now...

    …Questa volta affronto il tema dell’infinito dei verbi italiani e delle forme inglesi corrispondenti per parlare delle forme che seguono le preposizioni — per chi non lo ricordasse, e al termine di una giornata faticosa si può benissimo non averlo presente, le preposizioni sono le parole come "di, a, da, per, con, su" e le altre che hanno la stessa funzione nella frase.

    L’infinito italiano preceduto da "di, a, da, per" spesso corrisponde all’infinito inglese preceduto da to:

    "Spero di andare" I hope to go; "vieni a trovarmi" come to see me; "ho molto da fare" I have a lot to do; "studiamo per imparare" we study to learn. Quando ci sono altre preposizioni, rette da nomi o da verbi o richieste dal senso della frase, si usa la forma in -ing:

    "Prima di partire chiudi tutto" close everything before leaving.

    "Dopo aver bevuto la birra si sentì meglio" after drinking the beer, he felt better.

    "Ascoltò la radio invece di guardare la TV" he listened to the radio instead of watching tv.

    "Se ne andò senza parlare" he went away without speaking.

    "Avevo paura di offenderla" I was afraid of hurting her.

    Riascoltiamo le ING FORMS che abbiamo usato: before leaving "prima di partire;" after drinking "dopo aver bevuto;" instead of watching "invece di guardare;" without speaking "senza parlare;" afraid of hurting "timoroso di offendere."

    Con i verbi di moto, a volte si preferisce sostituire l’infinito del verbo che segue con una forma coordinata: "vai a dirglielo" go and tell him — letteralmente, "vai e diglielo." Il "vieni a trovarmi" che prima avevamo reso con come to see me può essere anche come and see me.

    So che la grammatica è un argomento faticoso da seguire e quindi non proseguo oltre, almeno per stasera. D’altra parte, come abbiamo visto più volte, una certa conoscenza delle regole è importante; non è solo questione di correttezza o addirittura di eleganza: molte distinzioni sono indispensabili per evitare di fraintendere quello che sentiamo o leggiamo, e di dire una cosa per l’altra.

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    Che vuol dire NATO?

    La conversazione di stasera prende spunto dalla tragedia di Cavalese e da un paio di parole inglesi che abbiamo sentito ripetere in quella occasione.

    La prima è la parola NATO, di cui sappiamo che indica l’Alleanza atlantica o Patto Atlantico. E’ una di quelle parole che nascono come sigle, pronunciate poi come se si trattasse di parole come le altre — una categoria di parole a cui appartengono anche radar e laser, scritte normalmente con le minuscole, accanto ad altre scritte con le maiuscole e quindi ben riconoscibili come sigle — la RAF, la CIA, ecc. Tecnicamente distinguiamo questi acronimi, ossia nomi costruiti con le iniziali, dalle abbreviazioni pronunciate lettera per lettera, come BBC o CNN.

    La pronuncia inglese di NATO è [neitou] e la sigla sta per North Atlantic Treaty Organization, "Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord" — se l’avessimo tradotta, come hanno fatto i francesi, la NATO la chiameremmo OTAN, che è l’esatto contrario. In inglese abbiamo la costruzione a sinistra o premodificazione, in italiano la costruzione a destra o postmodificazione,

    Già che parliamo di sigle, preciso che due di quelle che ho citato prima sono acronimi in italiano ma abbreviazioni in inglese: la RAF, la Royal Air Force ossia l’aviazione britannica, in inglese è detta [ar ei ef]; la CIA, la Central Intelligence Agency americana, è detta in inglese [si: ai ei]. In entrambi i casi si fa lo spelling, ossia si dice la parola lettera per lettera.

    L’altra parola è il nomignolo dato al tipo di aereo che ha causato l’incidente: è il Prowler [praula]; deriva dal verbo prowl, predare, con il suffisso -er che indica chi compie l’azione: quindi è il "predatore." Nell’uso quotidiano si parla di prowlers con riferimento agli "sciacalli," nel senso di persone che rubano dalle case rimaste incustodite per qualche motivo. THE PROWLER è anche il titolo di un film del 1951 di Joseph Losey, sulla corruzione nella polizia. prowler o prowl car è uno dei nomi in gergo dell’auto della polizia — che anche da noi ha preso il nome da un predatore, la pantera. E’ curioso che invece altri corpi di polizia abbiano scelto per le loro auto nomi non di predatori ma di prede, come gazzelle e zebre.

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    L’inglese nei cieli

    Ieri sera ho parlato del Prowler "il predatore," un tipo di aereo militare. L’uso di chiamare in modi particolari alcuni modelli di auto, treno o aereo è molto diffuso e questa sera parliamo di alcuni altri nomignoli di aerei, non solo militari.

    Il Grumman A-6 è detto Intruder, letteralmente "intrusore" e come il Prowler fa riferimento alla capacità di penetrazione in territorio nemico. Altri nomi sono invece di tono molto più familiare, come l’F-14 detto Tomcat, ossia il gattone, il gatto maschio. Alcuni modelli sono noti con il nome di uccelli, soprattutto rapaci: l’F-15 è detto Eagle, l’aquila, e l’F-16 viene chiamato Fighting Falcon, il falcone da combattimento.

    L’idea di "battaglia" la troviamo anche in Starfighter, letteralmente, "combattente tra le stelle" — il nome del Lockheed F-104. Altri aerei, come il militare Galaxy e i civili Constellation e Comet hanno nomi che richiamano le stelle. E ancora prima degli aerei invisibili al radar della serie Stealth c’erano apparecchi difficilmente localizzabili, a cui era stato dato il nome di Phantom, "fantasma."

    Anche nell’aviazione civile a volte ci si serve di soprannomi: il BOEING 747 è detto jumbo jet. Jumbo era il nome di un enorme elefante esibito dal circo americano Barnum nel 1883 e da allora la parola viene usata per indicare oggetti di dimensioni molto superiori a quelle abituali.

    I clipper sono stati i velieri dell’ultima generazione, le navi a vela più veloci e funzionali che la marineria abbia mai prodotto e che per qualche tempo hanno conteso ai piroscafi il ruolo di transatlantici. Alcuni tra i primi aerei di linea capaci di trasvolare gli oceani sono stati chiamati Stratoclipper, i clipper della stratosfera. Un richiamo alla navigazione si è avuto anche col francese Caravelle.

    Altri nomi di aerei hanno avuto o hanno nomi patriottici come il Britannia o di prestigio come il Viscount, "il visconte." Oggi si preferisce usare le sigle che descrivono i vari modelli, a meno che un nome particolare non corrisponda al marchio stesso, come nel caso dell’Airbus, l’autobus dell’aria — un nome rassicurante che suggerisce il volare come attività quotidiana.

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    Lettere da non dire

    In un mondo ideale, le lingue si imparano anzitutto ascoltandole e parlandole, e solo in seguito leggendole e scrivendole. Questo vale in particolare per una lingua come l’inglese in cui le corrispondenze tra grafia e pronuncia sono spesso incerte e problematiche. Nel mondo reale, capita a molti di dover cominciare a leggere in inglese per motivi di studio e di lavoro, e poi di cercare di costruirsi un inglese parlato per comunicare anche oralmente. In questo caso, molti errori di pronuncia nascono dalla presenza nella grafia di lettere mute, alle quali non corrisponde nessun suono. In questa trasmissione comincerò a parlarvi di alcuni dei casi più frequenti.

     la <b> è spesso muta quando è finale preceduta da <m>: bomb [bom] "bomba", comb "pettine", dumb "muto, lamb "agnello;"

    - e quando è seguita da <t>, soprattutto se è la penultima lettera: debt [det] "debito," doubt "dubbio," subtle "sottile," ecc.;

     la <p> è muta in posizione iniziale davanti a <s>: psychology, "psicologia," pseudonym. "pseudonimo" ecc.;

     la <g> spesso è muta in penultima posizione seguita da <n>: foreign, "straniero," sign, "segno," reign, "regno," design, ecc. e in posizione iniziale seguita da <n>: gnome, "gnomo," gnu, "gnu," e così via;

    - la <g> resta muta nella maggior parte dei derivati (foreigner [fòrina], "straniero," designer, "disegnatore" o "progettista") ma è pronunciata in altri, come signal "segnale;"

     la <k> è muta in posizione iniziale seguita da <n>: know, "conoscere, sapere," knee, "ginocchio," knife, "coltello" ecc.

     la <l> è spesso muta in posizione prefinale davanti a <k>: talk, "parlare," walk, "camminare," folk, "popolo" ([fouk] è la pronuncia inglese: noi diciamo [folk] soprattutto per un certo tipo di musica popolare). A questa regola ci sono eccezioni importanti, come milk, "latte");

    - LA <l> è sempre muta nei modali could, should e would;

    altre parole importanti con <l> muta sono half, "metà," calm, "calma," palm, "palma" e salmon, "salmone."

     <h> è muta in posizione iniziale, nei quattro vocaboli hour, "ora," honour, "onore," honest, "onesto" e heir, "erede," nei loro derivati e composti — ad esempio honourable, "onorevole;"

    H è anche muta dopo <r> iniziale: rhyme, "rima," rhythm, "ritmo," e altre parole di origine greca;

    - dopo <x>: exhaust, "esaurire" o "scaricare," exhibit, "esibire," exhort, "esortare" ecc.;

    - in altri vocaboli come ghost, "fantasma."

    In nomi propri come Anthony, Antonio, Thomas, Tommaso e Thames il Tamigi, il <th> si pronuncia [t]

     <n> è muta in posizione finale preceduta da <m>: autumn, "autunno," hymn, "inno”, column, "colonna," ecc.;

     <s> è muta in isle e island, "isola, aisle, "navata" o "corridoio nella cabina di un aereo," viscount, "visconte;"

     <t> preceduta da <s> è muta in parole come castle, "castello," fasten, "allacciare," listen, "ascoltare," Christmas, "Natale" e in mustn't, la forma negativa di MUST;

     <w> è muta in posizione iniziale prima di <r>: write, "scrivere," wrong, "sbagliato," ecc.;

    W è anche muta prima di <h> in who, "chi" (e derivati come whom e whose) e in whole, "intero;"

    - in alcune parole come answer, "risposta" o "rispondere," two, il numero due, sword, "spada."

    L’elenco non è assolutamente completo ma è già lungo e noioso, e quindi tralascio sia di parlare delle lettere mute in nomi di luoghi, come la W in Greenwich e Warwick, sia di illustrare altri casi. Dirò solo che delle 26 lettere dell’alfabeto inglese, almeno 17 sono soggette a questo fenomeno di essere presenti nella grafia senza corrispondere a nessun suono. Proprio per la presenza di problemi come questo dicevo ieri che partire dalla lingua scritta per imparare la lingua orale non è il percorso più valido.

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    Le Ceneri

    Anche se per noi ambrosiani il carnevale prosegue, approfitto della ricorrenza del Mercoledì delle Ceneri per parlare delle parole e delle tradizioni che sono tipiche di questo periodo nei paesi di lingua inglese.

    Anzitutto parliamo del carnevale, che in inglese si dice carnival — è una parola che deriva dalla nostra ma viene scritta senza la E finale e con la I invece della E nella seconda sillaba.

    Il martedì grasso, ultimo giorno di carnevale nel rito romano, si chiama Shrove Tuesday, da un verbo shrive che significava "far penitenza, confessarsi;" ma in molte zone degli Stati Uniti e in particolare a New Orleans si usa l’espressione francese Mardi Gras — è uno dei lasciti di quando la Louisiana era colonia francese, assieme a nomi di località come Baton Rouge. Il cibo tradizionale sono le pancakes, le frittelle, perché l’osservanza della quaresima imponeva di non usare le uova e il grasso. Piuttosto di gettare questo cibo, che non sarebbe durato fino a Pasqua, lo si usava in abbondanza nel clima di festa del carnevale facendo pancakes.

    Il Mercoledì delle Ceneri è detto Ash Wednesday — che è la traduzione letterale se si tiene conto del fatto che quando un nome viene messo prima di un altro, nella posizione tipica dell’aggettivo, rimane sempre nella forma del singolare. Per questo troviamo ash, davanti a Wednesday, e non il plurale ashes.

    La quaresima si chiama Lent, da un vecchio vocabolo germanico che si riferisce alla primavera. Come rivedremo tra qualche settimana, parlando della Pasqua, il cristianesimo ha adottato termini già esistenti, ricavati da tradizioni e riti precedenti, e ha attribuito loro un significato nuovo alla luce dell’insegnamento di Gesù e degli Apostoli.

    Questa parola Lent non c’entra col passato e participio irregolari del verbo lend, "prestare," ma è solo un caso di omografia — così come ash è anche il nome di un albero, il frassino.

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    Origine della lingua inglese

    Un’ascoltatrice mi ha chiesto: "Da dove viene la lingua inglese? L’italiano è la lingua toscana, e l’inglese?"

    Bisogna fare una premessa. Fino al secolo scorso l’Italia era costituita da molti stati diversi, alcuni dei quali in certe epoche sono stati più potenti economicamente e politicamente dello stato che aveva per capitale Roma. Venezia, Torino, Napoli, Firenze, Milano, Parma e altre sono state città capitali importanti.

    Ancora oggi solo un italiano su 20 circa è un romano, mentre un inglese su cinque vive o almeno lavora nella Greater London, la Grande Londra. Londra, come Parigi, è da molti secoli la capitale di una grande nazione unitaria, dove si concentrano il potere politico e quello economico. Le grandi e antiche università di Oxford e Cambridge sono poco lontane, e quindi era naturale che la lingua parlata dalle persone dell’Inghilterra sud-orientale diventasse la lingua nazionale — mentre da noi solo la grandezza di Dante, Petrarca e Boccaccio ha fatto emergere il volgare fiorentino sulle altre lingue locali.

    In realtà, la varietà di inglese che gode di maggiore prestigio è quella che viene usata da coloro che hanno perso il proprio accento locale perché hanno frequentato le Public Schools e le grandi università. Questa received pronunciation, "pronuncia acquisita," è alla base del BBC English e comunque di quello che oggi è considerato l’inglese britannico standard.

    A differenza di quanto avviene normalmente da noi, i giovani inglesi frequentano l’università in una città diversa da quella di residenza, anche se nella loro città c’è una buona università. E’ un’esperienza di autonomia che porta ad abituarsi all’idea di vivere e lavorare dove serve, e non dove si è nati. Dal punto di vista della lingua, è un incentivo ad abbandonare la pronuncia regionale o almeno eliminare gli aspetti più marcati e che possono risultare fastidiosi.

    I grandi esempi letterari su cui si è sviluppato l’inglese moderno sono stati le opere di Shakespeare e la versione ufficiale della Bibbia — la Authorised Version del 1611 — un libro che con la Riforma protestante entra in tutte le case e dà una impronta decisiva alla lingua e alla cultura. La conoscenza di questi testi è indispensabile per chi vuole capire gli sviluppi della lingua e della letteratura inglese nei secoli successivi.

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    Le stagioni e le parole

    Tutte le lingue sono il condensato delle esperienze culturali dei popoli che in esse si esprimono. L’ascoltatrice a cui ho dato una risposta ieri sera mi chiedeva anche di un possibile collegamento tra i cicli naturali delle stagioni e alcuni avvenimenti che ritornano con ricorrenze annuali, come il Derby di Epsom. In questo caso particolare credo che la collocazione delle grandi gare ippiche nella prima settimana di giugno sia da collegare semplicemente al fatto che Epsom è una località nota per le sue acque minerali — potremmo chiamarla la Montecatini dell’Inghilterra (e anche a Montecatini c’è un ippodromo) — e quel periodo è il migliore per la cura termale. La presenza di tante persone di un certo rango ha favorito il varo di iniziative collaterali di intrattenimento, tra cui le gare ippiche. Oltre al Derby, in quel periodo si corrono a Epsom anche le Oaks — letteralmente Le Querce, nome della residenza del Conte di Derby (eh sì, ancora lui!). Le Oaks sono una gara riservata alle femmine di tre anni.

    Tornando ai cicli della natura, abbiamo già detto che il nome inglese della Quaresima, Lent, viene da una parola germanica riferita alla primavera. Dallo stesso campo in inglese prende il nome la più grande festa cristiana, cioè Easter, la Pasqua, il cui nome inglese deriva da east, l’oriente. Il sole sorge esattamente a est il 21 marzo e la data della Pasqua coincide, salvo casi particolari, con la domenica successiva alla prima luna piena dopo il 21 marzo.

    Anziché cercare di sopprimere le festività preesistenti, i primi Cristiani le hanno in qualche modo adottate e adattate. Secondo il Venerabile Beda, un santo che visse in Inghilterra nell’ottavo secolo e di cui vi parlerò prossimamente, la parola Easter potrebbe essere derivata da Eostre, la dea anglosassone della primavera — e il cui nome a sua volta deriva da quello del punto cardinale. Del resto, anche la vicinanza del Natale al solstizio d’inverno ha fatto sospettare la possibilità di qualche forma di travaso dai riti antichi alle nuove festività. Quello che conta, naturalmente, è il nuovo valore e significato assunti dalle festività, che trascendono in misura incomparabile le semplici coincidenze stagionali.

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    Dischi e fiaschi

    Tra le tante parole che la lingua inglese ha importato dall’italiano, in particolare nel campo musicale, ce n’è una che adesso gli italiani tendono a non usare più: si tratta del "fiasco" nel senso di insuccesso, soprattutto nel mondo dello spettacolo. E’ una parola che si colloca tra le quindicimila più frequenti e quindi viene registrata anche nei dizionari per gli studenti stranieri.

    Da noi, nello stesso senso, adesso si usa molto la parola flop — un po’ perché è più breve, un po’ perché è onomatopeica (ossia ha un suono che richiama l’idea di qualcosa che casca), ma soprattutto semplicemente perché è inglese. E "fare fiasco" è diventato "fare flop" e siccome in inglese flop è anche verbo forse un domani avremo anche "floppare."

    L’aggettivo che ne deriva, floppy, vuol dire "cascante, floscio," come ad esempio certi cappelli femminili con l’ala morbida: a floppy hat. Da noi lo si usa per indicare il floppy disk, il disco flessibile usato dai personal computer. Per contrasto, il disco rigido si chiama hard disk.

    La parola disk, che ritroviamo in disk jockey e in compact disk, ha due grafie: quella americana — ma che si usa un po’ dappertutto quando si parla di computer — termina con la lettera k, mentre quella britannica termina per c.

    Qualcosa di simile avviene con la parola programme che in inglese britannico si scrive con -mme finale; in inglese americano o parlando di programmi per computer la parola termina con -m — ma la pronuncia è sempre la stessa.

    E già che abbiamo parlato di compact disk, diciamo qualcosa anche su compact, che quando è aggettivo — compatto — o è verbo — compattare — si pronuncia come l’ho detto finora, ossia con l’accento sulla seconda sillaba: [kam'pèkt]. Questa parola è usata anche come nome e in questo caso l’accento è sulla prima sillaba: ['kompakt]. La si usa per indicare il portacipria, un’automobile di piccole dimensioni e, come termine storico-politico, per un patto, un accordo o un’alleanza.

    Per garantirci contro fiaschi e flop ritorniamo a seguire...

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    Beda

    Qualche sera fa, a proposito dell’origine del nome inglese della Pasqua, cioè Easter, ho fatto cenno a Beda il Venerabile, The Venerable Bede, uno dei primi grandi storici medievali, la cui Historia ecclesiastica gentis Anglorum, ossia la storia ecclesiastica dei popoli dell’Anglia, è tuttora un testo fondamentale per la conoscenza dei primi secoli dell’Inghilterra cristiana. San Beda fu canonizzato nel 1899 — e quindi l’anno prossimo si festeggerà il centenario.

    Beda è stato uno dei primi storici ad adottare sistematicamente il metodo moderno di datazione dell’Era Volgare, ossia a partire dalla nascita di Cristo — o, per essere più esatti, a partire da quel 753 dalla fondazione di Roma che allora si riteneva che fosse l’anno di nascita di Gesù, mentre la data effettiva risale a sei o sette anni prima.

    Qui apro una parentesi per osservare che quindi nel terzo millennio ci siamo già da qualche anno, solo che per l’errore commesso da Dionigi il Piccolo nel sesto secolo, e ripreso da Beda nell’ottavo, l’anno in cui viviamo si chiama nineteen ninety-eight, 1998, e non 2004 o 2005. Anche dopo aver scoperto l’errore storico la Chiesa ha scelto di adeguarsi al calendario civile ormai in uso e a calcolare su di esso anche le date dei Giubilei. Ma chi si aspetta cataclismi per l’anno 2000 sappia che il bimillenario della nascita di Cristo è già passato e non è finito il mondo — a parte che non riesco proprio a capire perché mai la venuta del Salvatore dovrebbe essere una data che porta sfortuna.

    Tornando a Beda e alla sua epoca, vale anche la pena di ricordare come già allora la religione cristiana fosse un elemento unificatore dell’Europa. La fama degli studiosi circolava in tempi sorprendentemente rapidi se si pensa alle comunicazioni di allora. Dionigi il Piccolo era stato chiamato a Roma dalla Scizia originaria (una zona che corrisponde alla Romania e Bulgaria di oggi) e i suoi studi erano noti in tutta la cristianità. Lo stesso Beda godette di risonanza internazionale — con buona pace di coloro che insistono a chiamare "secoli bui" il Medio Evo.

    In quanto alle comunicazioni dei nostri giorni, una lettera che mi è stata spedita da Lugano ci ha messo dieci giorni ad arrivare, alla media di sette kilometri al giorno. Nel Medioevo non succedeva, anche se non c’erano né il ponte di Melide né l’autostrada.

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    FESTIVAL

    Una delle parole inglesi entrate in italiano è festival — per vari motivi non ve ne ho parlato il mese scorso in occasione del Festival più popolare d’Italia, quello della canzone italiana di Sanremo, ma rimedio stasera. Da noi questa parola si è specializzata per indicare le manifestazioni musicali o artistiche, al punto che tutti i festival del cinema prendono il nome dal primo in assoluto, quello di Venezia iniziato nel 1932.

    La parola inglese festival ha però una storia molto più lunga, che risale al 1300; in origine è un aggettivo che significa "festivo" e che fa riferimento alle grandi festività dell’anno liturgico, e poi nella seconda metà del Cinquecento diventa un nome che indica la festività in generale. Molto spesso le solennità, soprattutto quelle dei santi patroni locali, sono state l’occasione per feste, sagre, manifestazioni e spettacoli. Le sacre rappresentazioni si svolgevano all’interno delle cattedrali maggiori in particolari tempi liturgici, in particolare il Corpus Domini, e poi sono state eseguite all’aperto o in altri ambienti adatti.

    Il medioevo inglese è ricco di Moralities, rappresentazioni allegoriche della vita cristiana, delle virtù e dei vizi, e di Miracle Plays che avevano per argomento la storia sacra e le vite dei Santi. Ogni corporazione di arti e mestieri aveva la propria tematica, spesso collegata più o meno direttamente con la professione; così la storia di Noè e del Diluvio Universale era affidata agli acquaioli e quella della Natività ai pastori. Col tempo il divertimento profano si è affiancato all’evento sacro fino, in molti casi, a prenderne il posto.

    Un tentativo moderno di ridare vita al teatro religioso in poesia è stato quello di T. S. Eliot col suo Murder in the Cathedral, l’Assassinio nella Cattedrale, che rievoca la storia di San Tommaso Beckett arcivescovo di Canterbury.

    Un’altra differenza con la parola festival come la si usa in lingua inglese è che noi tendiamo a chiamare festival solo quelle manifestazioni che comportano una gara, con premi più o meno prestigiosi assegnati da una giuria. In inglese questo non è necessariamente vero, e la parola si usa anche per rassegne non legate a concorsi.

    Ritorniamo adesso ai nostri giorni, alla musica (festivaliera e non)...

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    RALLY

    Proseguendo nell’esplorazione delle parole inglesi entrate in italiano, questa sera ci occupiamo del rally, che da noi è più o meno esclusivamente la gara di regolarità, automobilistica o motociclistica, su strada. Nell’inglese degli inglesi, to rally è anzitutto il "radunare" — in particolare il radunare le proprie forze e concentrare gli sforzi verso un qualche obiettivo. Da questo significato ne è derivato un altro, che è quello di radunare le persone per arringarle e suscitare il loro entusiasmo per una qualche buona causa.

    Quando nell’Ottocento sono nati i sindacati — le Trade Unions — e anche i partiti con l’avvento del suffragio universale hanno dovuto cambiare i loro metodi, la parola rally ha preso a significare quello che noi chiamiamo "comizio."

    Ancora una volta, quindi, il riferimento preciso e esclusivo al raduno sportivo e in particolare motoristico costituisce un caso di specializzazione dell’uso della parola — è quanto si è detto ieri sera a proposito del festival e diremo tra poco su un’altra parola riguardante il motociclismo. Prima però voglio precisare, ricordando una regola di cui ho già parlato, che la grafia corretta inglese presenta una y finale, che diventa -ies al plurale. La forma RALLYE la usano i francesi ma non è corretta.

    L’altra parola a cui accennavo è, detta all’italiana, il "trial," che in inglese si pronuncia [traial]. Noi l’adoperiamo per le gare di abilità e acrobazia in motocicletta, ma in inglese è semplicemente il nome che deriva dal verbo try [trai], che vuol dire "provare, tentare."

    Trial è quindi "il tentativo, la prova, la verifica" (trial balance in ragioneria è "il bilancio di verifica"); trial è anche "il processo" in senso giudiziario. In ambito sportivo, trial indica spesso le prove preliminari, le gare di selezione per decidere chi entrerà nella rappresentativa nazionale alle Olimpiadi o altre competizioni del genere. Qualche rara volta trial significa il "trial."

    Un’altra parola, simile a rally ma ancora più generica per indicare le riunioni, non solo sportive, è meeting, dal verbo meet che significa "incontrare" e "fare la conoscenza."

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    I dizionari

    Una parte abbastanza consistente delle lezioni del mio corso in Università è dedicata all’analisi dei dizionari della lingua inglese. Ce n’è una varietà notevole, disponibile anche nelle librerie italiane, che si affianca ai dizionari bilingui inglese-italiano e italiano-inglese che più o meno tutti conosciamo. La produzione di questi ultimi anni è sempre più attenta alle diverse esigenze di chi si serve dei dizionari; ci sono quelli più o meno tradizionali per chi deve leggere e capire i testi in inglese, ma anche quelli per chi deve scrivere e quindi deve compiere percorsi diversi — magari da una parola più generica a quella che esprime con più precisione quello che si vuole dire.

    I dizionari maggiori offrono indicazioni su tutto ciò che riguarda le parole trattate, dalle origini del vocabolo, alla sua pronuncia attuale, ai vari significati e usi. Ci sono dizionari che invece selezionano alcune informazioni e le approfondiscono; a questa categoria appartengono ad esempio i dizionari etimologici, utili per chi studia la storia della lingua, e i dizionari della pronuncia, utilissimi un po’ per tutti — compresi gli stessi parlanti nativi che, come abbiamo detto ormai tante volte, non possono mai fidarsi nemmeno loro di quello che sembrerebbe corretto dire sulla base della grafia.

    Ci sono poi i dizionari specialistici, come quelli commerciali e tecnici, a cui si aggiungono quasi quotidianamente glossari che raccolgono i termini specifici di qualche settore molto preciso e ristretto — molto spesso si tratta di raccolte di vocaboli pubblicate dalle maggiori imprese multinazionali, che hanno bisogno di garantire traduzioni precise e uniformi nelle lingue dei diversi paesi in cui operano.

    Un aspetto su cui insisto sia a lezione che agli esami è l’importanza di conoscere bene i propri dizionari — e in particolare quelli più ricchi e complessi. Le pagine introduttive, le appendici, gli inserti e così via insegnano a servirsi del dizionario nella maniera più efficiente, evitando i tanti malintesi possibili; inoltre spesso contengono informazioni, notizie e curiosità interessanti riguardanti la lingua inglese. Alcune delle cose che vi racconto in queste chiacchierate serali le ho spigolate proprio lì, assieme ai criteri di classificazione dei vocaboli e di organizzazione delle definizioni e degli esempi.

    Un po’ tutti siamo restii a dedicare tempo a studiarci le istruzioni per l’uso e i libretti di manutenzione delle cose che usiamo — dall’automobile alla radiosveglia. Posso assicurarvi che per quanto riguarda i dizionari non è tempo sprecato.

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    Le concordanze

    L’ultima generazione di studi linguistici è caratterizzata dall’uso massiccio del computer per la raccolta di grandi banche di testi scritti e parlati. Questo ha riflessi precisi anche nelle grammatiche e nei dizionari in circolazione, che si basano sulla lingua così come viene effettivamente usata e non come viene percepita da chi la studia.

    Nei vecchi dizionari, ad esempio, la parola sole veniva per prima cosa definita come il nome della sogliola, poi come la suola della scarpa o la pianta del piede, e infine come aggettivo che vuol dire "solo, unico, esclusivo." L’analisi dei dati raccolti nei grandi corpora computerizzati ha rivelato che l’aggettivo è molto più frequente del nome, che il nome che si riferisce a ciò che sta sotto il piede è molto più frequente del nome del pesce, che soprattutto in Inghilterra il pesce viene normalmente detto Dover sole, la sogliola di Dover che è la città delle bianche scogliere, white cliffs, di fronte a Calais.

    Si scopre anche che in inglese sole si riferisce non solo alle scarpe o ai piedi, ma anche alle calze; in italiano non si parla della suola delle calze o dei calzini per indicare la parte che sta sotto la pianta dei piedi, in inglese si dice the sole of the stockings, the sole of the socks — stockings sono le calze lunghe, femminili, o i calzettoni, socks sono i calzini. In questo senso, la parola ha dato origine anche al verbo sole, "suolare."

    La pronuncia di questa parola coincide con quella della parola soul, anima, e già Shakespeare, in una scena iniziale del Julius Caesar, il Giulio Cesare, costruisce delle battute giocando sull’ambiguità di [soul]. In campo musicale, soul music è un termine comparso nel 1961 per un genere basato sul Gospel singing dei negri d’America. Si basa su un uso di soul come aggettivo con riferimento ai neri d’America e alla loro cultura, un uso che si è diffuso una quarantina d’anni fa; oltre a soul music abbiamo espressioni come soul food per il cibo tipico dei soul brothers, ossia degli appartenenti alla cultura soul.

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    Pronto? Hallo?

    A un italiano che lavorava in Olanda i colleghi hanno dato il nomignolo di Dottor Pronto, per come rispondeva al telefono. Da loro, e in altri Paesi, si usa che chi risponde dice il proprio cognome. In Inghilterra le centraliniste rispondono con il nome della ditta e i privati dicendo il proprio numero di telefono, eventualmente preceduto dalla località — ad esempio, Guilford, four - seven, double nine, one - six.

    In questo modo, se chi ha chiamato si accorge di aver sbagliato numero dice sorry, wrong number "scusi, ho sbagliato numero" e la conversazione termina immediatamente, senza spreco di tempo e di denaro.

    Come avete sentito nell’esempio, i numeri vengono detti una cifra alla volta a gruppi di due; se le due cifre di un gruppo sono uguali si usa double, doppio. Il numero che ho dato nell’esempio, 47.99.16, diventa quattro-sette four seven doppio nove double nine uno-sei one - six. La cifra zero si pronuncia [ou] come la lettera o e in effetti quando si usavano sia le lettere che le cifre nei numeri telefonici, ad esempio a Londra, la lettera o veniva fatta coincidere con lo zero e serviva anche per chiamare il centralinista — o è l’iniziale di operator — ma sto parlando di quando bisognava chiamare la società dei telefoni per tutte le comunicazioni interurbane.

    Un uso simile dei numeri a coppie di due cifre è quello che riguarda le date. Qui però non si dicono cifra per cifra ma come due numeri di due cifre; il 1998 è il diciannove - novantotto nineteen ninety-eight. Vengono sottintese le parole hundred and, ossia nineteen ninety-eight sta per nineteen hundred and ninety-eight. Una mia vecchia grammatica diceva che hundred and si può sottintendere sempre, tranne quando la terza cifra è zero. Il 1900 era l’anno nineteen hundred e il 1905 nineteen hundred and five. Ma non so che cosa succederà tra nemmeno tre anni. L’anno duemila sarà il two thousand e poi? Dubito che si dirà twenty hundred and one; già two thousand and oNE è più breve — ma forse prevarrà twenty oh one o qualcosa di simile: staremo a vedere, o meglio a sentire.

    Avrete notato che hundred e thousand non prendono mai la esse del plurale quando fanno parte di numeri; i numerali sono aggettivi e gli aggettivi inglesi sono invariabili. Hanno il plurale solo come nomi: migliaia di ascoltatori e centinaia di canzoni sono thousands of listeners e hundreds of songs.

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    Per modo di dire...

    Uno dei libri con i quali affliggo i miei studenti contiene ventitré pagine zeppe di proverbi, detti e espressioni idiomatiche e la domanda che mi fanno è se bisogni proprio saperli tutti. A quel punto faccio una distinzione tra ciò che occorre preparare per l’esame e ciò che si deve conoscere per saper bene l’inglese. Ciò che i docenti esigono è necessariamente limitato e dipende da tante circostanze, ma quel che serve per capire bene quello che sentiamo o leggiamo è un repertorio molto vasto che comprende anche le frasi fatte, le citazioni famose, e così via.

    Ad esempio, ho visto da poco un’inserzione di un’associazione per i diritti politici delle donne; l’immagine è quella di un volto femminile a cui manca la bocca, e la frase a fianco dice che secondo gli uomini politici, women should be seen but not heard, "le donne si devono vedere ma non sentire" — una frase che evidentemente spiega la fotografia della donna senza la bocca.

    Ora, ogni parlante nativo di inglese conosce fin da piccolo un proverbio che nelle famiglie viene rivolto ai bambini perché se ne stiano buoni senza far chiasso, specialmente quando gli adulti conversano tra loro: children should be seen but not heard, "i bambini si devono vedere ma non sentire." Il fatto che l’inserzione abbia ripreso le identiche parole, sostituendo solo women, "le donne," al posto di children, "i bambini," ci dice una cosa in più che può sfuggire a chi non sa il proverbio, e cioè che secondo la denuncia le donne vengono trattate come si trattano i bambini.

    Certo, non tutti conoscono così bene l’inglese da poter affrontare anche questi problemi; c’è comunque il rischio, anche per chi è arrivato a un buon livello di padronanza dell’inglese, di credere di avere capito bene qualcosa quando invece ci sarebbe ben altro da cogliere. In qualche caso si tratta solo di forma ma non di sostanza, nel senso che non succede nulla di grave se non ci si accorge che un certo testo riecheggia qualche frase famosa o qualche citazione letteraria. In altri casi, come quello dell’esempio, le allusioni possono essere parte integrante del messaggio, fino a diventare a volte l’elemento più importante di ciò che si vuole comunicare.

    Per questo dispiace constatare che alle lingue straniere viene dedicata meno attenzione, ad esempio da parte del sistema scolastico, di quanta ne meritano — saperle poco e male in qualche caso è peggio che non saperle.

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    Oggetti diretti e indiretti

    Uno dei punti in cui la sintassi inglese si differenzia da quella italiana riguarda le frasi del tipo "Hanno dato la notizia a Silvia" oppure "Ho comperato un pullover per Anna," ossia frasi che hanno un complemento oggetto e un complemento di termine o di favore; il primo non è un nome di persona, il secondo sì. In inglese il verbo è seguito dai due complementi, prima quello che esprime la persona e poi l’oggetto. "Hanno dato la notizia a Silvia" è they told Sylvia the news e "Ho comperato un pullover per Anna" è I bought Anne a pullover.

    Il primo complemento, il cosiddetto "oggetto indiretto," può essere costituito da un pronome invece del nome di persona. Se invece di dire "Ho comperato un pullover per Anna" dico "Ho comperato un pullover per lei" o "Le ho comperato un pullover" in inglese ho I bought her a pullover. Non si può invece sostituire con un pronome l’oggetto e continuare a usare questa costruzione: "L’ho comperato per Anna" è I bought it for Anne, come in italiano, e non può essere *I bought Anne it.

    Una particolarità di questa costruzione è che la persona a favore della quale si compie l’azione diventa il soggetto della frase passiva: alla frase they told Sylvia the news corrisponde la forma passiva Sylvia was told the news "a Silvia è stata data la notizia" — analogamente, "a Anna è stato comperato un pullover" è in inglese Anne was bought a pullover. "Mi è stato fatto un regalo" I was given a present — letteralmente, "io fui dato un regalo."

    In tutti questi casi è possibile lasciare sottinteso da chi è stata compiuta l’azione; quando invece è importante specificarlo, lo si può mettere in fondo con la preposizione by: "Mi è stato fatto un regalo da Elena ma non da Giorgio" I was given a present by Helen but not by George.

    I verbi inglesi più importanti che ammettono questa costruzione, i cosiddetti verbi ditransitivi o transitivi doppi, sono tell, "dire," give, "dare," e buy, "comperare," che abbiamo usato negli esempi; inoltre abbiamo, tra gli altri, bring, "portare," lend, "prestare" e write, "scrivere." Concludo con un esempio per ciascuno di questi verbi: "per favore ci porti del pane" please bring us some bread "puoi prestare l’auto a Maria?" can you lend Mary your car? "Scrivetemi i vostri commenti" write me your comments.

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    L’annuncio a Maria

    Oggi è la festività dell’Annunciazione, che in Inglese, come abbiamo visto anche per altre occasioni, ha due nomi: quello ufficiale basato sul latino, che è Annunciation, e quello popolare che è Lady Day, il giorno di Nostra Signora.

    E’, secondo la tradizione, l’anniversario del giorno in cui a Nazareth l’Angelo salutò Maria con le parole diventate preghiera, e che in inglese sono Hail Mary, full of grace... Hail (come whole) proviene da un’antica voce nordica che vuol dire "sano, integro" — e quindi corrisponde al nostro aggettivo "salvo" e al saluto "Salve!" Ha la stessa radice di quell’heil tedesco che il Terzo Reich ha fatto conoscere al mondo imponendolo come forma di saluto obbligatoria.

    Oltre a Mary, che è la forma più usuale, ci sono in inglese altre forme del nome di Maria: Miriam, che più da vicino riflette l’originale ebraico; Marie, scritta e pronunciata alla francese; e Maria, scritta come in italiano e spagnolo, ma preferibilmente pronunciata col dittongo [ai]: [maràia], a meno che non sia chiaro che si sta parlando di un’italiana o di una spagnola.

    L’Annunciazione è l’annuncio dell’Incarnazione di Colui che sarebbe nato nove mesi dopo, il 25 dicembre. La differenza tra Annunciation e announcement è più o meno la stessa che in italiano abbiamo tra "Annunciazione" e "annuncio." Dare un annuncio è to make an announcement — notate l’uso del verbo make per tradurre il nostro "dare."

    Tornando all’altra denominazione della festività, Lady Day, ricordiamo che Our Lady, Nostra Signora, è uno dei modi con cui viene chiamata The Virgin Mary, Maria Vergine, the Mother of Jesus, la madre di Gesù. Lady di per sé si riferisce a ogni signora — all’inizio di ogni conversazione, dopo la buonasera mi rivolgo alle ladies e poi ai gentlemen — prima le signore: ladies first! Lady davanti al cognome lo si usa per le appartenenti alla nobiltà — Lady Bracknell e davanti al nome nel caso di appartenenti a case regnanti: dalla leggendaria Lady Godiva di Coventry a Lady Diana Spencer.

    Spero che sia inutile rilevare la distanza incommensurabile tra queste ladies e Colei che l’Angelo chiamò "benedetta tra tutte le donne" — in una recente versione del Vangelo di Luca dice the Lord is with you and has greatly blessed you "Il Signore è con te e ti ha grandemente benedetto."

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    Draghi e dragoni

    La leggenda di San Giorgio, patrono dell’Inghilterra, narra della sua vittoriosa battaglia contro il drago. Questo mostro mitologico ora vive soprattutto nel folklore cinese e di altri paesi orientali, e da noi se ne trovano tracce nel nome di qualche ristorante, di qualche prodotto orientale e di alcune iniziative ispirate alla Cina. Sempre più spesso, però, anziché "drago" si legge e si sente dire "dragone" e anche qui sospetto che c’entri una traduzione approssimativa e "a orecchio" dell’inglese dragon.

    Finiremo per dire "San Giorgio e il dragone" invece di "San Giorgio e il drago," anche se i dragoni erano gli archibugieri a cavallo e poi più in generale i soldati dei reggimenti di cavalleria.

    Un errore analogo è stato commesso più volte con la parola silicon che è il silicio e non il silicone — quest’ultimo si scrive con la E finale, e quindi la parola silicone ha una grafia identica all’italiano. La Silicon Valley, così detta perché vi si concentrano molte delle maggiori industrie californiane produttrici di computer, di componenti elettronici e di software, è la "valle del silicio" e non del silicone, che non c’entra.

    La differenza di pronuncia è minima e riguarda l’ultima sillaba; siccome non è accentata, questo attenua ulteriormente la differenza tra silicon [-kan] e silicone [-koun]. Non è raro che proprio nel linguaggio tecnico-scientifico ci siano difficoltà di comprensione a causa della somiglianza di parole che a volte hanno significati opposti. E’ il caso di parole come microcosm e macrocosm, microcosmo e macrocosmo, ove la differenza tra micro [maikrou] e macro [mèkrou] è lieve. Analoga è la differenza tra i prefissi ipo- e iper-, hypo [haipou] e hyper [haipa] — detti da soli si differenziano abbastanza ma in parole complesse come hypothyroidism e hyperthyroidism è facile non cogliere la differenza.

    Thyroid è una di quelle parole che si capiscono benissimo leggendole, assomiglia molto a "tiroide," ma che ascoltando [thairoid] può essere difficile riconoscere. Molti vocaboli medici sono di questo tipo: ad esempio, l’artrite è ARTHRITIS [a:thraitis].

    Anche questa sera abbiamo fatto una passeggiata di 17 o 18 secoli, da San Giorgio alla Silicon Valley, e un rapida incursione nella questione della pronuncia dei termini scientifici — un tema che ritornerà a più riprese in queste chiacchierate sulla lingua inglese.

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    Millennio

    Qualche sera fa abbiamo parlato dell’anno Duemila two thousand e dicevo che vi erano incertezze su come sarebbero stati chiamati gli anni successivi. Riparlandone con amici inglesi, mi è stato fatto notare che per il 2001 c’è già il precedente del film "Odissea nello Spazio" Two Thousand And One A Space Odyssey. E tuttavia nemmeno questo esclude che si finisca per dire twenty oh one o chissà che altro.

    In effetti anche per il 1905 (e anni simili) solo nel linguaggio più formale si dice nineteen hundred and five; le forme più colloquiali sono nineteen oh five diciannove zero cinque e addirittura nineteen five diciannove cinque; sarà difficile però che per il 2005 si dica twenty five perché questo è il numero venticinque.

    Da qualche tempo si usa il plurale delle decine per indicare il decennio: the twenties sono gli anni venti (e si sottintende del ventesimo secolo) e quelli in cui viviamo sono the nineties, gli anni novanta. E’ più raro che si usi per altri secoli; gli anni quaranta del secolo scorso sono the eighteen forties. Anche qui l’uso è incerto per i primi due decenni di ogni secolo.

    L’espressione si usa anche per le persone: I am in my fifties vuol dire che la mia età è compresa tra 50 e 59 anni, ossia sono nei miei anni 50. Per gli adolescenti in età compresa tra tredici e diciannove anni — quelli che vengono chiamati teenagers perché quei numeri finiscono in -teen — si dice he is in his teens e al femminile she is in her teens.

    Già che parliamo di numeri vi segnalo un errore che non è raro incontrare a proposito dei numerali ordinali (per intenderci: "primo, secondo..." eccetera). L’abbreviazione italiana è una piccola o in apice per il maschile, che diventa a per il femminile — evidentemente le abbreviazioni "°. ª" non hanno senso in inglese, dove di solito la desinenza è -th. Ma l’altro errore è proprio quello di usare queste due lettere dopo il numero anche quando parliamo di first, second e third — con questi primi tre ordinali, e nei loro composti, ad esempio twenty-second, "ventiduesimo," l’abbreviazione è costituita dal numero seguito rispettivamente da -st per first, -nd per second e -rd per third. Abitualmente queste abbreviazioni sono usate per le date, che in inglese vogliono sempre l’ordinale, dal primo del mese fino al trentunesimo — trentunesimo, thirty-first si abbrevia in 31st.

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    1° aprile

    Oggi è April Fools' Day, letteralmente "il giorno dei folli di aprile," e se non siete ancora stati vittime di scherzi watch out, "state in guardia" perché c’è ancora tempo per qualche ‘pesce.’

    La tradizione degli scherzi è plurisecolare ma l’origine è sconosciuta — nella antica Roma c’erano gli Hilaria il 25 marzo e in India c’era la festività di Holi che finiva il 31 Marzo. In ogni caso si sospetta che possa esserci un collegamento con l’equinozio di primavera, il 21 marzo. C’è anche chi ha suggerito che possa riferirsi agli scherzi della natura in una stagione dal tempo estremamente variabile — da noi si usava dire "Aprile, tutti i giorni un barile" e a Milano, in particolare, questo coincideva con la grande Fiera Campionaria che durava dal 12 al 25 aprile e che ormai è stata sostituita da quella che, una mostra dietro l’altra, dura da settembre a giugno.

    Tornando al primo aprile, da noi, come in Francia, si parla di "pesce" (forse perché la vittima abbocca allo scherzo — ma può anche essere vero il contrario, ossia che parliamo di abboccare perché una tradizione di origine misteriosa ci ha tramandato l’idea del ‘pesce’). In Scozia il mese d’Aprile vede l’arrivo del cucù, che a sua volta è l’emblema dei sempliciotti, e così il pesce di Aprile è il cucù di aprile e la vittima viene detta GOWK [gauk] che è il nome scozzese del cuckoo.

    La parola fool ha la stessa origine latina della parola italiana "folle;" si usa anche come aggettivo, ma in questo caso è più usuale il derivato foolish. E si usa come verbo, to fool, per "ingannare" o "prendersi gioco di" qualcuno. Nei palazzi reali the fool era il buffone, il servitore il cui compito era di divertire. Di qui l’espressione to act (o to play) the fool, "fare il buffone" per far divertire gli altri. Invece to make a fool of oneself è "fare la figura dello sciocco." Un’altra parola per indicare il giullare è the joker, che noi conosciamo per via del jolly joker, dell’ "allegro giullare," nei mazzi di carte — in italiano è la ‘matta.’ Curiosamente, delle due parole abbiamo preso non il nome ma l’aggettivo, jolly, "allegro." E mentre da noi chiamiamo "jolly" ad esempio un giocatore che può ricoprire diversi ruoli, per un inglese joker è la persona imprevedibile, che non si riesce a inquadrare bene — così come la matta non appartiene a nessuno dei quattro semi del mazzo di carte ma fa a sé.

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    Un "ausiliare vuoto"

    Una delle prime grosse difficoltà per chi impara l’inglese è data dalla presenza di un ausiliare che non ha un significato proprio, ma serve solo a tenere in piedi la sintassi di una frase interrogativa o negativa. Stiamo parlando naturalmente di do e delle forme does alla terza persona singolare e did al passato, con le rispettive forme negative don’t, doesn’t e didn’t.

    Ci sono molte cose da dire e probabilmente non farò in tempo a dirle tutte stasera — anche perché va bene far grammatica, ma non è il caso di guastarsi la sera che precede il week-end.

    Anzitutto la prima cosa da dire è che è bene tenere ben distinte queste forme ausiliari dal verbo to do, che è uno dei modi di tradurre il nostro verbo "fare" in inglese (ne abbiamo già parlato un paio di mesi fa, ma forse ci ritorneremo sopra). E’ vero che l’ausiliare do e il verbo to do hanno la stessa origine, ma è anche vero che oggi l’ausiliare do non ha niente a che vedere, nell’uso e nel significato, con il "fare." E’ molto meglio — nel senso che crea meno confusione — pensare a do solo come ausiliare che riempie un buco in certi tipi di frasi, come una specie di segnaposto che non ha un significato proprio.

    Anche in italiano gli ausiliari perdono il senso che hanno come verbi principali. Se è vero, come è vero, che le frasi "ho visto un bel film" e "mi sono visto un bel film" significano più o meno la stessa cosa, è anche vero che l’ausiliare "avere" di "ho visto" ha lo stesso valore di "essere" in "mi sono visto" — pensate anche a frasi come "mi sono guardato allo specchio" e "ho guardato me stesso allo specchio:" di nuovo, essere e avere non dipendono dall’idea di "esistere" o di "possedere" ma solo dalle regole di sintassi che riguardano i verbi transitivi ("ho guardato") e riflessivi ("mi sono guardato").

    Fare caso attentamente a ciò che succede nella nostra lingua è un modo per trovare meno strano quello che avviene nelle altre.

    Un’altra premessa riguarda le frasi interrogative. Nella nostra lingua solo l’intonazione permette di distinguere una frase affermativa come "Federico arriva stasera" da una interrogativa come "Federico arriva stasera?" In inglese la forma interrogativa di norma è diversa non solo nell’intonazione ma anche nell’uso degli ausiliari.

    Se una frase inglese affermativa contiene un verbo ausiliare, la forma interrogativa si ottiene scambiando di posto il soggetto e il verbo ausiliare. Diamo qualche esempio: "Alex è uno studente." Alex is a student; "Alex è uno studente?" Is Alex a student? "Cristina è partita." Christina has left; "Cristina è partita?" Has Christina left? "Piove." It’s raining; "Piove?" Is it raining?

    Un verbo modale da questo punto di vista funziona da ausiliare: "Sanno nuotare" they can swim; "Sanno nuotare?" Can they swim?

    Se la frase affermativa non contiene un verbo ausiliare o modale, vuol dire che siamo al presente o al passato semplice e si deve ricorrere alla forma appropriata dell’ausiliare do, does o did. "Ti piace questa musica." you like this music; "Ti piace questa musica?" do you like this music? "Alex gioca a calcio" alex plays football; "Alex gioca a calcio?" does alex play football? E siccome è lunedì posso chiedervi: did you have a nice weekend? "Avete passato un buon fine settimana?" Notate che in questo caso il verbo have non è ausiliare: significa "trascorrere, fare" e in quanto verbo principale richiede a sua volta un ausiliare. Allo stesso modo, do è anche ausiliare del verbo principale do, che come dicevo l’altra sera, non va confuso con le forme dell’ausiliare. "Che cosa fa Anna?" What does Ann do? (e si intende: abitualmente, di mestiere).

    L’espressione How d’you do? non è più una domanda ma la formula che corrisponde a "piacere" quando si è presentati formalmente a qualcuno.

    Il discorso sulle forme negative è analogo. Se c’è un ausiliare o un modale, si aggiunge la negazione not: Alex is a student diventa Alex isn’t a student; in italiano mettiamo il "non" prima dell’ausiliare, in inglese not va dopo: isn’t, cioè is not corrisponderebbe a *"è non." Un altro esempio: "devono partire ora" they must leave now fa al negativo they must not leave now, dove must not corrisponderebbe a *"devono non."

    Se l’ausiliare manca, lo si sostituisce con don’t, doesn’t e didn’t. "Non guardano la TV" they don’t watch TV. "Alex non gioca a pallacanestro" Alex doesn’t play basketball. Altri esempi ve li darò giovedì sera, quando parleremo di altri usi dell’ausiliare do does did.

    L’ausiliare do does did oltre che per le forme interrogative e negative serve anche per non ripetere verbi già detti. Una frase come "A me piacciono i Corrs ma ai miei fratelli no" in inglese è I like the corrs but my brothers don’t — dove don’t sostituisce (e consente di non ripetere) il verbo like col suo complemento oggetto the Corrs.

    Un altro esempio lo troviamo in questo dialogo. "Ho visto Elton John a Londra sabato scorso. - Davvero?" I saw Elton John in London last Saturday.’ Did you really?’ Qui did è al passato, come il verbo che sostituisce, saw, passato di see. Proprio perché ha anche questa funzione di sostituzione — nell’ultimo esempio, ci permette di lasciare sottinteso see Elton John — una forma come questa viene detta anche pro-verbo: come i pronomi possono sostituire i nomi, i pro-verbi possono stare al posto dei verbi.

    "E’ vero? Non è vero?" servono per trasformare delle affermazioni in domande. Posso dire "la Domenica delle Palme è domenica ventura" Palm Sunday is next Sunday, ma poi aggiungere un "non è vero?" per chiedere conferma o esprimere un dubbio. In italiano "vero? non è vero?" vanno bene sempre, in inglese dipende dal verbo ausiliare che c’è nella frase. Nell’esempio abbiamo IS e quindi la domanda aggiunta è isn’t it — notate che se la frase è affermativa la domanda è negativa, e viceversa. Ancora una volta, se l’ausiliare non c’è, usiamo, don’t, doesn’t o didn’t a seconda dei casi. "Vi piace ascoltare Circuito Marconi, vero?" You like listening to Circuito Marconi, don’t you? "Gli ospiti sono arrivati tardi, non è vero?" The guests arrived late, didn’t they? Nel primo caso, a you like, al presente semplice, fa eco don’t you; nel secondo, the guests arrived, al passato, viene ripreso con didn’t they? Nelle domande i nomi sono sostituiti dai pronomi e quindi the guests, gli ospiti, è diventato they, essi.

    Do not (con la forma contratta don’t nel parlato colloquiale) si usa anche per l’imperativo negativo, quello che in italiano ha il verbo all’infinito preceduto da non: "non calpestare l’erba" don’t walk on the grass; "non suonare quella canzone" don’t play that song.

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    Voce di popolo

    Una delle tante parole inglesi che vengono spesso intese male e tradotte peggio è l’aggettivo popular, che solo in qualche caso, e in modo solo parziale, corrisponde al nostro "popolare." Per esempio, prezzi popolari sono popular prices. In Inghilterra ci sono anche i popular papers, i giornali popolari, che si contrappongono alla quality press, la stampa di qualità e prestigiosa.

    Detto di una persona, popular vuol dire che gode di molta popolarità: Sheila is a very popular student vuol dire che Sheila è una studentessa molto nota e benvoluta nella sua scuola, una di quelle che tanti desidererebbero avere per compagna di classe e amica. Da popular deriva pop, riferito all’arte e alla musica — un certo tipo di musica a grande diffusione, quella che da noi si chiamava "musica leggera." La musica della tradizione popolare è la folk music — dove folk è la parola germanica per dire “popolo”, mentre people è di origine neolatina. Folk-lore è il retaggio delle tradizioni popolari, quello per cui anche in italiano usiamo la parola "folklore."

    In ambito politico, oltre che a popular (il Fronte Popolare è The Popular Front) "popolare" corrisponde spesso alla forma possessiva di people: la sovranità popolare the sovereignty of the people; qualche volta troviamo il cosiddetto ‘genitivo sassone’: la Repubblica Popolare Cinese è The People’s Republic of China.

    Le case popolari si chiamano council houses, con riferimento al City Council, ossia al consiglio comunale che le ha fatte costruire e le gestisce. E il giudice popolare è il juryman, l’uomo che fa parte della giuria.

    Per concludere, anche stasera abbiamo notato due cose: che non esistono corrispondenze dirette tra le parole di due lingue anche se si assomigliano — nel caso specifico, spesso e volentieri popular non corrisponde a "popolare;" e che per tradurre correttamente bisogna conoscere la realtà straniera — ad esempio tenendo presente che c’è una giuria popolare nei processi inglesi e americani.

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    Ulivi mediterranei e frasche inglesi

    Partecipando alle celebrazioni della Domenica delle Palme, mi è tornato in mente che l’anno scorso mi trovavo in Inghilterra per lavoro e quindi sono andato in una chiesa parrocchiale di Coventry per la messa della Palm Sunday. La messa è stata preceduta da una breve processione dal salone dell’oratorio alla chiesa, e la cosa che per un momento mi ha lasciato perplesso e deluso è stata il trovarmi in mano una foglia lunga e stretta che molto vagamente assomigliava a certe foglie di palma, ma che da noi è un’erba che si trova un po’ dappertutto in campagna, specialmente in riva ai fossi. E anche se quella frasca era stata benedetta dal sacerdote, avevo la sensazione di avere in mano qualcosa di troppo povero, di inadeguato alla solennità.

    Però la testimonianza di fede degli altri presenti, con il loro modo devoto e festoso di partecipare all’evento, mi ha aiutato a focalizzarmi sull’idea che la chiesa universale si adatta alle situazioni ambientali e che l’ulivo — che da una vita per un mediterraneo come me era legato indissolubilmente alla domenica prima di Pasqua — non era e non è sostanziale per penetrare nel mistero della Passione, Morte e Risurrezione.

    Parlerò ancora della Holy Week, della Settimana Santa e dei termini inglesi che ne descrivono i momenti principali. Adesso, con un salto brusco nella grammatica inglese, riprendo il discorso sul verbo do e sull’ausiliare negativo don’t per segnalare il titolo di un opuscolo che ho avuto per le mani tempo fa: Typing Dos and Don’ts; lì do e don’t erano usati come sostantivi: le cose da fare e da non fare in dattilografia. Si trattava infatti di un manualetto di consigli spiccioli, "fai questo, fai così, non fare quello" do this, do like this, don’t do that. Quest’uso di do e don’t come nomi discende quindi direttamente dall’imperativo.

    Do si usa anche per indicare una festa, una cena sociale o forme simili di intrattenimento. "I suoi amici daranno una festa lunedì" her friends are having a do on Monday. Il plurale di do si pronuncia dos [du:z], mentre la pronuncia della terza persona del verbo è irregolare, DOES [daz]. E avrete notato la differenza nella grafia, tra does, forma del presente del verbo e il plurale dos.

    Infine c’è anche la nota "do" che si pronuncia [dou].

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    L’Ultima Cena

    In italiano, usiamo il verbo "fare" prima dei pasti, cioè diciamo "fare un pasto, fare colazione, far merenda"; oppure il verbo che deriva dal nome del pasto: "pranzare e cenare". In inglese si usa il verbo have — letteralmente "avere": "fare un pasto" è have a meal, “fare colazione” è have breakfast, "far merenda" è have a snack (uno spuntino) o a light meal (un pasto leggero) o have tea (ove tea non è la bevanda ma il pasto pomeridiano), "pranzare" è have lunch o have dinner e "cenare" è have supper.

    Ve ne parlo stasera perché è la giornata in cui ricordiamo il pasto più importante nella storia dell’umanità, the Last Supper, l’Ultima Cena, quella che attraverso la successione degli Apostoli si comunica fino a noi nella Holy Communion, la santa Comunione, o Eucharist, Eucarestia. La lista dei commensali comprende, assieme a Jesus Christ: Simon Peter, Simon Pietro, Andrew, Andrea James and John, Giacomo e Giovanni, Philip and Bartholomew, Filippo e Bartolomeo, Matthew and Thomas, Matteo e Tommaso, un altro James e un altro Simon, e due Judas — il fratello di James e Judas Iscariot.

    L’espressione the Last Supper è usata anche per indicare la raffigurazione dell’evento, come il capolavoro di Leonardo che si conserva — o si cerca di conservare — nell’antico refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano. Assieme alle nozze di Cana — The Wedding at Cana — l’Ultima Cena è il dipinto più frequente nei refettori dei conventi.

    La festività odierna ha il nome tradizionale di Maundy Thursday, ove Maundy viene dalla prima parola MANDATUM del titolo dell’inno "MANDATUM NOVUM DO VOBIS" ("vi do un comandamento nuovo"), inno che fa parte della liturgia cattolica per questa giornata. In inglese, il comandamento nuovo the new commandment è love one another — amatevi gli uni gli altri: as I have loved you, come io vi ho amato, so you must love one another, così dovete amarvi gli uni gli altri. La cerimonia della lavanda dei piedi the washing of the feet è l’espressione liturgica di un gesto esemplare di carità fraterna.

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    È risorto!

    Questa sera vi parlo di due coppie di verbi inglesi che è facile confondere: lie e lay, e rise e raise. Cominciamo dal verbo lie che significa "giacere, trovarsi disteso". E’ detto di persone: "Susy è a letto con l’influenza" Susy is lying in bed with flu. E anche di cose, in frasi come "Il distretto dei laghi si trova nel nord-ovest dell’Inghilterra" The Lake District lies in the North-West of England. Il verbo si scrive lie ma alla forma lying cambia ie in y prima di aggiungere la desinenza -ing. E’ un verbo irregolare, la cui forma del passato è lay e quella del participio passato è lain.

    La forma dell’infinito coincide con quella del verbo regolare lie che significa "mentire" (ma di questo non mi occupo stasera) e la forma del passato coincide con l’infinito del verbo lay, che vuol dire "deporre, posare, mettere a giacere" e quindi è il causativo del precedente: "deporre" vuol dire "far giacere". Il passato e il participio sono laid: "La gallina ha deposto un uovo" the hen has laid an egg.

    Analogo è il caso del verbo rise "sorgere" (passato rose, participio passato risen) — sunrise è il sorgere del sole; è anche "aumentare" nel senso di "salire" prices have risen "i prezzi sono saliti". Il causativo è raise "aumentare" nel senso di "far salire" they have raised their rates "hanno aumentato le loro tariffe". Notiamo che mentre noi diciamo "porre una domanda" in inglese si dice raise a question, letteralmente "sollevare una domanda".

    Parliamo di questi verbi proprio questa sera perché stiamo celebrando i sacri misteri di Colui che fu deposto in una tomba Jesus was laid in a tomb ma è risorto: Christ has risen again — in una traduzione recente del Vangelo si dice He has been raised from death "è stato sollevato dalla morte". Il titolo del volume a cui mi riferisco, l’edizione cattolica di una traduzione interconfessionale in inglese, è Good News Bible, e fra tutte le good news, le buone notizie, quella della Resurrezione è in assoluto la migliore di tutte, quella fondamentale: Christ has risen again.

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    L’alfabeto

    Per alcune trasmissioni prenderemo lo spunto dalle 26 lettere dell’alfabeto inglese. E’ importante conoscerle per sapere "fare lo spelling", ossia dire lettera per lettera i nomi propri. Ognuna di loro si presta anche a una serie di osservazioni più o meno curiose e spero interessanti.

    La prima, la a, si pronuncia [ei] come lettera e in quei rarissimi casi in cui l’articolo indeterminativo è accentato, ossia in espressioni come the article a; altrimenti la pronuncia normale dell’articolo è debole: a sweet song una dolce canzone.

    Tornando alla lettera, la A maiuscola indica anche la nota LA e la rispettiva tonalità; le lettere successive, fino alla G, indicano le note successive fino al SOL: symphony in A major "Sinfonia in la maggiore", sonata in A minor "sonata in la minore". E’ poi usata come abbreviazione in molti contesti, soprattutto tecnici. Una di queste abbreviazioni, molto usata qualche tempo fa, era A-bomb per atomic bomb, la bomba atomica. Ne riparleremo, purtroppo, quando ci occuperemo della lettera H. C’è anche la vitamina A, vitamin A [vit- in BrE, vait- in AmE].

    La lettera A è anche adoperata spesso per indicare che qualcuno o qualcosa è di prima categoria grade A — come del resto da noi la Serie A nei campionati sportivi. A1 era la classificazione che il registro delle assicurazioni navali attribuisce alle navi più nuove e sicure, di primissima qualità e massima sicurezza, come il Titanic e A1 si usa tuttora come sinonimo di excellent, eccellente.

    Il nome della lettera b ha la stessa pronuncia del verbo essere be e dell’ape bee. La lettera rappresenta la nota si: concerto in B flat "concerto in si bemolle". Si usa anche per indicare che qualcosa è di seconda categoria, noi diremmo "di Serie B". B&B è la normale abbreviazione di Bed and Breakfast, letto e prima colazione, che è sia una delle possibili sistemazioni in albergo, invece della pensione completa o della mezza pensione, sia una guest house, una pensione senza ristorante, che spesso in Gran Bretagna e in Irlanda offre un’accoglienza molto gradevole a prezzi modici.

    La lettera c si pronuncia [si:] esattamente come il verbo "vedere" see e il “mare”, sea. Come si diceva ieri sera, le prime sette lettere corrispondono alle note, a partire dal la, e quindi C è il do: ad esempio, C sharp è il do diesis e middle C è il do centrale.

    E di nuovo, analogamente ad A e B, C indica qualcosa di terza categoria, (di Serie C, diremmo noi). Nel sistema scolastico americano, in cui A significa eccellente e B buono, C è un voto che indica prestazioni discrete o sufficienti. E tra le vitamine, forse la C è quella di cui si parla più spesso, soprattutto nella stagione dei raffreddori. C sta per celsius o centigrade nelle temperature.

    Sulla lettera D, che si chiama [di:] anche in inglese, alcune delle cose da dire sono conseguenti a quanto già detto sulle altre prime lettere dell’alfabeto: è la nota re e la rispettiva tonalità — D major re maggiore; è un voto mediocre, appena sufficiente o quasi sufficiente a seconda dei casi; è una vitamina; e può indicare qualcosa di quarta categoria. In quanto alle abbreviazioni, lo troviamo in R&D, Research and Development ossia "ricerca e sviluppo" e soprattutto in DJ, Disc Jockey. Il D Day è il giorno fissato per qualche operazione importante — in particolare lo si riferisce al giorno dello sbarco alleato in Normandia, il 6 giugno 1944. L’abbreviazione 3-D si usa per indicare "tridimensionale", ad esempio con riferimento al cinema a tre dimensioni.

    Anche la lettera E è un voto (scadente), una vitamina, e una nota, il MI; come abbreviazione la troviamo soprattutto in e-mail, dove sta per electronic: e-mail è la posta elettronica. Come in italiano, e indica la base dei logaritmi naturali. La pronuncia delle vocali crea qualche problema; ieri sera abbiamo parlato della A che si pronuncia [ei] — e quindi assomiglia alla nostra "e"; adesso troviamo la e che si pronuncia "i" esattamente come la nostra vocale "i".

    La pronuncia di "effe" è [ef]; rappresenta la nota "fa" ed è anche il voto negativo, che corrisponde all’iniziale del verbo fail "fallire, bocciare o essere bocciato". F è l’abbreviazione di Fahrenheit, la scala per le temperature usata in Inghilterra.

    La settima lettera si chiama G come in italiano, corrisponde alla nota sol, e con lei finiamo la scala musicale che era cominciata col la. Come abbreviazione internazionale, g si riferisce all’accelerazione di gravità. E’ anche una vitamina. I G-Men sono gli agenti dell’FBI, il Federal Bureau of Investigation ossia l’agenzia investigativa federale. Probabilmente G-Man proviene da Government Man, uomo del governo. Gee! è un eufemismo per Jesus, Gesù, e si usa per esprimere sorpresa, o comunque all’inizio di una risposta che è una reazione emotiva a qualcosa che si è visto o sentito.

    La lettera h in inglese si chiama [eic’]. Anch’essa è usata per indicare una vitamina ed è il simbolo chimico dell’idrogeno. Finora non ho parlato dei simboli chimici (avrei dovuto parlare del boro per la lettera B, del carbonio per la C, e così via) ma qui la faccenda è diversa: dal 1950 esiste la H-Bomb, la bomba H ossia all’idrogeno hydrogen.

    La lettera i si pronuncia [ai] come la parola eye "occhio"; maiuscola, è il pronome "io". Tra le abbreviazioni, I/O [ai stroke o] sta per input-output.

    Dopo la i, nell’alfabeto inglese, vengono la j [g’ei] e la k [kei]. Un lavoro scientifico spedito a una rivista medica americana è stato pubblicato con mesi di ritardo perché alla nota I seguiva la nota L e i redattori hanno pensato che fossero "saltate" due note — non sapevano che nell’alfabeto italiano mancano queste due lettere e l’hanno rinviato al mittente. In Italia, la L è stata corretta in J e il lavoro è stato rispedito. Cito l’episodio per sottolineare l’importanza dell’attenzione ai dettagli — anche all’ordine alfabetico — e per ricordare che le lettere si usano negli elenchi e in altri casi invece dei numeri per indicare primo, secondo, ecc. In inglese, il decimo elemento della serie si chiama J e non L.

    Che la j si chiama in inglese è noto per via del DJ. JAY è anche la gazza. Così come è noto che la lettera k si chiama [kei] per via della seconda lettera di OK. Non si capisce perché in K-WAY si dica [ki] che non è né il nome inglese né quello italiano della lettera K. K è una vitamina e è il simbolo dei gradi KELVIN.

    Nell’esplorazione dell’alfabeto inglese siamo arrivati alla lettera l, che si chiama [el]. Non ci sono osservazioni particolari per questa lettera, né per le due successive, m e n, se non che quest’ultima non si usa come abbreviazione di "numero". La N maiuscola si usa invece come abbreviazione di North, il nord.

    La lettera o ha la stessa pronuncia del verbo owe "essere debitore". O è usato come nome della cifra zero, specialmente nel dire i numeri di telefono. O-ring è una guarnizione a forma di anello — come quella che si trova in tutte le caffettiere moderne.

    La lettera p si pronuncia come in italiano e ha la stessa pronuncia del verbo pee che significa "fare la... pipì". Il pi greco che in geometria equivale al valore di 3,14 si chiama pi e quindi si pronuncia come "la torta" pie.

    La lettera q ha la stessa pronuncia di due parole inglesi. La prima si scrive queue ed è la coda, la fila in attesa dell’autobus o davanti a uno sportello. Si usa anche come verbo, queue o queue up. Spesso è abbreviata con la sola lettera Q nei cartelli: Q HERE. Scritto invece cue è l’indizio, il suggerimento, e anche la stecca nel gioco del bigliardo.

    La lettera r si pronuncia [a:] — ricordo che la lettera a si pronuncia [ei]. R è anche la pronuncia del presente di be nelle persone plurali we are, you are, they are. Come abbreviazione, R si trova nei termometri con la scala Réamur e anche in R&B per rhythm and blues.

    La lettera S si pronuncia [es] e come abbreviazione sta per south, il sud.

    La lettera T si pronuncia come in italiano e ci sono altre due parole con la stessa pronuncia; una è il tè, tea; l’altra, tee, è il supporto della pallina da golf per il colpo iniziale. Una parola usata anche da noi e che contiene questa lettera è t-shirt, la maglietta senza colletto.

    La lettera u si pronuncia come il pronome you (“voi”, ma usato anche come "tu") e anche come ewe la pecora femmina adulta. I O U (per I owe you) è il nome di un documento che costituisce la ricevuta di un prestito o comunque il riconoscimento di un debito (non è un pagherò perché non si indica la data del rimborso). La lettera U è sempre più usata al posto del pronome you in certi messaggi come WHILE U WAIT, "mentre aspettate" per quei posti che fanno subito certi lavori come la copia delle chiavi o il tacco delle scarpe.

    La v si pronuncia [vi:] e quindi se diciamo PAY TI VU invece di pay TV usiamo un’espressione mezza inglese e mezza italiana. V neck è il collo a V di un indumento.

    Tra la Vu e la zeta in inglese ci sono altre tre lettere. La prima, la w, si chiama double U, che vuol dire non "doppia vu" ma "doppia u". Come abbreviazione sta per west, ossia ovest. Nei paesi di lingua inglese non la si usa per "evviva" (e quindi nemmeno, capovolta, per "abbasso").

    La lettera x si pronuncia [eks] — e quindi la pronuncia originale della serie televisiva è EX-FILES. Come da noi, la x si usa per indicare l’incognita in matematica; un altro uso importante è in X-Ray che è la radiografia. Per la sua forma a croce si usa anche come abbreviazione di cross, “incrocio” o “attraversare”. Conosciamo poi la taglia extra-large abbreviata XL. Nella classificazione dei film, X indicava quelli esclusi, ossia vietati ai minorenni.

    La lettera Y si chiama [wai], con la stessa pronuncia di why “perché”. Come x, la si usa per le incognite, e si trova inoltre associata alla x negli assi cartesiani e nella identificazione dei cromosomi.

    Siamo infine arrivati alla lettera Z che dagli inglesi è chiamata [zed] e dagli americani [zi]. Oltre a essere la terza incognita e il terzo asse dopo x e y, la si usa nei fumetti per indicare la persona che dorme, da cui l’espressione idiomatica catch some zees, letteralmente "prendere alcune zeta" per "fare un pisolino".

    Finisce qui l’alfabeto, dal quale abbiamo spigolato una serie di curiosità e di usi particolari. Ne abbiamo tralasciati molti altri, dall’uso delle lettere per i numeri romani (e stranamente inglesi e americani preferiscono usare le minuscole invece delle maiuscole, soprattutto nelle pagine delle prefazioni dei libri) fino all’infinità di sigle che si diffondono sempre più. Questa sera abbiamo parlato di extra large, le sere scorse avrei potuto ricordare la L di large, la M di MEdIUM e la S di small — ma non sono certo le sole omissioni.

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    Ricomincio da uno

    Dopo aver passato in rassegna l’alfabeto, cerchiamo di scovare qualche particolarità e curiosità tra i numeri. Il primo è one, che ha la stessa pronuncia del passato del verbo WIN, vincere —cioè won. Siccome in italiano il numero uno coincide con l’articolo indeterminativo, ci può essere il problema di quando usare one invece di a o an. Si preferisce one quando c’è un’idea di quantità precisa: "il volo durerà un’ora" the flight will take one hour. In qualche caso one sta per "uno solo": hole in one, nel gioco del golf, è la buca raggiunta col primo colpo.

    Ma si usa one anche quando "uno" vuol dire "un certo, un tale": I’ll be rich one day "un giorno sarò ricco"; early one morning "una certa mattina presto".

    One deve essere usato quando "uno" è correlativo di "altro": "io ho detto una cosa, lui ne ha capita un’altra" I said one thing, he understood another. Ciò che "entra da un orecchio e esce dall’altro" è qualcosa che goes in one ear and out the other.

    Insieme, one another formano il pronome reciproco "l’un l’altro"; il giovedì santo abbiamo ricordato il comandamento dell’amore love one another, "amatevi gli uni gli altri." Una forma alternativa di pronome reciproco è each other: "si criticarono a vicenda aspramente" they criticised each other bitterly. Nella lingua inglese di oggi, each other e ONE ANOTHER si usano indifferentemente, come sinonimi. Certe grammatiche dicono ancora che un’espressione si usa parlando di due persone o cose, l’altra per più di due — ma questa distinzione, se mai è stata vera in passato, di sicuro non lo è più oggi.

    One è anche il pronome usato per non ripetere una parola già detta: in the blue pen and the red one "la penna blu e quella rossa", one permette di non ripetere pen. Se occorre può essere plurale "i libri vecchi e quelli nuovi" the old books and the new ones. Nelle forme possessive aggiunge –’s: "fare il proprio dovere" do one’s duty.

    One pronome si usa in molte espressioni; in California, the big one è il grande terremoto che, secondo le previsioni, trascinerà nell’Oceano Pacifico una fetta della fascia costiera. The Loved One, "l’amato" indica il defunto, il compianto; il titolo del romanzo (e del film) è stato tradotto con "Il caro estinto".

    Il seguito al prossimo numero...

    Nella nostra rassegna dei numeri, siamo arrivati al due, two. La pronuncia coincide con quella dell’avverbio too e con la pronuncia "forte" della preposizione e particella to. Apriamo una parentesi sull’avverbio too, per ricordare che ha due usi principali: davanti a aggettivi e avverbi significa "troppo": "non è mai troppo tardi" it’s never too late; alla fine di una frase significa "anche" e questo ha dato origine al vecchio gioco di parole sui due treni che partono alle 13.58, cioè due minuti prima delle due. "A che ora parte il treno per Bristol?" What time does the Bristol train leave? At two to two. "E quello per Liverpool?" And the Liverpool train? At two to two, too! — anche lui alle due meno due.

    La stessa radice del numero due la troviamo nella parola "gemelli" twins; le torri gemelle del World Trade Center di New York City erano le Twin Towers; e la troviamo nella parola between che vuol dire "tra" o "fra" — di solito tra due, come "tra te e me" between you and me (nel senso di "in confidenza"), ma a volte anche in espressioni come "fra quattro mura" between four walls.

    Two-way, letteralmente "a due vie, bidirezionale" è contrapposto a one-way soprattutto in espressioni come a two-way road "una strada a doppio senso di marcia" e a two-way radio "una radio rice-trasmittente" — one-way street è "una via a senso unico".

    Two è anche il paio, la coppia — e a proposito di coppie e del terzo incomodo, si dice che two is company and three is none "due è una compagnia e tre no". Che due negazioni affermino non è vero né in inglese né in italiano — questo è uno dei punti su cui dovremo tornare. L’inglese ha un proverbio in rima che riprende questo concetto: two blacks do not make a white, two wrongs do not make a right "due neri non fanno un bianco, due torti non fanno una ragione".

    Sul numero tre, three, non c’è molto da dire. Come in italiano, si conta fino a tre one two three! per dare il via a una corsa, specialmente nei giochi dei bambini. L’espressione the three r’s "le tre erre" indica le conoscenze elementari: reading, la lettura, writing, la scrittura, e arithmetic, l’aritmetica e corrisponde al nostro "leggere, scrivere e far di conto." Ci sono poi i trii di tutti i tipi, dalle tre Grazie The Three Graces ai Tre Porcellini The Three Little Pigs.

    Proseguendo nella rassegna dei numeri, ripartiamo da quattro, four. La pronuncia coincide con quella della preposizione for, quando questa preposizione si trova in posizione accentata. In "tè per due" tea for two, for è pronunciata nella forma debole [fa]; ma in "che cosa stai cercando?" what are you looking for? for ha la pronuncia forte [fo:]. Un’altra parola, molto meno usata ma anche lei pronunciata [fo:] è fore e significa "anteriore" the fore legs of a horse sono "le zampe anteriori di un cavallo." forearm è "l’avambraccio".

    In quanto a significato e usi, four non si differenzia molto dall’italiano "quattro." Forse l’unica espressione di una qualche importanza è four-letter word, che letteralmente significa "parola di quattro lettere" ma è un eufemismo che si riferisce alle cosiddette ‘parolacce’, che in inglese sono quasi tutte di quattro lettere.

    Con il numero quattro, cominciamo ad avere i numerali ordinali che si ottengono aggiungendo TH al numero cardinale; dopo first, second e third, "primo, secondo e terzo" il quarto è fourth.

    Troviamo però subito un’eccezione col numero cinque, five: "quinto" è fifth, con il dittongo [ai] che diventa [i] e il suono finale di [v] che diventa [f]: five, fifth. Nel linguaggio giovanile americano, high five, letteralmente "un cinque alto," è il gesto di battere il palmo della mano contro quello di un amico come segno di gioia e di riuscita. Da noi è stato ripreso, anche in una canzone, come give me five ,"dammi un cinque".

    Sul numero sei six non c’è niente di particolare da dire, se non forse che in inglese sesto è sixth e che al plurale diventa un po’ uno scioglilingua: "cinque sesti" è five sixths.

    Nemmeno sul sette seven e sul settimo, seventh ci sono osservazioni particolari. L’otto, eight, termina già per t, e quindi eighth, ottavo, aggiunge solo l’h. Invece il nove, nine, termina con una E muta che non si scrive in ninth, il nono.

    Saltiamo al dodici, twelve, che termina per -ve e le cambia in f prima di aggiungere -th: "dodicesimo" è twelfth. E infine al venti, twenty, che cambia la y finale in -ieth: ventesimo è twentieth — lo vediamo nei film della 20th Century Fox. Allo stesso modo si comportano gli altri numeri che esprimono le decine e terminano in y: fifty, fiftieth.

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    L’inglese specialistico

    Mi sono occupato parecchio tempo della lingua inglese usata nei testi specialistici, tecnico-scientifici di vari settori, dall’economia politica all’informatica. Non da solo, naturalmente, ma in collaborazione con alcune validissime colleghe, che in questo momento desidero ricordare con un saluto.

    Nei pochi minuti di trasmissione non si riesce a fare un discorso abbastanza esteso, ma spero lo stesso di dire alcune cose essenziali sull’inglese settoriale. La prima cosa è che il problema non è solo nei vocaboli tecnici — certamente questi ci sono, ma spesso sono costruiti a partire da parole latine e greche e quindi, almeno nello scritto, assomigliano molto alle corrispondenti parole italiane. Penso, per restare su termini che poi sono stati resi noti al grande pubblico, a parole come tomography, la tomografia o chemotherapy, la chemioterapia. In qualche caso sono proprio i vocaboli tecnici, assieme agli schemi, alle tabelle, alle formule matematiche o di altro tipo, ai diagrammi tecnici, ad aiutare a capire le parole più comuni che tengono insieme un testo.

    E’ proprio dal testo nel suo insieme che si deve partire, perché ogni materia e ogni argomento hanno un proprio modo di organizzare il discorso. Oggi ci sono anche dei veri e propri generi letterari nuovi, come l’abstract all’inizio di un articolo scientifico, che deve servire per decidere se un ricercatore debba dedicare del tempo a leggerlo. E’ un genere nuovo perché non tutti quelli che sanno riassumere sanno fare un buon abstract — e un discorso analogo si può fare per altre operazioni testuali al confine tra il linguistico e lo specialistico.

    Le reti telematiche e le memorie al laser consentono ora di creare gli ipertesti, costruiti in modo che basta un clic per passare a un’altra parte dello stesso documento o ad altri documenti collegati. Ai tecnici informatici è affidato il compito della realizzazione tecnica di questi strumenti di comunicazione, ma per i testi sempre più spesso si ricorre a persone con una formazione umanistica, in particolare linguistica. Sono sviluppi interessanti, da seguire giorno per giorno.

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    Le stagioni

    Con alterne vicende meteorologiche ci inoltriamo nella primavera e quindi dedico alle stagioni la conversazione di stasera. La primavera si chiama spring, una parola che significa anche "fonte, sorgente d’acqua" e anche "molla". La troviamo nel senso di "primavera" in spring cleaning, quelle che noi chiamiamo "le pulizie di Pasqua", e nel senso di "molla" in spring mattress, "materasso a molle." Spring come verbo significa "scaturire, avere origine" — e si collega a spring "fonte" — e anche "balzare, scattare come una molla". Tra gli usi che ho trovato registrati in un dizionario c’è anche lo spring roll, l’involtino primavera tipico della cucina orientale.

    L’estate è summer; troviamo questa parola usata in inglese in alcuni casi in cui noi invece parliamo di primavera: nel proverbio a swallow doesn’t make a summer "una rondine non fa primavera" — ma la bella stagione arriva più tardi in Inghilterra — e in espressioni in cui "primavera" significa "anno:" "una signorina di quaranta primavere" a girl of forty summers. L’estate di San Martino si chiama Indian Summer, letteralmente "l’estate indiana". Si parla anche, come da noi, di st. Martin’s summer quando l’Indian Summer è in novembre.

    Per l’autunno ci sono due parole: la prima, di origine latina, è di uso corrente in Inghilterra: autumn (la n finale è muta). In America si preferisce usare fall, che corrisponde al verbo fall, cadere, con evidente riferimento alla caduta delle foglie. Su questo si basa la vecchia storiella, che probabilmente conoscete già, di quel ragazzo che dice "il mio amico texano verrà in Italia la prossima volta che cade": next fall è il prossimo autunno, non la prossima caduta.

    L’inverno è winter, scritto come "viva l’Inter" — una cosa che dava molto fastidio ad alcuni miei scolari accesi milanisti. Il verbo winter corrisponde al nostro "svernare", ossia trasferirsi in climi più miti per passare la cattiva stagione.

    Come in italiano, anche in inglese le stagioni sono usate come metafore delle età dell’uomo, dalla primavera-giovinezza fino all’autunno-vecchiaia.

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    Gli altri popoli

    Ieri sera, parlando dell’estate di San Martino ho detto che in inglese è Indian summer, l’estate indiana. In tutte le lingue si usano aggettivi di nazionalità per indicare gli oggetti più disparati, ma le scelte variano da lingua a lingua. Qualche volta coincidono, come la fila indiana che anche in inglese è Indian file, ma il più delle volte no. Dalla Russia abbiamo, in lingua italiana, l’insalata russa e la roulette russa. Ma mentre quest’ultima si chiama Russian roulette anche in inglese, l’insalata russa così come noi la intendiamo non la conoscono nei paesi di lingua inglese e quindi Russian salad non si trova sui dizionari inglesi o americani, ma solo in certi dizionari bilingui italiani. In compenso, si parla di Italian dressing, condimento all’italiana, per una salsa da insalata a base di aglio e origano che pochi, da noi, usano, dato che di solito la condiamo con oil and vinegar, olio e aceto.

    Il tacchino ha lo stesso nome della Turchia, turkey, mentre da noi è detto anche dindo, ossia pollo d’India. La nostra "faraona" ha un nome che rievoca l’Egitto: in inglese è guinea fowl, il pollo della Guinea. Questo paese ha dato il nome anche al guinea pig, che è la cavia, e alla guinea, tradotta come ghinea, che è un’unità di valore superiore alla sterlina e di cui vi dirò settimana ventura, quando parlerò di monete.

    In inglese, il nome della Cina, china, indica la porcellana; China è scritto come la nostra "china" — che in effetti è un nome che indica originariamente "l’inchiostro della Cina".

    Se non capisco qualcosa, dico che "per me è arabo;" in inglese è tutto greco, oppure doppio olandese: it’s all Greek to me, it’s double Dutch. E a proposito di olandesi, il Dutch courage è il coraggio che viene dall’aver bevuto un bel po’ di alcool, mentre go Dutch è il nostro "fare alla romana" quando c’è da pagare.

    Gli italiani e i francesi dicono "filarsela all’inglese" se filer à l’anglaise nel senso di "andarsene senza dare nell’occhio e senza salutare nessuno"; gli inglesi dicono take French leave, ossia "prender congedo alla francese".

    E’ evidente che questi stereotipi tendono a etichettare i popoli come portatori di difetti congeniti. Non c’è niente di male, basta non credere davvero che i portoghesi entrino senza pagare — intendo dire quelli veri, che abitano in Portogallo, non gli italiani scrocconi.

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    My Way

    Questa sera vi dirò alcune cose a proposito della parola way — solo alcune perché un recente dizionario della lingua inglese la indica come la parola per la quale il dizionario stesso fornisce più spiegazioni e esempi, raggruppati in 94 paragrafi, a cui vanno aggiunte le forme derivate o composte, che sono circa duecento. Alcuni di questi composti sono parole molto note e frequenti, come anyway "comunque" e railway "ferrovia".

    Possiamo anche citare Broadway, letteralmente "via larga", famosa perché i teatri di Broadway sono molto più importanti di quello che si trova a Milano in Via Larga. Way è quindi la via, in senso proprio e in senso metaforico. Nella versione inglese del Vangelo di Giovanni, Gesù dice I am the way, the truth, and the life "Io sono la via, la verità e la vita". All the way vuol dire "fino in fondo", come nella canzone di Sinatra in cui si dice che quando qualcuno ti ama non è amore vero se non ti ama all the way.

    Se qualche ostacolo si frappone si dice che gets in the way, e a coloro che intralciano si dice get out of the way, "togliti di mezzo." Se si cerca il modo di aggirare un problema o una difficoltà, si cerca una way around. Le entrate e le uscite in molti luoghi sono indicate con i segnali di WAY IN e WAY OUT rispettivamente. Way quindi è anche la direzione: chi si trova a un incrocio e deve andare alla stazione può chiedere which way to the station? e la risposta può essere that way! "da quella parte, in quella direzione."

    Se qualcosa è lontano si dice che it’s a long way ma nelle domande e nelle frasi negative si preferisce far. Is it far? No, it isn’t very far "è lontano? No, non è molto lontano." I soldati della prima guerra mondiale cantavano "Tipperary è lontana" it’s a long way to Tipperary.

    Di chi è all’avanguardia in qualche campo si dice che leads the way, "apre la strada".

    Lasciando a un’altra occasione gli altri significati di way, termino con un altro composto, subway, che in Inghilterra è il sottopassaggio e in America è la metropolitana — è facile confondersi perché un subway del primo tipo può condurre a una subway dell’altro tipo.

    Ieri sera abbiamo parlato di alcuni dei significati e usi di way — nel senso di "via, strada, direzione, percorso e distanza". Un altro significato importante è quello di "modo, maniera" — evidentemente collegato al precedente ma distinto, e anche lui al centro di molte espressioni diverse.

    "A modo mio" è my way, a modo tuo è your way, ecc. The way you are è "il modo in cui tu sei". Se sto mostrando a qualcuno come si fa a fare qualcosa, gli dico "fai così" do it this way. Al plurale, ways sono le abitudini di una persona o gli aspetti di qualcosa. He will never change his ways "non cambierà mai le sue abitudini, il suo modo di fare"; in some ways, my holidays are hard work "per certi aspetti, le mie vacanze sono un duro lavoro". Troviamo anche l’espressione in a way per "in un certo senso", che serve per attenuare un’affermazione: in a way, the accident was lucky "in un certo senso, l’incidente è stato una fortuna".

    Lo stile di vita di un popolo o di un gruppo sociale è the way of life o the way of living — si parla quindi di British way of life anche se la realtà britannica è altrettanto composita di quella italiana. Qualcuno che è malconcio come salute è in a bad way: he’s in a bad way, but able to talk "è messo male, ma è in grado di parlare".

    No way, spesso ripetuto (no way! no way!) è un modo, usato soprattutto dagli americani, per rispondere "assolutamente no, per niente" a una richiesta o per esprimere il nostro "niente da fare". Il nostro proverbio "volere è potere" in inglese è where there’s a will there’s a way "dove c’è una volontà c’è un modo" — o "una strada": come dicevo all’inizio, i due significati non sono molto lontani tra loro, soprattutto in alcuni contesti.

    Per dire che occorre scegliere si dice you can’t have it both ways — letteralmente "non si può averlo in entrambi i modi."

    By way of significa "a mo’ di": "dire qualcosa a mo’ di introduzione" say something by way of introduction. E significa anche "per mezzo di": "insegnare l’inglese attraverso gli esempi" è teaching English by way of examples. A proposito: mi stavo dimenticando di by the way che appunto significa "a proposito".

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    Parliamo di soldi

    Settimana scorsa ho promesso che avrei parlato delle parole inglesi che si riferiscono al denaro, money, e alle monete, coins. La sterlina inglese si chiama pound, dal latino "pondus", che è il peso — e in effetti abbiamo parlato dell’altro significato di pound "libbra" quando ci siamo occupati di pesi e misure.

    Con riferimento al denaro, a volte si parla di pound sterling, ove sterling è un aggettivo che si riferisce all’argento con il titolo di 925/1000. Di questo metallo era fatta una moneta medievale e da allora sterling significa "pregiato, genuino". Dire di una persona che ha una sterling reputation significa dire che ha fama di essere una persona integerrima. È da questo aggettivo che deriva l’italiano "sterlina".

    Fino al 15 Febbraio 1971, la sterlina era divisa in 20 scellini, shillings, e ciascuno scellino era diviso in 12 denari o pence. Pence è il plurale irregolare di penny (il che vuol dire che Penny Lane è il Vicolo del Soldo). Nel 1971 è stato introdotto il sistema decimale, in cui un pound si divide in cento pence.

    Pence si adopera per indicare i valori, mentre le monete da un penny sono pennies. Se uno chiede five pence gli si può dare una moneta da 5 centesimi, ma se chiede five pennies ha bisogno di cinque monete da un penny.

    Ci sono parole che vi può capitare di vedere su vecchie monete ancora circolanti o di leggere in racconti inglesi. Il fiorino florin valeva due scellini, ossia dieci centesimi attuali. Il suo nome viene dal giglio, il fiore sulle monete fiorentine coniate a partire dal 1252 — ma quella era un’epoca in cui tutta l’Europa cercava di adeguarsi al sistema monetario italiano, e non viceversa...

    La mezza corona, half crown, era una moneta del valore di due scellini e mezzo, ossia un ottavo di sterlina. La crown, corona, era scomparsa da parecchio tempo dalla circolazione e viene coniata solo come moneta commemorativa.

    Alla sterlina d’oro venne dato il nome di guinea, scritto come la Guinea, il paese da cui veniva l’oro per coniarla. Dopo varie oscillazioni, il suo valore fu fissato in 21 scellini e, scomparsa la moneta, la "ghinea" è rimasta nell’uso per indicare il valore di certi premi e degli onorari di certi professionisti: quindi una sterlina di prestigio, che vale il cinque per cento più dell’altra.

    Dopo aver parlato ieri sera della sterlina, questa sera proseguo nell’esplorazione delle altre valute e monete dei Paesi di lingua inglese. La sterlina irlandese, che viene chiamata punt, si divide anche lei in cento pence come quella inglese.

    Il dollaro, dollar, prende nome dal tallero, moneta europea che a sua volta deriva da Joachimst(h)aler, l’argento proveniente da una miniera scoperta nel 1519 nella valle di Sankt Joachim in Boemia. Il tallero fu sostituito dal marco tedesco solo nel 1873.

    Il dollaro si divide in cento cents. Le monete in circolazione negli Stati Uniti, oltre al dollaro (che però circola soprattutto come banconota) e al cent sono:

    — il mezzo dollaro, half dollar;

    — il quarto di dollaro o quarter;

    — i dieci centesimi o dime ossia decimo di dollaro;

    — i cinque centesimi, detti familiarmente nickel.

    Il dime e il nickel sono quelli che i fumetti di Topolino e di Charlie Brown ci hanno resi familiari come il "decino" e il "nichelino". Quest’ultimo evidentemente prende il nome dal metallo, così come il cent viene a volte chiamato copper perché è di rame — un altro nome è penny, come il centesimo inglese.

    Oltre che degli Stati Uniti, dove è stato adottato sin dal 1792, il dollaro è la moneta del Canada, che adottò il dollaro e il sistema monetario decimale nel 1858; l’Australia lo adottò nel 1966 e la Nuova Zelanda nel 1967.

    Concludo con un paio di proverbi sui soldi. Il primo è take care of the pence and the pounds will take care of themselves, ossia bada ai centesimi e le sterline baderanno a se stesse. Ma un altro proverbio avverte che si può essere penny wise, pound foolish: è detto di coloro che stanno molto attenti a come spendono le piccole somme ma poi non sono altrettanto saggi con quelle grosse: saggi con i penny, penny wise, e sciocchi con le sterline, pound foolish.

    E siccome anche il tempo è denaro, time is money, badiamo a come lo spendiamo — in inglese si dice proprio spend time per "trascorrere il tempo".

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    1° Maggio

    La tradizione del Calendimaggio, che ormai si va perdendo anche dove è sempre stata molto viva, non è solo italiana.

    In Inghilterra, la tradizione vuole che il primo maggio si elegga the Queen of May, la regina di maggio durante una festa popolare durante la quale si danza attorno a un palo, detto il maypole. Questo "palo di maggio" viene decorato di ghirlande di foglie e fiori. Dalla sua cima pendono dei nastri molto lunghi. Le danzatrici, girando attorno al palo, incrociano i nastri formando delle trecce molto elaborate.

    Il primo maggio the first of May è anche il Labour Day, la festa del lavoro, una delle festività ufficiali inglesi — si chiamano tradizionalmente Bank Holidays, le feste bancarie, ma non sono solo le banche a rimanere chiuse. Se il primo maggio è sabato o domenica, la festa è rinviata al lunedì. Le altre festività sono: il venerdì santo Good Friday e il lunedì di Pasqua Easter Monday; il lunedì di Pentecoste Whitmonday è stato sostituito dall’ultimo lunedì di maggio; il primo lunedì di agosto, il primo novembre, il giorno di Natale e, se è feriale, il giorno successivo detto Boxing Day. In Irlanda è festa civile anche il giorno di San Patrizio (st. Patrick’s day) — o, se il 17 marzo è domenica, il lunedì successivo.

    Negli Stati Uniti il Labor Day non si celebra il primo maggio ma il primo lunedì di settembre.

    Come si vede, c’è la tendenza a sostituire le feste mobili con le date fisse e a spostare al lunedì le feste infrasettimanali — sia per non spezzare la settimana lavorativa che per consentire il long weekend, il fine-settimana prolungato. Tutto questo va sicuramente nella direzione dell’efficienza e della produttività ma fa smarrire il senso delle festività, in particolare di quelle cristiane. Sostituire il lunedì di Pentecoste con un lunedì fisso significa dimenticare la terza persona della Trinità, the Holy Spirit, lo Spirito Santo a cui è dedicato l’anno che stiamo vivendo in preparazione al Giubileo. Da noi sono state spostate dal giovedì alla domenica l’Ascensione e il Corpus Domini, solennità che così hanno perso molto del loro rilievo.

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    Troppo giusto!

    Ogni tanto dedichiamo queste conversazioni all’analisi di una parola inglese che ha molti usi e significati. Questa sera ci occupiamo di right. Ci sono altre tre parole con la stessa pronuncia. Una è il verbo scrivere, write; la seconda è il rito, rite; e la terza è wright che è il cognome dei fratelli Wright pionieri dell’aviazione ma è anche una parola dell’inglese comune per indicare l’artigiano specializzato in un dato settore: dal cartwright, il carradore, colui che faceva i carri, al playwright, il commediografo.

    Torniamo a right. E’ aggettivo, nome, avverbio e verbo e ha vari significati. Come aggettivo, corrisponde a "destro" — è l’opposto di left, sinistro; il mio piede destro è my right foot. "A destra" corrisponde a on the right nello stato in luogo: La persona a destra nella foto è il ministro the person on the right in the photo is the minister; se invece si tratta di moto a luogo si dice to the right: gira a destra al semaforo turn to the right at the traffic lights. Nel significato di "destro" right si usa spesso associato a hand, la mano: il lato destro è the right-hand side.

    Right corrisponde anche a "giusto": la risposta giusta è the right answer; in questo caso il contrario è wrong, sbagliato. Avere ragione è be right, più o meno come "essere nel giusto". E un angolo retto è un right angle.

    Gli usi come nome riflettono quelli come aggettivo: the Right con la R maiuscola è la Destra in senso politico; right è anche "il diritto": "hai il diritto di scegliere" you have the right to choose; the right of way è, a seconda del contesto, il diritto di transito o il diritto di precedenza. Al plurale sono i diritti: human rights sono i diritti umani; the Bill of Rights è la Dichiarazione dei Diritti — negli Stati Uniti hanno questo nome i primi dieci Emendamenti della Costituzione, del 1789, mentre in Inghilterra è la legge costituzionale del 1689, una delle leggi fondamentali in un paese che non ha una costituzione organica. In senso più specifico, si parla anche di the rights per quanto riguarda ad esempio i diritti di pubblicazione di un libro o di una notizia in esclusiva.

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    Giustizia e destrezza

    Ieri sera sono riuscito a parlare solo di alcuni significati e usi di right: come aggettivo (che vuol dire "giusto", "destro" o "retto" in "angolo retto" right angle) e come nome — la Destra, anche politica, e il diritto nel senso di facoltà legale di fare qualcosa: il diritto di voto the right to vote, il diritto d’autore copyright. Abbiamo anche parlato dei diritti, e in particolare dei diritti umani e costituzionali. Right non si usa invece nel senso di Giurisprudenza: studiare diritto è study law, ossia "legge".

    Right si usa anche come avverbio, con valore rafforzativo. Lo si trova in espressioni come right reverend, molto reverendo e right honourable, titolo che qualifica alcuni giudici, nobili e altri alti dignitari. Più spesso right accompagna espressioni di tempo: right now è "proprio adesso"; right after the earthquake there was a snowfall "subito dopo il terremoto c’è stata una nevicata" — right off e right away significano "immediatamente": the boss wants to see you right away "il capo ti vuol vedere immediatamente". Lo si trova anche in espressioni di luogo: "è proprio lì davanti a te" it’s there, right in front of you.

    Right si usa anche come interiezione, col valore di "bene", per introdurre una frase, spesso in risposta a una proposta: "Sono libero il prossimo fine settimana. Bene! andiamo al mare" I’m free next weekend. Right! Let’s go to the seaside. Invece di right, gli americani — e anche molti italiani — usano ok. Lo si usa anche in tono interrogativo, per avere una conferma o un’approvazione. We’ll leave at seven — right? "Partiremo alle sette: va bene?”

    Da right nome derivano due aggettivi: rightful è "legittimo" sopratutto in espressioni come the rightful place in history, riferite al posto che qualcosa o qualcuno occupa legittimamente nella storia. Righteous è invece la persona retta, consapevole di essere nel giusto, ma anche chi è considerato dagli altri un moralista; righteous indignation è l’indignazione di chi afferma retti principi morali.

    Dall’aggettivo right deriva l’avverbio rightly che corrisponde ai nostri "giustamente, correttamente, esattamente".

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    Just

    Dopo avervi parlato per un paio di sere di right "giusto" (oltre che "destro"), voglio parlarvi di un’altra parola che potrebbe essere confusa con right, e cioè just. Anzitutto just è principalmente un avverbio di tempo o di quantità e corrisponde spesso al nostro "appena": "il treno è appena arrivato" the train has just arrived. Notiamo la differenza: se dico Lynn arrived right on time intendo dire che Lynn è arrivata esattamente all’ora prevista; se invece dico Lynn arrived just in time dico che è arrivata appena in tempo — per fare quello che viene specificato nel resto della frase, come in just in time to catch the bus "appena in tempo per prendere l’autobus."

    Se chiedete a qualcuno di attendere un attimo, un secondo dite just a minute, just a moment, just a second — personalmente detesto "un attimino" e non capisco perché chi lo dice non dica anche "un secondino"...

    Troviamo just anche in espressioni di quantità come just enough, "appena sufficiente" I had just enough money left to buy the ticket to come back home "mi erano rimasti i soldi appena sufficienti per comperare il biglietto di ritorno a casa."

    Un’espressione frequente è just in case, analogo al nostro "caso mai", "per l’eventualità che": "sarà meglio che ti porti l’ombrello, caso mai cambiasse il tempo" you’d better take an umbrella, just in case the weather changes. Spesso just in case si usa da solo: "informa la tua assicurazione, per ogni eventualità" let your insurance know, just in case.

    Just si usa come aggettivo soprattutto in just cause, la "giusta causa" e in ogni caso con riferimento a un senso di giustizia, justice: una sentenza equa è a just sentence. Riferito a persone, ora lo si trova solo in testi obsoleti. “Re Salomone era un uomo giusto” King Solomon was a just man. Un uomo giusto nel senso di "operatore di giustizia" può essere a just man, ma nel senso di "persona adatta" è the right man —the right man in the right place è "l’uomo giusto al posto giusto".

    Justice non è solo la giustizia, sia come virtù che come sistema giudiziario, ma, soprattutto in inglese americano è anche il giudice. Un giudice della Corte Suprema è a justice of the Supreme Court; un giudice di pace è a justice of the peace.

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    Forme impersonali

    Un supermercato di una località di villeggiatura sul mare Adriatico aveva qualche tempo fa (non so se ci sia ancora, e mi sono molto pentito di non averla fotografata) un’enorme scritta in tre lingue: MAN SPRICHT DEUTSCH, in perfetto tedesco; ON PARLE FRANÇAISE al femminile: buon sangue romagnolo non mente e evidentemente si preferiscono le francesi ai francesi; e infine, ON SPEAK ENGLISH, che non depone molto a favore del fatto che dentro sappiano davvero parlare l’inglese, visto come lo scrivono. ON infatti è francese e come il MAN tedesco serve per tradurre il SI impersonale italiano — quello di frasi come "si ascolta tanta bella musica su questa radio".

    E in inglese? Un pronome impersonale non esiste e il più delle volte si usa la forma passiva the passive voice is used. "Si parla inglese" corrisponde quindi a english is spoken, di solito abbreviato in ENGLISH SPOKEN, sottintendendo il verbo "essere". Si fabbricano molte automobili a Detroit, a lot of cars are made in Detroit.

    Al si impersonale italiano a volte corrisponde il pronome you: "si guida a destra o a sinistra in Irlanda?" Do you drive on the right or on the left in Ireland? Siccome la domanda non riguarda quello che fai tu, ma quello che si fa da parte di tutti, la risposta ha ancora you: "si guida a sinistra" you drive on the left. Un’espressione come "non si sa mai, non si può mai dire" è you never can tell. E un vecchio indovinello per bambini chiede: "dove si trovano gli ippopotami?" where do you find hippopotamuses? e la risposta è it depends on where you leave them, dipende da dove li si lasciano!

    Un altro pronome a volte usato con valore impersonale è we “noi”: "come si sa" è as we all know — letteralmente, "come sappiamo tutti." Tipicamente impersonale, anche se non molto usato, è il pronome one — "si deve stare molto attenti a usare i fiammiferi" one has to be very careful using matches. Un uso tipico di one, del possessivo one’s e del riflessivo oneself è con i verbi all’infinito: "Fare il proprio dovere" è do one’s duty; divertirsi è enjoy oneself.

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    Vista e udito

    Se dimentichiamo per un momento casi particolari, come i dialoghi al telefono e le trasmissioni per radio, si comunica di più con i gesti e in genere con ciò che colpisce l’occhio che non con le parole. Ancora prima che una persona sconosciuta ci dica qualcosa, dal suo aspetto e dal suo modo di muoversi noi deduciamo una serie di informazioni su di lui o lei — in primo luogo, appunto, se sia un lui o una lei, la fascia d’età, e spesso la condizione sociale, qualche volta la professione — anche se non porta la divisa, e così via.

    Sappiamo benissimo che esiste la comunicazione non verbale — cioè non gestita con le parole — ma spesso ci sfugge il fatto che questi messaggi non sono universali ma vengono imparati esattamente come impariamo una lingua — cioè il più delle volte semplicemente per imitazione, e solo in qualche caso in base a spiegazioni esplicite. Qualche esempio: sulle scale mobili in Inghilterra si usa da molto tempo fare quello che ora anche da noi si cerca di introdurre come buona abitudine: chi sta fermo si mette su un lato e chi ha fretta sale o scende lungo la corsia che viene lasciata libera. Nessuno me l’ha insegnato — a Londra l’ho fatto semplicemente vedendo gli altri: "così fan tutti".

    Le spiegazioni vengono date — qualche volta sotto forma di richiamo o di protesta — quando si violano le norme, come quella volta che non mi sono accorto che a una fermata o a uno sportello c’era una coda.

    Lo sbaglio che si può fare è quello di attribuire a gesti o atti lo stesso significato che hanno nella nostra cultura. Tradizionalmente gli inglesi si stringono la mano per esprimere sentimenti molto forti — per esempio per fare le condoglianze a qualcuno o per congratularsi per qualcosa di veramente importante. Altrimenti la stretta di mano si usa nelle presentazioni: le due persone che sono presentate si stringono la mano e dicono how d’you do intanto che chi presenta dice i loro nomi.

    Da noi la stretta di mano fa parte dei normali saluti tra amici e conoscenti; se un inglese non ci offre la mano quando lo incontriamo, ci viene da pensare che sia freddo e scortese — lui a sua volta può pensare che siamo iperemotivi perché porgiamo la mano anche se non è morto nessuno e non è successo niente di eccezionale. Si può sbagliare a capire i gesti come a capire le parole e le frasi.

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    Benzina in canestri?

    La parola inglese che significa "canestro" la conosciamo: è il basket, da cui si ottiene il composto basketball che è lo sport della pallacanestro. Per inciso, ripeto quello che ho già detto un’altra volta: l’abbreviazione basket per basketball è italiana e non inglese. Ma torniamo al canestro, al cestino, al basket.

    Su una rivista enigmistica che racconta curiosità varie ho trovato un aneddoto su un americano che ha cercato di rubare della benzina contenuta in alcuni... canestri. Siccome c’era buio ha pensato bene di usare un accendino con le conseguenze che potete immaginare — tutto sommato, nel caso specifico sono state meno tragiche di quello che sarebbero potute essere (90 giorni salvo complicazioni).

    Ora, chi ha tradotto la notizia in italiano forse pensa davvero che in qualche parte del mondo ci sia qualcuno che tiene la benzina nei canestri — chissà, forse gli americani hanno inventato un tipo di cesto che tiene i liquidi e magari non è infiammabile.

    La risposta, come chi mi ascolta a questo punto ha perfettamente capito, è un’altra: la parola inglese canister non è per nulla il canestro, ossia il basket, ma la "tanica". Il contesto è così chiaro e ovvio che anche chi sa poco e male l’inglese deve accorgersi che siamo in presenza di un "falso amico" e quindi deve almeno verificare su un dizionario che cosa vuol dire canister.

    Come per la maggior parte dei "falsi amici" la somiglianza è dovuta a un’etimologia comune: "canestro" e canister risalgono alla stessa parola latina canistrum. La parola italiana è l’erede diretta di quella latina e continua a indicare il cesto di canna o oggetti simili, mentre quella inglese è apparsa agli inizi del 1700 — un’epoca con molti prestiti dalle lingue classiche — ed è stata usata per altri tipi di contenitori e di custodie. Un canister oggi oltre che la tanica è anche un barattolo smaltato, la scatola metallica che contiene una pellicola, e contenitori simili. A GAS canister è una bombola di gas — e penso che a nessuno venga in mente di poter tenere del gas in un canestro. O forse sì: basta stravolgere il significato che le parole italiane hanno sempre avuto...

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    L’inglese tra noi

    Mi domando spesso — e girerei volentieri la domanda a chi mi ascolta — se davvero la conoscenza della lingua inglese da parte degli italiani sia così evoluta come sembrerebbe di poter desumere da certe pubblicità. Don’t worry, be happy letteralmente "non preoccuparti, sii felice" è una delle frasi fatte entrate nell’uso corrente, un po’ come il nostro "vai tranquillo" che era in voga soprattutto qualche tempo fa.

    In una stazione della metropolitana ho trovato un cartellone pubblicitario in cui happy, "felice" è sostituito dal nome di una compagnia di assicurazioni, un nome inglese di due sillabe che assomiglia abbastanza a happy per richiamarlo immediatamente, soprattutto dato il contesto. Mi chiedo quale sia il livello culturale medio di chi viaggia in metropolitana e soprattutto quale sia il suo grado di conoscenza dell’inglese, così da cogliere il messaggio tranquillizzante e rassicurante della pubblicità.

    Poco dopo, sfogliando un quotidiano, ho trovato la pubblicità di un’automobile la cui linea, a forma di cuneo, era descritta come new edge, il "cuneo nuovo". Qui c’è in gioco un cambio di vocale, da new edge a new age, la "nuova era". Il richiamo è evidente per gli inglesi: edge e age si richiamano molto bene a vicenda. Ma per chi inglese non è? Qui però, forse, e diversamente dal caso di prima, si pensa che un’automobile di quel tipo sia destinata a persone di un certo livello economico, che presumibilmente l’inglese lo sanno bene.

    A proposito di new age, anche questo è un termine che è rimasto in inglese. Ne parlo non certo perché condivido quello che considero un falso spiritualismo o una forma di buddismo, ma solo perché è l’ennesimo esempio di come l’inglese viene associato a tutto ciò che è presentato o percepito come promessa per il futuro, come qualcosa di bello e moderno — questo avviene anche (sarei tentato di dire "soprattutto") per quelle che una volta venivano chiamate le "americanate", dalle quali si prendevano le distanze senza lasciarsi soggiogare.

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    Tradurre e no

    Dopo aver trovato un’informazione che mi serviva sul sito Internet del Vaticano ho cominciato a esplorarlo — in inglese: non so perché, probabilmente è una deformazione professionale. In un articolo dell’ultimo numero della Rivista del Giubileo The Jubilee Magazine c’è una citazione da T. S. Eliot tratta da un’opera che era indicata come Chorus From The Fortress.

    Non mi risultava che Eliot avesse scritto una poesia con quel titolo — anzi ho subito sospettato ciò che era effettivamente successo — e ho controllato il testo italiano: i versi citati erano tratti dai Cori da "La Rocca" che in inglese sono i Choruses from The Rock. La traduzione dei versi non era cattiva, ma certamente c’erano delle variazioni rispetto al testo originale e la poesia non era più lei.

    E’ come se io, trovando in un testo inglese un verso di Leopardi tratto da Saturday in the village: "the little girl is coming from the fields" traducessi "Sabato nel paese: la ragazzina ritorna dai campi". Non è accettabile che si dica altrimenti che Il sabato del villaggio: "La donzelletta vien dalla campagna". La sola cosa che il traduttore può e deve fare in questi casi è una ricerca per recuperare il testo originale, l’unico che ha diritto di cittadinanza nella traduzione nella lingua d’origine del testo citato.

    L’episodio fa il paio con quello, di cui vi ho già parlato a suo tempo, accaduto durante la trasmissione televisiva dei funerali di Madre Teresa di Calcutta. Una delle interpreti simultanee ha tradotto una delle preghiere che diceva, più o meno "Donale o Signore la quiete eterna e sia illuminata per sempre..." Qui si richiedeva di riconoscere il Requiem Aeternam e di usare la formula italiana corrispondente: "L’eterno riposo dona a lei o Signore..." La maggior difficoltà nel tradurre e nell’interpretare consiste a volte nell’accorgersi che ci sono riferimenti culturali e citazioni che devono essere restituiti nel testo originale o nella loro formulazione consueta e codificata.

    I traduttori e gli interpreti sono mediatori tra le culture; è un lavoro spesso oscuro, non apprezzato adeguatamente e di cui è facile mettere in luce le eventuali inesattezze; ma dobbiamo a loro la possibilità di accostarci a opere importanti, letterarie o scientifiche, scritte nelle lingue che non conosciamo. Vorrei che ce ne ricordassimo, anche e soprattutto quando mi capita di segnalare qualche svarione e di partire da lì per fornire esempi concreti di difficoltà linguistiche o interculturali.

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    Vecchie tradizioni?

    Mi capita di sentir dire che gli inglesi sono conservatori e tradizionalisti, più di altri popoli d’Europa. Mi domando quanto questo sia vero, quando noi italiani, ad esempio, siamo giustamente affezionati ai nostri carnevali, alle sagre e ai palii (non solo quello di Siena: tanto per restare in zona e in tema di attualità, cito quello di Legnano, ma ce ne sono moltissimi altri). La tendenza attuale è proprio quella di riscoprire e rivitalizzare certe tradizioni folcloristiche che si sono perdute negli anni.

    Una delle ragioni che vengono date per il tradizionalismo degli inglesi è il loro uso di unità di misura diverse dal sistema metrico decimale. Ricordiamoci anzitutto che la ragione è storica: il sistema metrico decimale è stato diffuso in Europa da Napoleone, il grande nemico dell’Inghilterra che è riuscita a sconfiggerlo prima per mare a Trafalgar e poi sul continente a Waterloo. Usare le yarde e le pinte invece dei metri e dei litri è stato un modo per affermare quotidianamente la propria indipendenza politica e culturale rispetto a chi aveva cercato di omologare tutta l’Europa — e non solo l’Europa: ricordiamo la Campagna d’Egitto e la battaglia delle Piramidi.

    Qualcuno parla del sistema delle misure inglesi come di qualcosa di anacronistico, non adeguato all’era tecnologica. In realtà l’ente spaziale americano ha continuato a usare le miglia, i piedi, i pollici, le libbre, ecc. per le spedizioni astronautiche, senza alcun problema: è l’esempio più clamoroso del fatto che non serve il sistema metrico decimale per arrivare sulla Luna — e oltre. Ogni pilota di aereo dà l’altitudine in metri quando parla ai passeggeri in italiano, e in feet, piedi, quando parla in inglese — e il valore che conta, quello che viene fissato nel piano di volo o concordato con le torri di controllo, non è espresso in metri ma in feet.

    Un buon motivo per non cambiare è che la gente è abituata a certe quantità: ogni automobilista inglese sa quante miglia la sua automobile percorre con un gallone di benzina ma ha difficoltà a esprimere i consumi in chilometri per litro. Noi avremmo il problema inverso e tra non molto dovremo abituarci a decidere se ci convenga pagare un libro 35.000 lire o 18 euro (se un Euro vale 1950 lire). Qualcuno farà molta fatica a disabituarsi a ragionare in lire ma questo non vuol dire che sia tradizionalista e conservatore.

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    Positivo e negativo

    Qualche sera fa, parlavo di un canto di soldati della prima guerra mondiale: "Tipperary è lontana" it’s a long way to Tipperary e facevo notare che se qualcosa è lontano si dice che it’s a long way ma nelle domande e nelle frasi negative si preferisce far. Is it far? No, it isn’t very far "è lontano? No, non è molto lontano."

    Non è il solo caso in cui c’è una differenza tra affermazione, da una parte, e interrogazione o negazione dall’altra. Il caso più importante è sicuramente quello di some, che indica "qualche, alcuni, un po’ di": "dammi dell’acqua" give me some water; "alcune canzoni nuove mi piacciono davvero" I really love some new songs; alla forma negativa, in frasi che contengono not o un’altra parola negativa, non si usa some ma any. "Non ci sono notizie" there isn’t any news. Any si usa anche dopo il se dubitativo: "vorrei dei pomodori, se ne avete" I’d like to have some tomatoes, if you have any.

    Nelle frasi interrogative, l’uso di some o any consente di distinguere tra le domande vere e proprie, il chiedere per sapere, con any: "ci sono informazioni sul volo?" Is there any information on the flight? Si usa invece some nelle richieste: "potresti dedicarmi del tempo?" could you spare some time for me? Oppure quando si offre: "vorresti del tè?" would you like some tea? C’è l’attesa di una risposta affermativa.

    In teoria, not any può essere sostituito da no: "non vedo alcun problema" I can’t see any problems potrebbe essere reso anche come I can see no problems. Di fatto le forme con no si usano quasi esclusivamente o all’inizio della frase, per dire "nessuno": "niente nuove, buone nuove" no news is good news o in frasi fatte come "non c’è tempo da perdere" there’s no time to lose.

    Come some, any e no si comportano i loro composti: per le persone abbiamo somebody e someone nelle frasi affermative, nobody e no one per "nessuno" e anybody o anyone negli altri casi; per le cose, something, anything e nothing si comportano allo stesso modo: se chiedo "posso fare qualcosa per te?" dirò can I do something for you? perché è un’offerta di aiuto.

    Anche gli avverbi di luogo somewhere e anywhere, "da qualche parte", e nowhere, "da nessuna parte" seguono lo stesso schema.

    I contrari dei composti con no sono i composti con every: everybody e everyone sono "tutti", riferiti a persone; everything è "tutto" riferito alle cose e everywhere significa "dappertutto."

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    Usi idiomatici

    Italia e Inghilterra, in quanto appartenenti entrambe all’Europa e quindi con una forte base comune di tradizioni e di valori condivisi, coincidono largamente anche negli usi metaforici del linguaggio. "Un mare di guai" è a sea of troubles — a volte ci sono piccole variazioni: "un mucchio di tempo" è heaps of time ossia, alla lettera "mucchi di tempo". Nel caso di "porre una domanda" e raise a question la divergenza tende ad annullarsi in quanto anche in italiano ora molti preferiscono "sollevare un quesito o una questione."

    E’ curioso notare che in tutte le lingue una domanda è trattata come un oggetto che si mette: in italiano, francese e spagnolo si "pone" — e a volte si aggiunge proprio "sul tappeto:" la si depone sul tavolo come un oggetto che si rende visibile a tutti e ci interpella. In tedesco, con eine Frage stellen, si specifica che la si mette in piedi, ossia la si colloca in posizione verticale, e in inglese la si solleva e innalza (ripeto: raise a question), e normalmente una volta sollevata non si accetta che si possa lasciarla cadere — in inglese, per lasciar cadere un argomento si dice drop a subject. C’è poi chi fa cadere le parole dall’alto, per enfasi, mentre in inglese drop a hint è fare un accenno a qualcosa come forma di suggerimento.

    Oltre che come oggetti, le parole e le frasi sono trattate come cibo, anche se non sempre i sapori coincidono: le "parole aspre" sono bitter words (letteralmente "parole amare"); anche i suoni possono essere dolci o aspri, e le consonanti dure o molli. Il fatto che il cibo entri dove le parole escono ha facilitato sicuramente il sorgere di tutta questa serie di metafore. Ma in inglese un suono può essere aguzzo e tagliente a sharp sound come un coltello a sharp knife, e in entrambe le lingue la voce può essere piatta a flat voice. Nel linguaggio musicale ritroviamo sharp, che non significa più "aguzzo, tagliente" ma indica il diesis, l’innalzamento di un semitono, e flat corrisponde invece al bemolle, all’abbassamento di un semitono.

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    Lire ed euri

    Qualche sera fa parlavo di tradizionalismo e di resistenza al cambiamento e citavo la difficoltà ad abituarsi a nuove unità di misura — valgono di più 35.000 lire o diciotto euro? Il giorno dopo ho sentito una notizia secondo cui alcuni accademici hanno fatto notare che dire 18 euro è sbagliato. Come non diremmo 18 marco o franco o corona o fiorino ma parliamo di marchi, di franchi, di corone e di fiorini, così dovremmo parlare di euri. Da un certo punto di vista l’osservazione non fa una grinza, ma a me euri suona male e se tutti useranno euro anche al plurale come nome invariabile, quella sarà la regola.

    Comunque, la questione degli euro o degli euri non è la più grave che dovremo affrontare nel corso dell’integrazione europea. Gli inglesi dicono [ju:rou] e [ju:rouz] al plurale — [ju:rou] è la pronuncia del prefisso che troviamo in molte parole: eurocrat, che è l’eurocrate; eurobond, l’euroobbligazione, eurodollar, l’eurodollaro e Eurovision l’Eurovisione. Ora si parla poco di eurocomunismo ma eurocommunism è un vocabolo registrato sui dizionari inglesi. Ci sono poi almeno due aggettivi: eurocentric ossia eurocentrico, e eurosceptic che è l’euroscettico, detto di chi non crede ai vantaggi dell’unione europea. Infine alcune parole sono identiche nella grafia e nel significato: eurocheque che in italiano si scrive allo stesso modo ma si pronuncia diversamente, così come Eurodisney e Eurotunnel.

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    Tempo libero

    A proposito di vacanze, la parola inglese più usata è holiday, una parola nota sia per la catena di alberghi Holiday Inn che per lo spettacolo Holiday on Ice, la "vacanza sul ghiaccio". Un tempo la parola holiday indicava la festività, in particolare quella religiosa, e in effetti deriva da holy day, giorno sacro.

    Gli americani per indicare le ferie usano forse più spesso la parola vacation. In entrambi i casi per "in vacanza" si usa la preposizione on: on holiday, on vacation. E a questo proposito ricordo che on è la preposizione che usiamo anche in altri casi per indicare lo scopo: "viaggiare per affari" è travel on business.

    Vacation non va confusa con vacancy che è la "vacanza" nel senso di posto libero, posto vacante — può essere un posto di lavoro ma la parola vacancy la vediamo più spesso nei film, nelle insegne all’esterno dei motel per indicare se ci sono camere libere VACANCIES oppure NO VACANCIES.

    E già che siamo su questo tema rilassato e rilassante, parliamo del tempo libero. Nel senso di tempo dedicato al riposo e al prendersela comoda, si parla di leisure. Il tempo libero invece che qualcuno riesce a ritagliarsi, magari per fare altro rispetto alle normali occupazioni, è lo spare time, il tempo messo in disparte, risparmiato. Ritorna la metafora del tempo come denaro, di cui abbiamo già parlato. Vediamo un esempio: "se hai del tempo libero, leggi questo libro" if you have some spare time (oppure some time to spare), read this book.

    In quanto ai luoghi di villeggiatura, si dice at the seaside, "al mare" e in the mountains "in montagna" — avrete notato la diversa preposizione, at per il mare e in per la montagna o, più letteralmente, le montagne. Questo con i verbi che indicano essere, stare, soggiornare; con i verbi di moto si usa to: "vai in montagna o al mare?" are you going to the mountains or to the seaside? E avrete notato anche che il mare the sea diventa the seaside nel senso di località marina di soggiorno.

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    La ragnatela mondiale

    Ogni tanto ci capita di parlare di Internet, di questa rete delle reti telematiche che negli ultimi anni ha assunto un ruolo importante nel flusso delle informazioni, mettendo in moto anche innumerevoli iniziative di carattere commerciale e creando posti di lavoro.

    La quantità di computer collegati nel mondo è ormai tale che per cercare i siti che interessano si fa uso dei cosiddetti "motori di ricerca", search engines, ossia di archivi e programmi che organizzano le informazioni in un certo numero di categorie e soprattutto consentono di immettere alcune parole-chiave per trovare quello che si cerca.

    Uno di questi motori di ricerca ha un nome latino, ALTA VISTA, ma gli altri hanno nomi inglesi. Yahoo è un’interiezione che esprime giubilo, soprattutto quando si trova qualcosa: in italiano "evviva!", in greco "eureka!". Gli Yahoos nei Gulliver’s Travels, I Viaggi di Gulliver, sono dei bruti che rappresentano la personificazione dei vizi umani. Ma non è questo il senso in cui viene usata la parola su Internet. Ho scoperto di recente che alcuni informatici dicono [iaò] invece di Yahoo, ma chi mi ascolta sa ormai che da noi il finto inglese è la regola, non l’eccezione, in molti ambienti. E a proposito di pronuncia, in inglese eureka è [ju:ri:ka]— che è anche il motto dello stato della California e il nome di una città americana, sul Pacifico nella stessa California e di una contea nel Nevada centrale. E qui la scoperta a cui si fa riferimento non è la legge di Archimede ma le miniere d’oro.

    Un altro motore di ricerca si chiama gopher, che è il nome di un roditore americano molto simile alla talpa e altrettanto nocivo per le coltivazioni; con la talpa ha in comune l’abitudine di scavare sotto la superficie — di qui la metafora. Il nome gopher è a volte usato anche per altri due animali: un tipo di tartaruga e un simpatico scoiattolino di terra che ha la caratteristica di avere un mantello striato con tredici righe più scure.

    L’uso di parole familiari per prodotti con un altissimo contenuto tecnologico è tipico di un settore che vuole essere user-friendly, ossia amichevole verso l’utente, per favorire la diffusione di questi nuovi strumenti e cancellare l’immagine che una grande rete computerizzata può dare di sé come strumento di controllo e di limitazione della libertà individuale.

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    L’inglese del computer

    Questa sera continuo l’esplorazione dei termini inglesi nel mondo dell’informatica. Come si diceva ieri sera, si tratta spesso di parole familiari e amichevoli, che mirano a tranquillizzare gli utenti di quelli che fino a non tanto tempo fa venivano chiamati "cervelli elettronici" e di cui si temeva la capacità di disumanizzazione.

    Il caso forse più evidente di nome familiare è quello del frutto più comune, la mela, dato al primo computer domestico e alla ditta che lo produce, Apple. Anche la successiva generazione dei computer della stessa ditta ha il nome di una mela californiana, Macintosh.

    La storia si ripete con uno degli ultimi linguaggi di programmazione, Java, che è il nome dell’isola più popolosa dell’Indonesia ma che nelle case americane è un tipo di caffè tra i più diffusi.

    A proposito dei linguaggi di programmazione, alcuni hanno preso nome da personaggi famosi, come Pascal, il grande pensatore cristiano e matematico francese inventore di una delle prime macchine calcolatrici, e Ada — da Augusta Ada King, Contessa di Lovelace e figlia di Lord Byron, che aveva lavorato come assistente di Charles Babbage allo sviluppo del suo analytical engine o "motore analitico" e che si presume sia stata il primo programmatore di computer del mondo.

    E accanto a sigle come HTML, del tutto misteriose per chi non ne conosce il significato, ce ne sono altre come BASIC che formano una parola facile e comune. HTML sta per hypertext markup language ossia "linguaggio per la costruzione di ipertesti", ossia per aggiungere a un testo i collegamenti (links) ad altri testi; è il linguaggio su cui si basano le pagine web su Internet.

    BASIC sta (o stava, perché ormai la programmazione in BASIC è obsoleta) per Beginners’ All-Purpose Symbolic Instruction Code, un codice code simbolico symbolic di istruzione instruction che è generico, per tutti gli usi all-purpose e adatto ai principianti beginners. È un bell’esempio sia di come si pensa una sigla e poi le si costruisce sopra un significato, sia della costruzione a sinistra tipica dell’inglese, ove la parola-nucleo è l’ultima (il BASIC è un codice) e tutte le altre la precedono, sono premodificatori.

    Da una parte le mele e il caffè, dall’altra le sigle indecifrabili; l’analisi linguistica del mondo dell’informatica rivela le suggestioni che vengono trasmesse a coloro che vi si accostano — e alcune di queste fanno riflettere sui pericoli di manipolazione delle coscienze.

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    Un po’ di ‘98

    Andando alla ricerca di cose da raccontarvi sull’inglese e sui paesi in cui si parla inglese, ho pensato che poteva essere una buona idea andare a vedere i centenari che ricorrono in questo 1998. Non ho trovato moltissimo ma alcuni fatti storici e culturali meritano di essere ricordati.

    Ad esempio, il 22 luglio 1298 si combatté la Battaglia di Falkirk, località vicina a Stirling in Scozia, e fu una delle prime vittorie degli inglesi di re Edoardo I contro la resistenza scozzese. guidata da Sir William Wallace, che si opponeva alla sovranità inglese. È solo un episodio di una lotta che durerà fino al 1603, quando un unico sovrano riunirà le due corone.

    Saltiamo a due secoli dopo e nel 1498 siamo nel pieno delle grandi spedizioni geografiche. È l’anno del terzo viaggio di Colombo (per gli inglesi, Christopher Columbus) che scopre Margarita, Trinidad e Grenada e raggiunge le coste del Sudamerica. Ed è l’anno della seconda spedizione di Giovanni Caboto (John Cabot) in America — una spedizione dall’esito infausto: scomparsa nel nulla, non se ne è mai più trovata traccia. L’anno prima Caboto era stato a Terranova Newfoundland, che in seguito sarebbe diventata uno dei territori del Canada; sempre nel 1498 il portoghese Vasco da Gama raggiunge Mombasa e l’India, che poi sarebbe diventata colonia britannica.

    Cento anni dopo, nel 1598, siamo in piena Inghilterra elisabettiana: è l’anno in cui Christopher Marlowe scrive Hero and Leander (Ero e Leandro) e probabilmente quello in cui William Shakespeare scrive Much Ado About Nothing (Molto rumore per nulla).

    In quell’anno, John Florio, un lessicografo inglese di origine italiana, produce un dizionario Italiano-Inglese intitolato A Worlde of Wordes ossia "Un mondo di parole." è un grande dizionario, con circa 46.000 definizioni. Inoltre Florio è importante per la sua traduzione dal francese dei Saggi di Montaigne. Per vari aspetti, quindi, chi fa il mio mestiere lo considera uno dei primi grandi esperti specialisti della materia.

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    La Pentecoste

    Domenica sarà la festa di Pentecoste, Pentecost, il giorno della discesa dello Spirito Santo the Holy Spirit sugli apostoli. Fino a qualche tempo fa — e il nome è tuttora usato da alcune chiese protestanti — invece della parola di origine latina spirit si adoperava di preferenza la parola germanica ghost, che ora si usa soprattutto per indicare il fantasma, anche in espressioni come ghost town, una città disabitata — tipicamente, una di quelle del Far West abbandonate dopo che le miniere della zona si sono esaurite. Ghostwriter è chi scrive testi che vengono pubblicati o come testi redazionali anonimi o attribuiti a qualche autore che li ha commissionati.

    Ma torniamo alla festività religiosa: anche lei oltre a Pentecost ha un nome tradizionale di origine germanica, Whitsunday che deriva da White Sunday, domenica bianca. Siccome, se non ricordo male, il colore liturgico della Pentecoste è il rosso, probabilmente il nome deriva dal colore delle vesti di coloro che venivano battezzati in questa domenica, che nella tradizione inglese e di altri paesi del nord aveva preso il posto della Pasqua come festa propizia per accogliere nella Chiesa i nuovi cristiani. E ancora una volta la popolarità della Pentecoste associa motivi religiosi — l’attenzione alla terza Persona della Trinità — a motivi pratici: la speranza di un tempo migliore verso la fine maggio rispetto a quello che si ha di solito tra marzo e aprile.

    La settimana che inizia con Whitsunday è detta Whitsuntide e tradizionalmente, come dicevo qualche sera fa, il lunedì di Pentecoste, Whitsun Monday, era una delle Bank Holidays o feste civili. Da festa mobile è diventata festa fissa l’ultimo lunedì di maggio. Lunedì scorso in Inghilterra e Irlanda è stato un lunedì del tutto simile al lunedì dopo Pasqua: negozi chiusi e gente in gita. In altri paesi, soprattutto dell’area germanica, la festa sarà lunedì prossimo.

    Faccio notare che per gli inglesi la domenica è il primo giorno della settimana e non l’ultimo e concludo con una piccola curiosità geografica: molti sanno che nell’Oceano Pacifico c’è l’Isola di Pasqua; pochi sanno che, come è giusto, c’è anche l’Isola di Pentecoste: si trova nel Mare dei Coralli, non lontano dalla costa dell’Australia.

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    Altri centenari

    Una delle conversazioni di settimana scorsa l’ho dedicata al 98 cioè a alcuni avvenimenti della storia inglese di cui quest’anno ricorre il centenario. Stasera riprendo col 1798. Tanto per inquadrarlo, ricordo che era l’epoca dei grandi successi di Napoleone; in particolare, il 98 è stato l’anno della campagna d’Egitto. E visto che l’argomento delle tasse è di stagione, ricordo che l’imposta sul reddito fu introdotta in Inghilterra proprio quell’anno 1798 (e proprio per finanziare le guerre contro Napoleone) dal primo ministro William Pitt the Younger, William Pitt il Giovane.

    In Italia in quell’anno nasceva Giacomo Leopardi mentre Ugo Foscolo pubblicava già Le ultime lettere di Jacopo Ortis.

    In Inghilterra vengono pubblicate due opere diversissime tra loro ma entrambe molto importanti: la prima sono le "ballate liriche," le Lyrical Ballads di Coleridge e Wordsworth, considerate il primo grande libro di poesia romantica, una specie di "manifesto" letterario. L’altro libro è la prima edizione del saggio sul principio di popolazione, Essay on the Principle of Population di Malthus. È il saggio di economia politica che espone il principio, che dal nome dell’autore è stato detto maltusianesimo, secondo cui la popolazione cresce più delle risorse alimentari che servono per sostenerla. La teoria è superata ma comunque quello fu l’inizio della demografia.

    A proposito di stampa, al 1798 risale anche l’invenzione della litografia per la riproduzione dei disegni, mentre un medico inglese, Edward Jenner, sperimenta le prime vaccinazioni antivaiolose.

    In Inghilterra siamo già in piena Rivoluzione Industriale, con i primi esperimenti di produzione in serie di macchinari. Anche negli Stati Uniti nascono le prime fabbriche moderne, in particolare per la produzione di armi.

    Ci sarebbero tante riflessioni da fare a proposito di questa coincidenza di date tra la nascita della poesia romantica e la nascita delle fabbriche e dei ghetti operai, gli slums delle città industriali, ma il discorso ci porterebbe lontano; così come dobbiamo rinviare a una delle prossime conversazioni l’ultimo centenario, il 1898.

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    Cent’anni fa

    Proseguendo nella rassegna dei centenari giungiamo all’ultimo, al 1898. E’ la belle époque ma la Francia "fin de siècle", di fine secolo, è anche la Francia della scoperta proprio nell’anno 1898 del radio e del polonio da parte dei coniugi Marie e Pierre Curie. I dizionari riportano questa come data di nascita della parola radioactive, "radioattivo". C’è anche la scoperta dello xenon e di altri gas rari attraverso il frazionamento dell’aria liquida. A Parigi si comincia a scavare per il Métro e nelle Alpi ha inizio il traforo della galleria del Sempione che sarà completata nel 1906. Tra le invenzioni, qui alla radio non possiamo non ricordare il primo registratore magnetico, che non registrava su nastro ma su filo.

    In Inghilterra la Regina Vittoria, Queen Victoria che nel 1876 si era fatta nominare Imperatrice dell’India Empress of India, regnava da 61 anni e avrebbe regnato per altri tre, fino al 1901, dando il suo nome all’età vittoriana, the Victorian Age.

    È l’anno in cui Italo Svevo pubblica "Senilità", subito tradotto in inglese come As a Man Grows Older, letteralmente "man mano che un uomo invecchia". In Inghilterra esce "La guerra dei mondi" The War of The Worlds di Wells, uno dei primi scrittori di fantascienza. Non esce invece, perché parla troppo esplicitamente di prostituzione e per questo viene censurata, la commedia di George Bernard Shaw Mrs Warren's Profession, "La Professione della Signora Warren."

    Stiamo celebrando una serie di centenari di persone nate nel 1898 e che hanno avuto un notevole rilievo nel nostro secolo; tra i letterati, l’inglese C. S. Lewis e l’americano Ernest Hemingway. Poi il compositore americano George Gershwin e lo scultore inglese Henry Moore. Tra le persone molto note negli Stati Uniti c’è Amelia Earhart, pioniera dell’aviazione, prima donna pilota a trasvolare l’Atlantico (nel 1932).

    Sempre per quanto riguarda gli Stati Uniti, il 1898 è l’anno della corsa all’oro nel Klondike e dell’annessione delle isole Hawaii e Marianne.

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    Case e terreni

    Tra gli anniversari del ’98 di cui non ho parlato le volte scorse c’è l’annessione di Hong Kong nel 1898, o meglio l’estensione della colonia con l’acquisizione dei territori sulla terraferma per 99 anni da parte dell’Inghilterra. Come ricorderete, l’intera ex-colonia è ritornata alla Cina l’anno scorso perché era scaduto il termine massimo durante il quale, secondo una legge inglese, si può avere in affitto o in concessione una proprietà terriera; anche il possedimento inglese di quel territorio era infatti un caso di leasing.

    Nel diritto inglese si distinguono, tra i contratti immobiliari, quelli che comprendono la proprietà del terreno e quelli limitati alla proprietà della casa.

    Nel primo caso, il freeholder o libero proprietario è l’equivalente del feudatario — in effetti per la sua proprietà si usa il termine fee, che un tempo indicava il feudo. Chi non ha la proprietà del terreno è un householder, proprietario di casa, o tenant, che in questo caso non è propriamente l’affittuario. Il diritto anglo-americano che distingue la proprietà del suolo da quella delle casa che c’è costruita sopra è molto diverso dal nostro.

    La parola fee, il feudo, ha acquisito anche il significato di "onorario", di somma pagata a un professionista per le sue prestazioni. A titolo di curiosità, e per indicare quanto le parole possano trasformarsi nei secoli, sia nella forma che nel significato, dirò che fee ha la stessa origine del latino PECUS-PECORIS (da cui PECUNIA); si risale a un’epoca in cui il capitale tipicamente era rappresentato dal bestiame posseduto e talvolta usato come bene di scambio.

    La parola che più assomiglia all’italiano proprietà, e cioè property, si riferisce specificamente ai beni patrimoniali, soprattutto immobili; invece il concetto giuridico di proprietà è espresso dal termine ownership, che viene dal verbo own, “possedere, essere proprietario”, e owner è colui che owns, il proprietario. Il suffisso –ship non ha niente a che vedere con la nave, anche se ha la stessa grafia, ma semmai con shape, la forma, e serve per ottenere nomi astratti da nomi concreti, soprattutto nomi di persona: così amico e amicizia in inglese sono friend e friendship.

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    Giugno

    Siamo ormai nel mese di giugno, in inglese June, che è anche un nome femminile, così come April e May, aprile e maggio, mentre March, marzo, è anche un nome maschile. Non solo i nomi di persona, ma anche i mesi in inglese si scrivono con l’iniziale maiuscola. L’autrice di Piccole Donne Little Women si chiamava Louisa May Alcott.

    Nomi femminili tipicamente inglesi sono quelli di virtù come Prudence, la prudenza o Temperance la temperanza; invece nomi come Grace, Grazia (pensiamo a Grace Kelly, la principessa Grace di Monaco) e Joy, Gioia come Joy Adamson li abbiamo anche da noi. Così come comune è l’uso dei nomi di santi e dei personaggi biblici. Questi ultimi hanno avuto un’ulteriore diffusione nei paesi di lingua inglese con la riforma protestante e la diffusione della Bibbia. La presenza di questi nomi è a volte meno appariscente perché non solo nella vita familiare ma anche in quella pubblica si usano spesso i nicknames, ossia i nomignoli — anche il presidente americano è chiamato Bill molto più spesso che William.

    E sempre restando nell’ambito dei Presidenti degli Stati Uniti, Lincoln si chiamava Abraham, un nome biblico frequente nelle famiglie protestanti, mentre da noi Abramo è usato soprattutto dagli appartenenti alla comunità ebraica.

    March è anche un nome comune, che significa la marcia e che ha la stessa forma del verbo march , marciare. La “marcia nuziale” è la wedding march. March è anche, come termine storico, la "marca", ossia una contea di confine, più grande e più importante delle altre. Da noi il termine è rimasto per la regione delle Marche, per la Marca Trevigiana e per qualche altra. Il marchese, che è il feudatario a capo di una marca, in inglese è il marquis scritto come in francese oppure con -ess finali; il femminile, madama la marchesa, è marchioness. In un paese retto a monarchia come il Regno Unito i titoli nobiliari non sono solo onorifici come da noi ma danno titolo ad accedere alla Camera dei Lord The House of Lords. Nella gerarchia nobiliare il rango del marquis è inferiore a quello del duca, duke, e superiore a quello del conte, earl.

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    I nomi alterati

    Ritorniamo stasera su una caratteristica della lingua italiana che non ha un diretto corrispondente in inglese, ossia i nomi alterati: i diminutivi e vezzeggiativi, come ragazzino e ragazzetto, gli accrescitivi come ragazzone e i peggiorativi come ragazzaccio. Da una parola ne ricaviamo molte altre che ne modificano un po’ il significato — da libro abbiamo libriccino, libretto, librino, librone, libraccio, libercolo.

    In inglese di solito non troviamo i suffissi — booklet per “libriccino” è una delle poche eccezioni — ma si usano gli aggettivi appropriati: un “librone” è un big book e un ragazzaccio è un bad boy.

    Ci sono un paio di aspetti importanti collegati a questo fatto. Il primo è che dobbiamo ricordarcene quando traduciamo dall’inglese: una little girl è una “ragazzina”, non una “piccola ragazza”; a bad day è una “giornataccia”, più che una “giornata cattiva”. Non sempre, naturalmente, ma il più delle volte la resa migliore dell’espressione inglese che contiene l’aggettivo big o little o bad è un nome alterato italiano.

    Il secondo punto riguarda i nomi alterati che hanno acquisito un loro proprio significato, solo parzialmente legato alla parola di origine. Se si parla di opera lirica, il “libretto” non è un libro piccolo ma il testo delle arie e dei cori. In inglese si usa la parola italiana libretto, uno dei tanti prestiti dalla nostra lingua che troviamo quando si parla di musica.

    Un “finestrino” non è una finestra piccola ma una finestra che si trova su un veicolo. Ci sono finestrini di treni che sono più grandi di certe finestre di piccole dimensioni, ma quelli dei treni e delle auto sono “finestrini” e quelle delle case sono “finestre” — tutt’al più “finestrelle”. In inglese window è la “finestra”, il “finestrino” e anche la “vetrina” del negozio. Sappiamo che “fare la spesa” è go shopping. Window shopping è “l’andare per vetrine”, il tipo meno dispendioso di shopping.

    Concludo con il diminutivo di cui si parla di più da qualche tempo, il telefonino, che in inglese è semplicemente il telefono portatile o cellularemobile, portable o cellular phone. Se dite little telephone gli inglesi non vi capiscono.

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    Testi letterari e non

    La letteratura inglese è stata ricca, in ogni epoca, di grandi autori — da Chaucer a Milton ai premi Nobel più recenti come Golding e Heaney — autori che ci hanno fornito una galleria impressionante di personaggi immortali, ormai patrimonio comune dell’umanità: dall’Amleto di Shakespeare alla resa drammatica dell’Assassinio nella Cattedrale di San Tommaso Beckett ad opera di T. S. Eliot. Fino a non molto tempo fa, il motivo principale per cui si studiavano le lingue era il desiderio di accostarsi ai capolavori letterari nella lingua originale, come testimonia il fatto che ancora oggi nelle università italiane le cattedre di letteratura inglese si chiamano Lingua e Letteratura Inglese, come se la lingua fosse un’appendice marginale.

    Oggi il maggior interesse per la lingua inglese è dato dalla produzione non letteraria. Un dato pubblicato un paio d’anni fa riporta che ci sono nel mondo circa centomila riviste scientifiche, alcune delle quali saltuarie e di scarsa consistenza ma altre con dimensioni notevoli. Nel 1980 la rivista di Fisica Physics Review ha pubblicato trenta milioni di parole. Per darvi un paio di termini di paragone, queste mie conversazioni serali sono di circa 400 parole, mentre un grosso romanzo come “Orgoglio e Pregiudizio”, Pride and Prejudice di Jane Austen, si compone di circa 123.000 parole.

    Mi è stato chiesto dove vado a prendere notizie di questo genere. Dipende: quella sulle riviste scientifiche si trova in un libro sull’analisi computerizzata del linguaggio. Invece per contare le parole in un testo disponibile in versione elettronica basta un normale programma di videoscrittura.

    L’analisi computerizzata sta rivelando dati sorprendenti: l’uso effettivo della lingua nella vita quotidiana è in qualche caso molto diverso dall’impressione che ne hanno sempre avuto gli studiosi di linguistica e dalla descrizione sulle grammatiche per la scuola.

    C’è un rinnovamento dei dizionari e dei testi scolastici che per certi aspetti è altrettanto notevole e significativo quanto i cambiamenti in altri campi della vita moderna: i libri dell’ultima generazione sono l’equivalente delle auto catalizzate, delle comunicazioni satellitari e della chirurgia dei trapianti. Non sempre l’adozione di nuovi libri di testo nelle scuole risponde a una logica puramente commerciale. Qualche volta può essere vero, ma ci sono costantemente dei passi in avanti. I genitori che fanno usare ai figli dizionari di trent’anni fa è come se gli facessero vedere la TV in bianco e nero — anzi, peggio: come se gli facessero vedere solo i programmi di trent’anni fa.

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    Parliamo di TEST

    Una delle parole inglesi entrate saldamente nell’uso italiano è la parola test; quando vennero introdotte da noi le prove di intelligenza è stata proposta la parola reattivo per indicare il test psicologico ma la proposta ha avuto scarso esito.

    La parola test in inglese ha un uso più ampio che in italiano: ad esempio, significa anche “collaudo”, e un test pilot è un “collaudatore”. La prova su strada di un veicolo è una test drive; test tube è la “provetta” usata in chimica e biologia, e da questa espressione deriva test-tube baby, “bambino in provetta”. Blood test è “l’analisi del sangue”. Il monoscopio, l’immagine fissa trasmessa da una stazione televisiva, si chiama test pattern, disegno di prova o schema di verifica.

    Test è il verbo corrispondente, che significa “accertare, controllare, collaudare, saggiare, provare o verificare”. Con questa abbondanza di verbi italiani, pur avendo scritto centinaia di pagine sulle prove di controllo del profitto in lingua straniera, non ho mai sentito il bisogno di usare il verbo testare — faccio anche fatica a dirla, questa parola. Ma riconosco che è solo un mio punto di vista, e ormai è una parola registrata nei dizionari e di cui molti non vogliono fare a meno.

    Riprendo un paio di espressioni che ho usato poco fa per parlare della parola che accompagna test. La prima è blood, il sangue, che insieme a flood, l’inondazione, si pronuncia col suono di much love pur essendo scritta con due o. La seconda è la parola pattern che avevamo trovato nel monoscopio, test pattern. Ha un suo significato-base di “modello, schema fisso, struttura” — cioè indica qualcosa che si riconosce come rappresentazione di qualcosa di più complesso. Ecco allora che pattern è un campione di stoffa da cui si vedono il colore e soprattutto il disegno; in linguistica pattern è un tipo di frase che ha una certa struttura sintattica e i cosiddetti “esercizi strutturali” per fissare certi schemi grammaticali — si usano soprattutto nel laboratorio linguistico — in inglese si chiamano pattern drills.

    Con pattern abbiamo quindi una parola di uso comune ma che può essere difficile rendere in italiano: non è esattamente e sempre un modello — non è completamente sinonimo di model; non è nemmeno propriamente una struttura, structure, né un disegno nel senso di design. E’ una di quelle parole che possiamo capire solo lasciandoci guidare dal contesto in cui sono usate. E’ il testo che dà il senso alle parole, più di quanto le parole non diano senso al testo.

    Se vogliamo un esempio, pensiamo alla parola dolce nel contesto della serata musicale condotta da F. L.; è un dolce che dà calore ma non calorie.

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    Alcuni cinquantenari

    Dopo aver esplorato in alcune precedenti conversazioni i centenari che ricorrono nel 1998 desidero dire qualcosa anche dei cinquantenari, ossia di alcuni tra i principali eventi dell’anno 48 dei vari secoli. Nel nostro secolo, nel 1948, sarebbero troppe le cose da ricordare. Per quanto riguarda la Gran Bretagna è l’anno dell’indipendenza della Birmania e dello Sri-Lanka (che allora si chiamava Ceylon), e dell’assassinio di Gandhi. Per un grande indiano che se ne va ce n’è un’altra che prende la cittadinanza, Madre Teresa di Calcutta.

    E’ anche l’anno in cui l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite promulga la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. E in quanto ai diritti della donna, nello stesso anno l’università di Cambridge riconosce loro pari dignità accademica — anche se colleges femminili esistevano già da circa un secolo.

    Andiamo indietro di un secolo, a quel 1848 in cui nell’Europa continentale, Italia compresa, è successo un quarantotto: rivoluzioni, guerre d’indipendenza, Manifesto Comunista, e così via. La storia inglese è invece particolarmente povera di eventi; il sovrano regnante, da undici anni, è la Regina Vittoria, allora quasi trentenne. Si segnalano la prima legge britannica sulla sanità pubblica e la scoperta di John Snow che collega il colera con l’acqua inquinata.

    John Stuart Mill pubblica i suoi Principles of Political Economy, Principi di Economia Politica e un gruppetto di giovani artisti fonda la Pre-Raphaelite Brotherhood, la fraternità dei Pre-Raffaelliti, con l’intento di riportare nell’arte la sincerità e semplicità della pittura italiana prima di Raffaello.

    Nel 1848 negli Stati Uniti termina la guerra con il Messico e un immigrato svizzero, di cognome Sutter, trova l’oro; la voce si diffonde e l’anno dopo lo seguiranno nella corsa all’oro coloro che verranno chiamati forty-niners, quelli del 49.

    A New York la Associated Press avvia il primo servizio di raccolta e diffusione di notizie su scala mondiale.

    Nella nostra esplorazione dei cinquantenari che riguardano i Paesi di lingua inglese andiamo a ritroso nel tempo. Ieri sera ho parlato del 1948 e del 1848 e stasera inizio con il 1748. E’ l’epoca in cui le grandi monarchie europee si disputano il dominio del continente e delle colonie; in quell’anno, in particolare, si conclude la Guerra di Successione Austriaca con il Trattato di Aix-la-Chapelle. All’interno di questa guerra vi fu in America la cosiddetta Guerra di Re Giorgio, con la conquista di Louisburg sull’isola di Cape Breton da parte di una forza che vedeva assieme la British Navy, la Marina britannica, e un contingente del New England. Siamo ancora nell’epoca che precede la Dichiarazione di Indipendenza delle colonie americane. Nel 1748 il forte venne restituito alla Francia in cambio di Madras, in India.

    Per quanto riguarda l’Italia, il 1748 è ricordato anche per l’inizio degli scavi di Pompei e per la pubblicazione dei volumi di matematica di Maria Gaetana Agnesi.

    Andando indietro di un secolo, nel 1648 l’Inghilterra è in piena guerra civile tra i sostenitori della Monarchia, i Cavaliers, e quelli del Parlamento, i Roundheads — letteralmente, "teste tonde" perché i Puritani detestavano le capigliature lunghe e folte dei loro avversari. Nel 1648 fu catturato il re Carlo I Charles the First, che sarebbe poi stato giustiziato l’anno successivo, quando Cromwell fondò la Repubblica o Commonwealth.

    Sul continente, il 1648 è l’anno del Trattato di Westfalia che pone fine alla Guerra dei Trent’anni e, per certi aspetti, alla Controriforma. In India, è l’anno del completamento del Taj Mahal, il bellissimo mausoleo di Agra.

    La parola Commonwealth la troviamo due volte nella storia inglese: per il periodo della repubblica parlamentare, dal 1649 alla Restaurazione della monarchia nel 1660, e nel nostro secolo per indicare l’associazione delle ex- colonie e dominions britannici con l’ex-madrepatria. Commonwealth significa letteralmente "ricchezza comune", ossia i beni di tutti — corrisponde quindi a Repubblica che è la RES PUBLICA — di nuovo, i beni di proprietà pubblica.

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    Topi di mediateca

    L’aggeggio vagamente a forma di topo che serve per manovrare i computer delle ultime generazioni da molti in Italia viene chiamato [mauz] con la s finale sonora come quella di “rosa”; in inglese inglese il topo — elettronico e non — si chiama mouse con la -s finale sorda come la s di “sera”. La differenza non è di poco conto, perché in inglese i due suoni della s italiana sono consonanti diverse: un conto è dire ice, con la S sorda, che è il ghiaccio, e un altro è dire eyes, che sono gli occhi. Di esempi ce ne sarebbero tanti — ne do solo un paio: Grace — come Grace Kelly, di cui si parlava qualche sera fa — e che è la Grazia, termina per S mentre graze che è il verbo che significa “brucare l’erba” termina per Z. Pens sono le penne, mentre pence sono i centesimi di sterlina.

    La distinzione non opera solo in fondo alle parole: in posizione iniziale, seal, che è la foca oppue il sigillo, va tenuta ben distinta da zeal che è lo zelo e lo stesso discorso vale per tutte le posizioni. Noi italiani abbiamo difficoltà perché per noi [kiuso] e [kiuzo] per CHIUSO, [kasa] e [kaza] per CASA sono varianti regionali della stessa parola e non due parole diverse.

    Un’altra difficoltà deriva dal fatto che, come spesso càpita per l’inglese, la grafia delle parole non ci aiuta. Nel caso specifico, le parole che terminano per -se a volte terminano con un suono di s come il mouse e house, la casa, mentre altre volte hanno una z finale: la rosa è rose, il verbo "sorgere" è rise, eccetera. Possiamo però dare un paio di regole.

    La prima è che se la terzultima lettera è una consonante, la pronuncia di solitò è s: “falso” si dice false e “tempo” (nel senso di tempo grammaticale di un verbo) si dice tense. Questo vale anche se la consonante non è pronunciata, come la r nella parola horse, il “cavallo”.

    La seconda regola riguarda le parole che hanno più di un ruolo grammaticale, cioè sono nomi e verbi oppure aggettivi e verbi. In molti di questi casi il verbo è pronunciato con la [z] sonora: use [ju:z] è il verbo usare, mentre use [ju:s] è l’uso o l’utilità; close [klouz] è il verbo chiudere, mentre close [klous] è aggettivo — a close friend è un amico intimo.

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    Esse sonora e esse sorda

    Ieri sera ho detto una cosa sulle consonanti inglesi che non a tutti è risultata abbastanza chiara e quindi torno sull’argomento della pronuncia delle s. La differenza che c’è tra la s di [kaza] come la dico io e la s di [kasa] come si dice in Toscana e in italiano standard è esattamente la stessa differenza, dal punto di vista fonetico, che c’è tra la B di “basta” e la P di “pasta”, o tra la V di “vino” e la F di “fino”. Il fatto è che nella nostra lingua non abbiamo coppie di parole che si distinguono solo perché in una la s è sonora e nell’altra è sorda: il [sole] è il Sole — se qualcuno dice [zole] probabilmente è straniero, pronuncia male quella parola ma non ne sta dicendo un’altra. E invece se in inglese dico bus è l’autobus, mentre buzz è il ronzio, sip è il sorso e zip è la cerniera lampo, racer è il motoscafo da corsa e razor è il rasoio. Di proposito ho dato tre esempi in cui l’opposizione la troviamo all’inizio delle parole, sip zip, all’interno racer razor e in posizione finale bus buzz.

    Per fortuna le possibilità di fraintendimenti non sono molte, in nessuna lingua: i casi come "pagare il fitto" e "pagare il vitto" sono abbastanza rari e di solito il contesto aiuta; in frasi come Can I use your phone? (posso usare il tuo telefono?) e it’s no use crying over spilt milk (non serve piangere sul latte versato) la differenza tra use [ju:z] verbo e use [ju:s] nome è meno cruciale e rilevante.

    Il rischio vero non è di lasciar intendere una cosa per l’altra (riprendendo un esempio di ieri sera, è difficile che quando si parla di grazia GRACE ci si possa confondere col verbo brucare graze); piuttosto c’è il rischio che il sovrapporsi di pronunce scorrette porti a produrre qualcosa di totalmente indecifrabile. Come minimo si crea disagio: lo stesso fastidio che proviamo noi se qualcuno dice [zera] invece di [sera] lo prova un inglese quando sente [zlow] invece di [slow] (lento), [zleep] invece di [sleep] (dormire), [zmell] invece di [smell] (odore) [zmart] invece di [smart] (elegante), [znow] al posto di [snow] (la neve) e [znoopy] invece di snoopy[], il cane di Charlie Brown.

    Quando tante piccole deviazioni si sommano si raggiunge facilmente la soglia oltre la quale la comunicazione non passa; fare attenzione alla pronuncia non è pignoleria o perfezionismo, ma una necessità se si vogliono evitare cattive figure.

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    Si dice ma non si scrive

    Qualche sera fa, parlando del 1648 nel 350° anniversario, ho detto dell’arresto di re Carlo I d’Inghilterra, King Charles I (the First). Voglio attirare la vostra attenzione sull’articolo tra Charles e first, un articolo che non si scrive quando dopo il nome c’è il numero romano ma che va ugualmente pronunciato. Così per tutti i re e papi, da Queen Elizabeth the Second a Pope John Paul the Second.

    Non è il solo caso di parole che si dicono ma non si scrivono. L’altro caso importante è quello della congiunzione and che si trova nei numeri superiori a cento, tra le centinaia e le decine: 429 è four hundred and twenty-nine e già c’eravamo occupati del 2001, two thousand and one.

    Altre divergenze tra scritto e parlato — al di là delle solite questioni di ortografia e di pronuncia — si hanno con certe abbreviazioni, per esempio proprio quella che significa per esempio: nello scrivere si usano le lettere e.g. ognuna seguita dal punto: viene dal latino EXEMPLI GRATIA ma si legge for example (qualcuno dice for instance, che è un sinonimo, tanto per variare) più spesso di quanto si dica [i: dgi:]. Anche per i.e., che viene dal latino ID EST e significa cioè, molti preferiscono dire that is invece di [ai i:]. Di questo gruppo, anche se meno frequente, fa parte anche viz. dal latino VIDELICET, per cui, accanto a [viz, vid’i:lisit vai’di:liset e vi’deiliket] cioè le pronunce della parola latina, sia abbreviata che per esteso, secondo le varie regole su come si debba rendere la pronuncia latina, abbiamo anche la parola namely, che è il vocabolo corrente per "ossia, e cioè".

    In molti altri casi, non legati alla tradizione, la tendenza è quella opposta, ossia di sostituire le parole e espressioni con le rispettive sigle — anche da noi DJ ha sostituito quasi completamente Disc Jockey — e poi di pronunciare come parole le sigle che lo consentono. Un’espressione come as soon as possible, il più presto possibile, è stata abbreviata prima nello scritto asap, poi detta lettera per lettera [ei es ei pi: ] e ora i dizionari registrano anche la pronuncia [eisap]. Anche da noi usiamo come parole sigle come ONU, CEE e NATO; di altre, come radar e laser, si è perfino persa la nozione del fatto che in origine erano sigle.

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    La notte di mezza estate

    Nei paesi del Nord Europa, compresa la Gran Bretagna, sono ancora molto vive le tradizioni legate al solstizio d’estate e in particolare alla vigilia e alla notte di San Giovanni. La celebrazione letteraria più famosa di questa notte ce l’ha data Shakespeare nella sua commedia Midsummer Night's Dream, "il sogno della notte di mezza estate". TITANIA, OBERON e PUCK sono personaggi emblematici di quella popolazione di elfi, gnomi, fate e streghe che nella mitologia nordica popola le foreste e approfitta di una delle notti più brevi dell’anno per celebrare i propri riti magici.

    Anche la popolazione locale viene coinvolta, con balli popolari che spesso sono l’occasione per conoscere altri giovani e innamorarsi. Una di queste danze popolari di cui parla Shakespeare nella commedia è la Bergomask ossia "bergamasca". Era una tipica danza adatta al corteggiamento: i due cerchi degli uomini e delle donne girano in senso inverso a ogni strofa e quando viene il ritornello l’uomo e la donna che si trovano l’una di fronte all’altra si prendono a braccetto e fanno qualche giro di danza assieme — quel che basta per scambiarsi rapidamente qualche segnale.

    Secondo qualche studioso, la bergamasca, che non è mai diventata un ballo ufficiale, una danza di corte, si chiama così non tanto perché sia nata a Bergamo ma perché è una danza rustica e nei tempi antichi la popolazione della zona aveva fama di essere rozza e goffa. In ogni caso la danza evoca un’immagine di sogno, che è stata ripresa da VERLAINE nella poesia "Clair de lune," alla quale a loro volta si sono ispirati Claude Debussy nella Suite bergamasque del 1890 e Gabriel Fauré in Masques et bergamasques del 1919.

    Un altro celebre brano musicale ispirato a Midsummer Night’s Dream è lo Scherzo opera 61 n. 1 di Felix Mendelssohn.

    Parlare di sogni d’estate oggi appare fuori luogo e fuori moda; ma è il modo artificiale di vivere che ci porta a non accorgerci che in queste notti, quando il cielo è sereno, non fa mai completamente buio — un po’ più a nord si passa direttamente dal crepuscolo all’alba e più a nord ancora, sopra il circolo polare artico, c’è il sole anche a mezzanotte. Se lasciamo scandire le nostre giornate solo dal lavoro e dal televisore ci perdiamo la gioia di vivere questi momenti che la natura ci offre.

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    A rimirar le stelle

    Le notti d’estate sono brevi ma in compenso non sono fredde e spesso il cielo è sereno; questo ci invita a guardare le stelle, the stars e le varie costellazioni, the constellations; in inglese queste conservano di solito il nome latino. Le dodici di cui si parla più spesso sono quelle dello zodiaco, the zodiac. Non leggo mai gli oroscopi — non ci credo — ma i nomi dei segni zodiacali sono parole che ritroviamo in vari contesti e quindi è bene conoscerle. Cominciamo, come si usa, dall’equinozio di primavera e troviamo: Aries the ram, che è l’ariete; Taurus the bull, il toro; Gemini [-ai] the twins, i Gemelli — Gemini è stato anche il nome di un programma spaziale americano con il lancio in orbita di capsule con due astronauti. Segue Cancer the crab, il cancro o granchio — questa parola è diventata tabù presso alcuni, soprattutto in America, e molti giornali la evitano sostituendola con moon children, i figli della Luna. I tropici però continuano a chiamarsi the Tropic of Cancer e the Tropic of Capricorn.

    Abbiamo poi Leo the lion, il leone, Virgo the virgin, la vergine, Libra the scales, la bilancia, Scorpio the scorpion, lo scorpione, Sagittarius the archer, il sagittario o arciere, Capricorn the sea goat, letteralmente la capra di mare, Aquarius the Waterbearer, l’acquario o portatore d’acqua e infine Pisces [paisi:z] the fishes, i pesci.

    [...]

    Tornando all’astrologia, astrology, la domanda "di che segno sei?" in inglese di solito è what’s your zodiac? Qual è il tuo zodiaco? E la risposta comincia con I’m a… sono un… e il nome del segno. Più spesso si inizia il discorso dichiarando il proprio segno e interpellando gli altri: I’m an Aquarius. What about you? Io sono un acquario, e tu?

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    Di che segno sei?

    Ieri sera, verso la fine della conversazione, ho dato un esempio di battuta di dialogo che era: I’m an Aquarius. What about you? Io sono un acquario, e tu? Stasera vorrei fare due precisazioni.

    La prima è che ho già detto altre volte che non amo i discorsi sugli oroscopi, horoscopes, e sulla New Age, The Age of Aquarius; ma ad esempio proprio Aquarius è il titolo di un celebre brano musicale di qualche anno fa e tutte queste sono parole latino-inglesi con le quali prima o poi abbiamo a che fare e quindi dobbiamo occuparcene anche se prendiamo le distanze da quello a cui rinviano.

    La seconda precisazione riguarda invece le domande che iniziano con What about? È il modo più frequente per informarsi a proposito di qualcuno o qualcosa. Due esempi: "Michele verrà alla festa; e Maria?" Michael is coming to the party. What about Mary? "I treni partono ogni ora. E gli autobus?" The trains go every hour. What about the buses?

    La stessa forma serve anche per proporre qualcosa: "dobbiamo offrire del dessert; che ne diresti del gelato?" We’ll have to offer some dessert: what about some ice-cream?

    Se invece di una persona o di una cosa parliamo di un’azione, what about è seguito dalla forma in –ing del verbo. "Che ne direste di andare al cinema?" What about going to the cinema? "E se stessimo a casa?" What about staying at home?

    In alcuni esempi, la frase italiana che ho usato come traduzione del what about inglese inizia con "e": "e Maria?" "e gli autobus?" "e se stessimo a casa?" L’uso di and in questi casi non è corretto in inglese — anzi porta facilmente a fraintendere il senso della frase.

    Anche le obiezioni che iniziano con "e se…" in inglese non vogliono and ma what: "facciamo una gita in barca domani. E se piove?" Let’s go on a boat trip tomorrow. What if it rains? L’espressione what if — letteralmente "che cosa se…" sottintende un verbo: "che succede se…" what happens if…; "Che cosa dobbiamo fare se…" what shall we do if

    E se adesso ascoltassimo della buona musica? What about listening to some good music now?

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    Auguri e convenevoli

    Da qualche sera mi congedo da voi con l’augurio di buon ascolto della dolce serata: enjoy your sweet night — letteralmente, "gustatevi, o godetevi, la vostra dolce serata." Il verbo enjoy è lo stesso che alla forma riflessiva significa "divertirsi": enjoy yourself "divertiti" enjoy yourselves "divertitevi" e viene usato in alcune forme di augurio.

    Tradizionalmente gli inglesi tendono a rifuggire da certe manifestazioni che accompagnano eventi della vita quotidiana — ad esempio, uno starnuto da noi fa scattare la sequenza "Salute! Grazie Prego" mentre per gli inglesi la reazione più educata è quella di ignorare totalmente la cosa. Del resto, se ci pensiamo, non c’è nessun motivo perché uno starnuto venga rimarcato e un colpo di tosse no. Qualche persona anziana, soprattutto donna, dice ancora God bless you, "Dio ti benedica" dopo uno starnuto ma la cosa sta diventando obsoleta.

    Analogamente, non esiste una formula tradizionale equivalente al nostro "Buon appetito"; qualcuno penserà subito che dipende dal fatto che data la qualità del cibo inglese non c’è gran che da augurare — ma naturalmente è solo una questione di usanze. Qualcuno, in certi ambienti, fa ricorso al francese bon appetit ma ora si va diffondendo enjoy your meal — meal è il pasto. Se è enjoy seguito da un altro verbo, questo è alla forma in –ing: "gli piace molto pescare sul lago" he enjoys fishing in the lake; "gradisco ascoltare questa dolce musica" I enjoy listening to this sweet music.

    Enjoy è anche il nostro "godere" quando ciò di cui si parla sono i diritti, la fama, la stima e simili. "Il nuovo sindaco ha fama di essere onesto" the new mayor enjoys a reputation for honesty. "Hanno diritto alle ferie retribuite" they enjoy the right to paid holidays. Dal verbo ENJOY derivano: l’aggettivo enjoyable "È stata una serata molto piacevole" it was a really enjoyable evening e il nome enjoyment "tutto il piacere fu guastato dal rumore" all the enjoyment was spoiled by the noise.

    Il verbo enjoy deriva dal nome joy, la gioia, da cui derivano anche gli aggettivi joyful, gioioso, portatore di gioia, e joyless, detto di qualcosa che non può dare gioia.

    Ritorniamo all’enjoyment che F. L. ci procura con la enjoyable music del suo programma.

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    Discorsi di stagione

    Parlando tempo fa di proverbi inglesi e italiani, ne avevo citato uno che riflette il clima diverso dei due paesi: da noi, "una rondine non fa primavera", da loro One swallow does not make a summer. Il senso del proverbio è esattamente lo stesso ma la stagione in cui lassù arrivano le rondini non è spring, la primavera, ma summer, l’estate.

    Un altro proverbio dice che March winds and April showers bring about May flowers — il vento di marzo e i temporali di aprile ci portano i fiori di maggio. Il senso del proverbio è chiaro ma ancora una volta i mesi sono spostati in là rispetto ai nostri.

    Tutto questo nella lingua popolare, come è quella dei proverbi; perché invece nella lingua letteraria spesso si ricalcano le poesie dei grandi italiani — Dante e Petrarca sopra tutti — e si parla di un aprile idealizzato e stereotipato: così in almeno una dozzina di opere teatrali e poetiche di Shakespeare, nella poesia intitolata April di William Morris (un poeta vissuto nel secolo scorso [il XIX]) e in una poesia di Robert Louis Stevenson, lo scrittore che noi conosciamo soprattutto come autore de “L’isola del tesoro”, Treasure Island e che parla di all the April woods Merry with singing "Tutti i boschi di aprile allegri di canti"

    Una poetessa della stessa epoca, Elizabeth Browning, scrive, Oh to be in England now that April’s there — “oh, essere in Inghilterra adesso che là è aprile”. Quando scriveva era all’estero, e la lontananza aiuta a idealizzare, ma direi che se si vuole sperare di trovare in Inghilterra un clima abbastanza simile all’aprile mediterraneo, con i fiori e i canti degli uccellini nei boschi, è meglio andarci adesso [in giugno].

    Del resto gli stessi inglesi, che hanno il senso dell’autoironia, raccontano la barzelletta dello straniero che ad agosto inoltrato chiede: When is summer coming here in England? “Quando arriva l’estate qui in Inghilterra?“ — e la risposta è stata: Summer? Didn’t you notice? We had summer, last Wednesday afternoon. “L’estate? Non se n’è accorto? Abbiamo avuto l’estate, mercoledì pomeriggio.“

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    Scuole

    È il periodo di chiusura delle scuole e degli esami finali e quindi l’occasione è buona per dare un’occhiata al sistema scolastico britannico e a quello americano. In quest’ultimo la scuola secondaria o high school termina un anno prima della nostra, e termina con una cerimonia finale, una graduation ceremony che è nota attraverso le scene di numerosi film. Negli Stati Uniti le scuole sono onnicomprensive, ossia tutti gli studenti sono assieme ma frequentano corsi diversi (dalla matematica superiore al laboratorio di elettrauto) a seconda dei loro interessi e delle loro capacità. Per raggiungere un livello equiparabile alla nostra maturità, e riconosciuto come tale al fine dell’iscrizione alle nostre università, occorre frequentare i due anni di college che portano al titolo di bachelor.

    Il sistema britannico è più complesso e è in una fase di transizione. La grande novità degli ultimi dieci anni è il National Curriculum, in qualche misura simile ai programmi ministeriali. Prima di allora ogni scuola, sia che facesse capo alla pubblica amministrazione attraverso gli enti local di istruzione — le Local Education Authorities — sia che fosse indipendente come le celebri Public Schools di Eton, Harrow, ecc., aveva un solo obbligo, ossia quello di insegnare Scripture, la Sacra Scrittura — l’esatto contrario che da noi, dove la Religione è diventata l’unica materia facoltativa. Agli esami finali si possono portare alcune materie a livello normale ordinary level, detto normalmente O-Level e altre a livello progredito Advanced Level o A-Level. L’accesso alle facoltà universitarie dipende dal numero e dal tipo di A-Levels conseguiti.

    Anche qui la tendenza oggi è verso una limitazione dell’autonomia delle università, attraverso un consorzio che si occupa anche delle ammissioni. Nei Paesi in cui non c’è il valore legale dei titoli di studio, sono le università universities e in genere gli istituti di istruzione superiore higher education a stabilire chi può entrare a fare che cosa — a ogni livello il valore del titolo è legato al prestigio dell’istituzione che lo ha rilasciato. Questo vale per le Public Schools britanniche e per le università più celebri ovunque, da Oxford a Harvard, da Cambridge al Massachusetts Institute of Technology o M.I.T., e tante altre.

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    Verbi ergativi

    Sia in italiano che in inglese ci sono dei verbi che sono normalmente transitivi, ossia hanno un soggetto e un complemento oggetto — ad esempio il verbo "chiudere" in frasi come "il vento ha chiuso la porta" the wind closed the door. In questi casi è possibile rovesciare la frase e dire che "la porta è stata chiusa dal vento" the door was closed by the wind.

    Si possono però fare delle frasi in cui non si dice chi o che cosa provoca l’azione: "la porta si è chiusa" the door closed. In inglese questa costruzione si usa anche con verbi che in italiano non la ammettono o la usano solo in qualche caso. Do due esempi con il verbo read, leggere: "Questo libro si legge bene" this book reads well; "Sull’etichetta c’è scritto: maneggiare con cura" the label reads: handle with care — letteralmente, "l’etichetta legge" nel senso di "sull’etichetta si legge". Un altro verbo che si usa abbastanza spesso in questo tipo di frase è il verbo sell, "vendere" — "questo articolo si vende bene" this article sells well. Anche da noi, forse per influsso indiretto dell’inglese, c’è chi dice frasi come "queste novità vendono bene". Ciò che si vende meglio di tutto, what sells best è un best-seller.

    Le frasi di questo tipo si usano soprattutto per evitare di nominare chi compie l’azione e quindi possono servire per distogliere l’attenzione da ciò che sarebbe scomodo dire. Se la frase è "la nuova fabbrica ha chiuso dopo solo sei mesi" the new factory closed after only six months si ha quasi l’impressione che si sia chiusa da sé, automaticamente o per qualche occulta forza del destino, mentre una frase come the owners closed the new factory after only six months indica i proprietari the owners come responsabili della chiusura.

    Tutti i discorsi, di qualunque genere, orientano l’attenzione in una direzione o nell’altra — di sicuro non fanno eccezione nemmeno queste mie conversazioni. L’attenzione alle lingue e ai linguaggi serve a prendere coscienza dei meccanismi con i quali si riesce a manipolare il modo di presentare la realtà. Questo è diverso dallo studio teorico della grammatica — non succede assolutamente nulla se non si sa che questa sera abbiamo parlato dei verbi ergativi. L’importante è capire le mosse che portano a dire the factory closed invece di the owners closed the factory.

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    France ‘98

    Tutti parlano di calcio, e quindi mi adeguo all’argomento del periodo. Non dirò niente sulle partite, ma il linguaggio calcistico è pieno di anglicismi, a cominciare dal nome di questo sport.

    E a questo proposito, mentre handball è solo la pallamano, la parola football si riferisce in inglese a un certo numero di sport di squadra, tutti nati, come del resto il calcio fiorentino, quando interi quartieri di città o villaggi vicini si trovavano in un campo e cercavano di mandare oltre le linee avversarie una palla che spesso era una vescica di maiale riempita d’aria.

    I tipi più noti oggi, oltre al calcio, sono quello che noi chiamiamo "football americano" e gli americani semplicemente football, e il Rugby Football di cui esistono in Inghilterra almeno due versioni ufficiali (con tredici e con quindici giocatori per squadra) e che noi chiamiamo semplicemente rugby. Ci sono poi varianti locali, come la variante canadese del football americano, l’ Australian Rules Football, un rugby australiano con squadre di diciotto giocatori, un campo ovale lungo centocinquanta metri e quattro porte per parte, e il football gaelico, che si gioca in Irlanda .

    Quello che noi chiamiamo calcio o football, nei paesi di lingua inglese va sotto il nome ufficiale di Association Football e sotto il nome comune di soccer. Il nome è nato nel 1863 quando i colleges che giocavano lo sport della palla rotonda in cui è vietato usare le mani si sono divisi da quelli che usavano la palla ovale e le mani, e hanno fondato la loro associazione, la Football Association, che ha stabilito regole comuni, quelle su cui si basa ancora adesso il gioco del calcio. Association Football è quindi il gioco del pallone secondo le regole della association. La parola soccer è nata qualche anno dopo, nel 1889, dalla seconda sillaba soc di association, a cui si è aggiunta una seconda c e la sillaba –er.

    La parola inglese football si riferisce anche al pallone, ossia alla palla ovale negli Stati Uniti e al pallone da calcio in Gran Bretagna.

    La Association ha dato origine a quattro Leagues o leghe, con quattro campionati e quattro squadre nazionali. Oltre a England e alla English League ci sono Scotland e Scottish League, Wales (il Galles) e Welsh League, e Northern Ireland e Northern Irish League.

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    Ancora calcio (e calci)

    Ho cominciato ieri sera a parlare di football e più precisamente di soccer, che è il nostro "calcio" inteso come sport. Il calcio inteso come pedata, come colpo dato col piede (e si spera sempre al pallone, e non agli stinchi degli avversari) è invece il kick, una parola che troviamo anche in espressioni come "calcio d’inizio" (della partita) kick off e "calcio d’angolo" corner kick. CORNER, detto in italiano corner, in inglese è l’angolo, e non il calcio d’angolo. Anche il calcio di rigore in inglese è il penalty kick — penalty da solo vuol dire "penalizzazione, penalità, penale da pagare per un reato" ecc.

    La meta del gioco è di far entrare il pallone nella meta o goal. La parola inglese goal si usa anche al di fuori del linguaggio sportivo per qualsiasi traguardo o mira che uno può avere nella vita — su un dizionario ho trovato l’esempio the goal is to raise as much money as possible “la meta è di raccogliere quanto più denaro possibile” — e questo dovrebbe essere il gol più bello delle varie partite del cuore. “Gol”, scritto senza la a, è un esempio, probabilmente il più noto, di adattamento di una parola inglese non solo alla pronuncia ma anche all’ortografia italiana. Il traducente diretto di “rete”, net, è un termine di altri sport, in particolare del tennis e della pallavolo, volleyball, ma non del football.

    Un altro termine inglese è offside, che deriva da side, il lato, e off che tra i suoi venti e più significati ha quelli di "sbagliato" e di "illegale". Il fuorigioco è in effetti il lato sbagliato rispetto alla posizione del pallone.

    Le misure del campo, delle aree e delle porte si basano sul sistema inglese: le porte sono larghe otto iarde e alte otto piedi. Il penalty spot o penalty disk, il dischetto del rigore, è a 12 iarde dalla porta, mentre 10 yarde è il raggio sia del cerchio di centro campo che della lunetta alle spalle del penalty spot. L’area di rigore è larga 40 iarde e profonda 18. La palla pesa da un minimo di 14 once a un massimo di 16, ossia una libbra: la sua circonferenza è di 27 o 28 pollici.

    Per chi ha voglia di fare un po’ di conti, ricordo che una iarda corrisponde a 91,4 centimetri ed equivale a tre piedi, ognuno dei quali equivale a 12 pollici. Una libbra sono 454 grammi e come abbiamo già detto equivale a sedici once.

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    Independence Day

    Domani è il Fourth of July, festa nazionale negli Stati Uniti, anniversario della Dichiarazione di Indipendenza o Independence Day. Prima di dire qualcosa sull’evento storico segnalo che molto spesso vedo la parola Independence scritta sbagliata — in inglese la vocale della seconda sillaba è una E, non una I come nell’italiano inDIpendenza. Il verbo depend si scrive con la e in entrambe le sillabe; da questo deriva il nome astratto dependence (che contiene quattro vocali E) e il suo contrario independence.

    Sempre in tema di lingua, ricordo che le date si abbreviano col numero del giorno seguito alle ultime due lettere — in questo caso 4th — e poi il nome del mese; nel dirle bisogna pronunciare anche l’articolo the e la preposizione of: il quarto di luglio è the Fourth of July. Gli anni si dicono separando le prime due cifre dalle ultime due: il 1776 è seventeen seventy-six, ossia diciassette settantasei.

    QUEL giorno il secondo Congresso continentale the Second Continental Congress delle tredici colonie oltre Atlantico redige la Declaration of Independence, un documento breve — occupa un paio di facciate dattiloscritte — ma in cui si afferma il diritto all’autodeterminazione, si denunciano i soprusi del Re d’Inghilterra e si stabilisce un’alleanza tra i tredici nuovi Stati sovrani che avrebbe poi portato al governo federale e alla nascita degli United States of America. In realtà la decisione di proclamare l’indipendenza era stata presa due giorni prima e la pubblicazione del testo avvenne quattro giorni dopo, ma già l’anno successivo il 4 luglio ebbe una prima celebrazione commemorativa.

    Da allora la giornata è diventata l’occasione privilegiata per parate, festeggiamenti, cerimonie come la posa della prima pietra di grandi opere pubbliche, e anche per atti politici rilevanti; ad esempio, l’indipendenza delle Filippine fu riconosciuta ufficialmente dagli Stati Uniti il 4 luglio del 1946, dopo 48 anni di protettorato americano.

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    Calcio e calciatori

    Spero che abbiate trascorso un buon week-end; per coloro che vivono e lavorano nella nostra regione questo periodo non è il massimo del comfort — faccio notare due cose a proposito di questa parola: che gli inglesi la scrivono e la dicono con una m prima della f e soprattutto che la pronuncia della prima sillaba non è con la vocale di HOT DOG ma con quella di MUCH LOVE.

    Per molti appassionati queste sere estive sono dedicate al football, o meglio, come dicevamo settimana scorsa, al soccer. Abbiamo già parlato di goal, la meta; il custode della meta, il portiere, è il goalkeeper, detto colloquialmente goalie, una parola che si ottiene aggiungendo a goal la desinenza –ie, la stessa che troviamo in Frankie , diminutivo di Frank (pensiamo a Frankie Lane e Frank Sinatra nel mondo della musica di qualche anno fa o, se preferite, a Jack Lemmon e Jackie Stewart).

    Uno dei ruoli nella squadra anche da noi viene designato con una parola inglese, stopper, dal verbo stop e quindi letteralmente "colui che ferma"; noi diciamo [stopper] ma nella lingua inglese le consonanti doppie si pronunciano semplici.

    Il nostro libero in inglese si chiama sweeper, da sweep che è la scopa, e cioè colui che spazza via i palloni avversari allontanandoli dal proprio goalie. Per il resto della squadra: gli attaccanti si chiamano forwards, da forward che vuol dire avanti e i difensori defenders. Un centrocampista è un midfield player o midfielder. Midfield è il centro campo: field è il campo in ogni senso, compreso quindi anche il campo di studio o di attività lavorativa, e mid si usa al posto di middle soprattutto nei composti.

    Player, goalkeeper, stopper, sweeper, defender e midfielder terminano tutti per –er perché questa è la desinenza che si usa abitualmente per ricavare da un verbo il nome di colui che compie quell’azione: da play giocare abbiamo player giocatore, e così per gli altri; ma la desinenza la troviamo anche dopo certi nomi, per indicare una persona che è in relazione con essi: da midfield centrocampo abbiamo midfielder centrocampista più o meno come da London, Londra, abbiamo Londoner londinese, o da pension, pensione, abbiamo pensioner, pensionante o pensionato.

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    Scotland Yard

    Parlando alcune sere fa dei campi di calcio ho detto che le misure sono espresse in yards, iarde — una yarda corrisponde a cm 91,44. La parola italiana metro si adopera anche nel senso di asta di legno per misurare, ad esempio la stoffa: in inglese abbiamo la parola yardstick, che viene usata anche nel senso di criterio per valutare, di metro di confronto: "è una persona importante? Dipende da che metro adoperi" Is he an important person? It depends on what yardstick you use.

    E che cosa c’entra Scotland Yard, la polizia britannica? La parola yard ha anche il significato di "cortile, corte, spiazzo, piazzetta" e Piazzetta Scozia Scotland Yard è un largo dietro Whitehall a Londra. Whitehall è la via del centro che va da Trafalgar Square a Parliament Square, la Piazza del Parlamento, e su cui si affacciano sia molti ministeri e uffici governativi, sia altre strade importanti come Downing Street, dove al n. 10 c’è la residenza del Primo Ministro.

    A Scotland Yard aveva sede un settore del Ministero degli Interni, The Ministry of Home Affairs, il settore che ospitava la direzione centrale della polizia investigativa. Ne parliamo al passato perché da vari anni la sede è stata spostata in una zona meno centrale e quindi meno congestionata dal traffico; ma per non abbandonare del tutto la tradizione, al nuovo sito è stato dato il nome di New Scotland Yard così tutti possono andare avanti tranquillamente a dire Scotland Yard quando si parla di lotta al crimine.

    La parola yard in questo senso è più o meno sinonimo di court — le sinonimie perfette non esistono — e la troviamo in alcuni composti importanti: i cantieri navali sono shipyards o dockyards, mentre backyards sono i cortili posteriori delle case, di solito molto meno attraenti dei giardini che danno sulla strada. La parola mi fa sempre venire in mente quella volta che parlando con un inglese dicevo che di solito non si ha una bella impressione di una città arrivandoci in treno e lui mi ha risposto Of course, you can see all the backyards! “Naturalmente, si vedono tutti i cortili posteriori!”

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    Parole e immagini mentali

    Ieri sera, parlando dei backyards che sono i cortili posteriori delle case inglesi, citavo una frase che mi è rimasta impressa da quando me l’ha detta un inglese tanti anni fa — si parlava del fatto che per chi arriva in treno una città non presenta il suo aspetto migliore e lui commentava che dalla ferrovia non si vedono le facciate e i giardini ma all the backyards.

    Di moltissime parole, sia nella nostra lingua che in eventuali altre lingue, ricordiamo esattamente in quali frasi le abbiamo trovate, in che libro le abbiamo lette o chi ce le ha dette e a quale proposito. In altre parole, nella nostra testa a quei vocaboli corrispondono immagini mentali ricche di suoni, di colori e di sentimenti. È l’esatto contrario di quello che vorremmo fare quando cerchiamo di imparare le parole straniere studiando liste di vocaboli, con la loro traduzione in italiano. Vorremmo che di queste parole ci restasse in testa il minimo essenziale, ci sembra che meno dati cerchiamo di mettere nella nostra memoria tanto meglio questa funzionerà.

    Questo vale per i computer, che sono tanto più veloci e affidabili quanti meno dati devono elaborare, ma non per la nostra memoria. Non riusciremo mai a saturare i miliardi di circuiti che le cellule del cervello permettono di attivare; il problema è invece di ottenere che le informazioni vengano depositate stabilmente nella memoria e vengano recuperate velocemente quando servono. Conosciamo tutti persone anziane che ricordano benissimo, anche nei dettagli, episodi della loro infanzia e giovinezza — e se abbiamo pazienza, adorano raccontarceli per l’ennesima volta — ma non riescono assolutamente a ricordare dove hanno lasciato gli occhiali che avevano sul naso cinque minuti fa. Non hanno perso la memoria, come dicono — se fosse vero, non potrebbero ricordare così bene fatti e persone di parecchi decenni fa. Quella che si deteriora è la capacità di immettere in memoria i dati. Non sanno dove sono gli occhiali perché quel dato non è mai stato registrato.

    Per quanto riguarda le lingue straniere, si imparano meglio le parole e le frasi che vengono fissate nella memoria attraverso un contesto ricco e significativo, un contesto cioè che ci dice qualcosa di importante e che possiamo recuperare attraverso canali e percorsi diversi — parole, immagini, voci, suoni, e soprattutto ritrovando il piacere di una scoperta.

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    Prendiamo le misure

    Dopo aver parlato di iarde per un paio di sere, parliamo delle altre misure di lunghezza inglesi. Una yard si divide in tre feet o piedi, e quindi un foot è lungo poco più di trenta centimetri. Siccome a un piede così corrisponde il quarantasei di scarpe c’è chi dice che dall’inglese feet deriva l’italiano "fette".

    Un foot si divide a sua volta in dodici inches, che in italiano abbiamo chiamato "pollici" — un inch corrisponde a circa due centimetri e mezzo e questa unità di misura la adoperiamo anche noi sia in idraulica, per le dimensioni di tubi, rubinetti e valvole, sia per i televisori — quella che viene data in pollici è la lunghezza della diagonale dello schermo: ventiquattro pollici significa che da un angolo all’altro ci sono sessanta centimetri.

    Inch deriva dal latino UNCIA che significa "dodicesima parte" e da cui deriva anche l’italiano "oncia". In realtà nel sistema di pesi più comunemente usato in Inghilterra di once in una libbra ce ne sono sedici, ma in altri sistemi ce ne sono proprio dodici. Il pollice inteso come dito della mano non si chiama inch ma thumb: la b finale non viene pronunciata. Questo vale in genere per tutte le parole inglesi che terminano per b preceduta da m, come il pettine, comb, l’agnello, lamb, la tomba tomb, il verbo arrampicarsi climb… E per quanto riguarda quest’ultima parola stiamo attenti perché la bi rimane muta anche se si aggiunge una desinenza: l’arrampicatore è un climber — sia che si tratti di uno scalatore mountain climber che di un arrampicatore sociale social climber.

    Tornando alle misure di lunghezza, resta da dire della maggiore, che è il miglio terrestre o statute mile, pari a 1760 yarde — cifra facilissima da ricordare perché è centodieci yarde moltiplicate per sedici. C’è anche il miglio nautico pari a 6076 piedi cioè poco più di duemilaventicinque yarde e circa il quindici per cento in più del miglio terrestre. Per una incomprensibile stranezza, il pollice è diviso in mille MILS; ma per contrastare il pericolo delle cose troppo semplici, nella vita quotidiana, in falegnameria, ecc. si usano abitualmente gli ottavi di pollice.

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    Invito al Party

    Una delle parole inglesi che usiamo in italiano è la parola party, e come spesso succede la adoperiamo per uno solo dei molti significati che ha in inglese. È un caso diverso da quello di golf, che in inglese è uno sport e in italiano è un indumento, perché anche in inglese la parola party significa "festa, ricevimento" e spesso è preceduta da un’altra parola che indica di che tipo di festa si tratta: cocktail party, ad esempio, è quello che molti da noi chiamano semplicemente cocktail non nel senso di bevanda ma di riunione mondana nel tardo pomeriggio. The Cocktail Party è anche il titolo di un play di T. S. Eliot. Un altro esempio con esiti letterari è The Garden Party, la festa in giardino, che è il titolo di una raccolta di novelle di Katherine Mansfield.

    Un altro tipo di party molto di moda tra i teenagers americani qualche tempo fa è il pijama party, che se non ricordo male è stato anche il titolo di un film. In inglese abbiamo anche il verbo party per il festeggiare, il partecipare a un party.

    Ma il significato principale di party in inglese è quello di "gruppo di persone"; un political party è un partito politico ma di solito political si sottintende e quindi party vuol dire "partito" — e anche qui abbiamo spesso un’altra parola che precede party: il partito laburista è il Labour Party e il partito conservatore è il Conservative Party. Party è anche la comitiva: dappertutto ci sono gruppi di turisti giapponesi there are parties of Japanese tourists everywhere. Ma può essere anche un gruppo di lavoro: un gruppo di ricerca di scienziati è un research party of scientists.

    Parties sono anche le parti nel senso di contraenti di un accordo o di un contratto, e molti contratti (non solo quelli di assicurazione per la responsabilità civile) prevedono clausole per i third parties, i terzi che possono essere coinvolti. E parties sono anche le parti in causa in una lite giudiziaria. Essere coinvolto come contraente o comunque corresponsabile è be party to: si rifiutò di partecipare a un simile imbroglio he refused to be party to such treachery.

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    In carrozza!

    Questa sera parliamo di due parole collegate tra loro sia per il loro significato sia perché hanno avuto una vicenda parallela. La prima di queste due parole è coach che in origine è la carrozza a cavalli; quando la carrozza e la diligenza stagecoach sono state sostituite da altri mezzi di trasporto pubblico, la parola coach è stata usata per le prime carrozze ferroviarie e poi sia per i vagoni che trasportano passeggeri, sia per gli autobus interurbani e quelli che noi (intendo dire, quelli della mia età) chiamavamo torpedoni e adesso chiamiamo “pullman” — questa parola ha altri significati in inglese, e ne riparleremo domani sera.

    La seconda parola è train; dal significato originario, e oggi quasi totalmente perduto, di strascico — ad esempio, di un abito da sposa — e di codazzo di persone che seguono un re o un altro personaggio di rilievo, è derivato il significato di treno.

    La vicenda comune alle due parole è che dal senso primo di "trasportare persone da un luogo all’altro" si è sviluppato per metafora il senso di "addestrare" per i verbi coach e train, e così l’allenatore in certi sport di squadra si chiama coach e in altri si chiama trainer. Non sono riuscito a trovare un criterio valido e oggettivo per distinguere le due parole, così come non è chiaro perché in certi sport l’arbitro si chiami umpire e in altri referee.

    Il verbo train non si usa solo nell’ambito sportivo ma anche per altre forme di addestramento, come sviluppare la voce train one’s voice per i cantanti; può riferirsi anche all’operazione che si fa con certe piante di potarle, dirigerle e conformarle in un certo modo o per scopi estetici o perché producano meglio. In questi sensi train può corrispondere all’italiano "coltivare" — non solo le piante ma anche la voce, le attitudini e le abilità di vario genere.

    Con il gusto tipicamente britannico per il gioco di parole, un’insegna pubblicitaria delle ferrovie, all’esterno di una stazione, diceva training is better than coaching.

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    Scene di viaggio

    Ieri sera abbiamo parlato di carrozze e di treni — quello dei mezzi di trasporto è un argomento tipico del periodo di ferie — e ho usato due parole sulle quali voglio tornare. La prima è la diligenza o stagecoach. È una parola composta: del secondo elemento, coach, e dei suoi vari significati che si sono sviluppati nel tempo abbiamo detto ieri sera — stasera voglio aggiungere qualcosa su stage, la prima parte.

    Qui stage si riferisce alla tappa, al tratto percorso tra una stazione di posta o waystage e la successiva. Un significato analogo lo si trova a proposito delle fasi di sviluppo— ad esempio, la fase preliminare di un progetto è the preliminary stage of a project — o degli stadi di sviluppo di un essere vivente: lo stadio larvale di un insetto è the larval stage of an insect. stage è anche lo stadio di un missile: un missile a tre stadi è a three-stage rocket.

    Stage è poi il palcoscenico e, per estensione, sia il mondo del teatro come professione, sia la scena pubblica. Il direttore di scena di un teatro è lo stage manager. Altri esempi: “ha dedicato tutta la sua vita al teatro” he devoted all his life to the stage; “il presidente Mao ha dominato la scena politica per decenni” Chairman Mao dominated the political stage for decades. E Shakespeare è giunto a dire che “tutto il mondo è teatro, e tutti gli uomini e le donne semplicemente attori”: all the world’s a stage, and all the men and women merely players.

    La parola stage si usa anche come verbo, il mettere in scena è stage e può riferirsi sia a un lavoro teatrale che ad altro: “I generali hanno inscenato un’enorme parata militare” The generals staged a huge military parade.

    Tra i vari significati della parola inglese STAGE non c’è (ripeto, non c’è) quello di "periodo di formazione trascorso in azienda e/o all’estero"; quella è una parola francese, non inglese, e come tale va pronunciata (fa rima con garage). Della mania di far diventare inglese anche quello che inglese non è ho già detto tante volte e non voglio ripetermi.

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    Persone e cose

    La parola Pullman in Gran Bretagna e Stati Uniti si usa per indicare alcuni treni speciali e carrozze molto lussuose e, soprattutto in America, i vagoni letto. La parola è il cognome del’ingegnere americano George Mortimer Pullman che nel 1867 ha prodotto e brevettato i primi vagoni ferroviari convertibili in vagoni letto. Quindi un Pullman Service non è un servizio di autobus di linea ma un servizio ferroviario di alto livello, molto confortevole soprattutto per i viaggi lunghi.

    Ho avuto occasione di fare lunghi viaggi in treno negli Stati Uniti — ad esempio da Chicago al parco di Yellowstone, e da Los Angeles al Grand Canyon del Colorado, e date le distanze enormi si capisce l’importanza di vetture comode, carrozze bar, eccetera — questo soprattutto prima dello sviluppo attuale dell’aviazione civile.

    Quello di Pullman non è il solo caso di un cognome o di un marchio di fabbrica che diventa un nome comune. Esiste anche il verbo hoover, dal nome della marca di aspirapolvere, che è il pulire i pavimenti coperti di moquette o di altri tappeti. Questo soprattutto in Inghilterra; negli Stati Uniti, dove le ditte sono molto più attive nel proteggere i loro marchi, dalla parola per aspirapolvere, vacuum cleaner è stato tratto il verbo vacuum. Vacuum è la parola latina che indica il vuoto e in effetti il vacuum cleaner è letteralmente ciò che pulisce producendo il vuoto e non ciò che aspira la polvere. Abbiamo detto tante volte che lingue diverse sono modi diversi di considerare le cose.

    Un caso analogo è quello di xerox per la fotocopia, dal marchio Xerox — che si usa anche come verbo xerox fotocopiare. E per qualche tempo anche Kodak è stato usato come sinonimo di (photo)camera per le macchine fotografiche di qualsiasi marca.

    Oggi il caso più controverso è quello di coke, una parola derivata da Coca Cola e che molti usano come nome generico per "bevanda gasata"; la Coca Cola Company l’ha registrata come marchio e esige che sia usata solo per i suoi prodotti.

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    Luglio

    Questa giornata centrale del mese di luglio (tra i quindici giorni già trascorsi e i quindici che mancano alla fine del mese) ci dà lo spunto per dire qualcosa sul nome stesso del mese, July, che a sua volta deriva da Giulio Cesare, quel Julius Caesar che dà anche il titolo a una delle "tragedie romane" di Shakespeare. Il femminile è Juliet e di nuovo c’entra una tragedia di Shakespeare.

    A proposito di questa voglio far notare due cose: la prima è che nei titoli in cui si nomina una coppia, il nome maschile di solito precede quello femminile: Romeo and Juliet, Antony and Cleopatra, Troilus and Cressida; ma non mancano le eccezioni anche nello stesso Shakespeare, come Venus and Adonis, Venere e Adone. La seconda riguarda l’età della protagonista, che all’epoca della vicenda aveva tredici anni — con buona pace di quelli che di fronte alle intemperanze di certi giovani d’oggi rimpiangono i tempi antichi e dicono che una volta certe cose non succedevano. Non solo, ma dal racconto della nutrice all’inizio della vicenda, si viene a sapere non solo la data di nascita di Giulietta, il 31 luglio, ma anche che la madre a quell’età aveva già combinato la sua dose di guai.

    Di origine analoga a July è anche il nome del mese successivo, August, da Augustus the Emperor, l’imperatore Augusto.

    Il 16 luglio, the 16th of July, si festeggia Carmel, o più esattamente Mary of Mount Carmel, Maria del Monte Carmelo in Galilea. Oltre al nome femminile, Carmel è anche il nome di varie località dei paesi di lingua inglese — ma mentre in Mount Carmel si pronuncia con l’accento sulla a, la cittadina della California — sul mare, con una spiaggia fantastica — si pronuncia con l’accento sulla e; questo si spiega con il fatto che prende nome da una delle missioni fondate da un francescano di origine spagnola, così come sono spagnoli i nomi di tante altre città sul percorso: San Diego, San Juan Capistrano, San Francisco, Maria De Los Angeles, Santa Monica, Santa Barbara e Sacramento, la capitale dello stato.

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    Un po’ di suspense

    Pochi giorni fa, in un libro tradotto dall’inglese, ho trovato la parola *SUSPENCE. La cosa è curiosa perché in inglese la parola suspense è scritta come la vedete qui, con la s come penultima lettera. Il problema che si può porre è quello della pronuncia, perché c’è la stessa parola in francese, ma non quello della grafia, che è identica.

    Il caso è il contrario di quello di *CONFORT scritto con la n, invece che con la m che c’è in inglese, prima della f. Qui c’è una semplificazione — la sequenza strana mf viene sostituita da quella normale per un italiano, nf. Ma *SUSPENCE scritto con la C non è un caso di semplificazione o di adattamento sulla base dell’italiano. La nostra parola sospensione si scrive con la s e non con la c nella terza sillaba. Può trattarsi invece di un ipercorrettismo, cioè uno di quegli errori che si commettono per troppa paura di sbagliare, per il timore che le cose semplici e simili all’italiano siano scorrette. Questo è il meccanismo che fa trovare non di rado su giornali e riviste qualche acca in più del necessario, buttata lì perché se no la parola non ha l’aria abbastanza inglese.

    È vero che il numero tre è three, che il mito è myth, e che l’ente o autorità è authority, ma, per dirne una, il mistero è mystery e non *MYSTHERY. Perché non ha la acca ma in compenso ha una ipsilon anche nella prima sillaba? Boh, mistero!

    Alcuni ipercorrettismi derivano da false etimologie. Nel Cinquecento il comandante della flotta si chiamava, in francese e inglese, amiral. Poi gli studiosi di lessico e in particolare il Dr Johnson, autore del più prestigioso dizionario inglese, hanno ritenuto che la parola fosse una corruzione rispetto al latino ADMIRARE e hanno imposto la forma admiral, tuttora in uso. In realtà la parola deriva dall’arabo AMIR AL BAHR, Emiro (cioè principe) del mare. Questa è anche l’origine della doppia emme di ammiraglio, il che vuol dire che anche noi italiani abbiamo fatto lo stesso errore.

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    Tutti in vacanza

    Prendo lo spunto dalle attività vacanziere, cominciando da quelle tipiche del mare. Alcune hanno nomi inglesi o quasi inglesi, come il beach volley, la pallavolo volleyball da spiaggia — e pare che gli sport di cui esiste la versione beach siano sempre in aumento. Un altro termine inglese è off-shore che è l’altura, il mare aperto, lontano off dalla riva shore e che da noi indica un tipo di gara motonautica.

    I nomi degli sport, come delle attività in genere, corrispondono spesso alle forme in -ing dei rispettivi verbi: nuotare è swim e il nuoto è swimming; remare è row e il canottaggio è ROWING. In qualche caso il verbo coincide col nome: la vela è sail, to sail è il navigare, e lo sport della vela è sailing. La barca a vela è una sailboat mentre una barca a remi è una rowboat e c’è anche la parola boating che indica genericamente l’andare in barca.

    Una parola inglese che si riferisce al nuoto è crawl, uno degli stili più usati per il nuoto di velocità o stile libero, che deriva dal verbo crawl "strisciare". In quanto agli altri stili, il dorso è il backstroke, il colpo all’indietro, e la rana è il breaststroke, letteralmente il colpo di petto. La rana come animale è frog, e l’uomo-rana che fa lavori subacquei è il frogman, ma la parola frog non si usa per il nuoto, a differenza degli altri stili che prendono il nome dagli animali: la farfalla è il butterfly stroke e il delfino è il dolphin stroke.

    Ma in assoluto lo sport (si fa per dire) più praticato è il sun-bathing il fare i bagni di sole, così da poter mostrare una bella tintarella o suntan. La parola tan viene dal tannino usato nelle concerie e ha dato origine sia al verbo tan, conciare le pelli, che al color marrone chiaro. Da qui la parola che indica l’abbronzatura; in italiano facciamo riferimento al bronzo, in inglese al tannino. Ma le scottature, sunburns cioè bruciature di sole, sono rosse ovunque e molto brutte, e quindi sarà meglio evitarle.

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    Lassù sui monti…

    Ieri sera abbiamo parlato del mare e delle attività che vi si svolgono, e stasera tocca alla montagna. Anzitutto abbiamo in inglese due parole, mountain che si usa in generale e mount seguita dal nome: “il Monte McKinley è il monte più alto del Nordamerica” Mount McKinley is the highest mountain in North America. La parola mountain la conosciamo molto bene per via della mountain bike. Da mountain deriva mountaineer, che è sia il montanaro, chi abita tra i monti in the mountains, sia chi ama la montagna e ci va per le escursioni. E l’attività corrispondente, ancora una volta, è espressa con la forma in -ing: mountaineering è il complesso delle attività che sono legate alla montagna.

    Quando le escursioni diventano vere e proprie arrampicate allora si usa la parola climb (ma la b non si pronuncia); il verbo è climb e l’attività alpinistica è detta climbing. Anche questa parola adesso è abbastanza nota, da quando si è diffusa l’arrampicata libera o free-climbing come sport agonistico.

    La montagna è frequentata soprattutto per gli sport invernali; il solo che in alcuni luoghi si riesce a praticare d’estate è lo sci skiing. Ski è una delle poche parole inglesi che terminano per i e non per y: (sky è il cielo), e la forma in -ing di ski ha due i una dopo l’altra. Un caso analogo di doppia i è quello di taxiing, lo spostamento dell’aereo dall’aerostazione alla pista di decollo o dalla pista di atterraggio all’aerostazione.

    Ma torniamo in montagna, che ora viene usata anche per altre attività sportive come il parapendio o hang gliding; letteralmente, l’espressione inglese significa planare o veleggiare appesi. Il verbo hang, appendere o appendersi, ha la particolarità di essere irregolare (la forma del passato e del participio passato è hung) a meno che non sia usato nel senso di "impiccare" nel qual caso ha la forma regolare hanged. Il deltaplano si chiama hang glider.

    La mia idea di montagna è di un posto dove si ammirano panorami, the views, e se si è bravi e fortunati si trovano le fragole, strawberries, i lamponi raspberries, i mirtilli bilberries e magari dei bei funghi mushrooms. Ma questo tra una decina di giorni.

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    In viaggio

    Proseguiamo con le conversazioni di argomento vacanziero, esplorando qualche alternativa al mare the seaside e alla montagna the mountains, al plurale, di cui ci siamo occupati le sere scorse. Un’alternativa può essere la crociera, a cruise — sì, proprio come l’attore Tom Cruise e come i missili da crociera, i cruise. Accanto ai viaggi per mare by sea, ci sono i viaggi per via di terra, by land, e per via aerea, by air. Travelling by land di solito avviene su strada, by road, in auto o pullman by car or by coach. Ricordo che l’espressione on the road, dal libro di Jack Kerouac, ha altri significati — letteralmente, "per la strada" ma è tutto un genere di libri e film.

    L’alternativa al travelling by road è travelling by train, magari con la possibilità di dormire: una sleeping accommodation comprende le cuccette berths e i vagoni letto sleeping cars. A proposito di sistemazione, accommodation si scrive con due c e due m. L’albergo, lo sanno tutti, e un hotel e l’accento va in fondo come in francese — in effetti è una parola francese, che in inglese come in italiano ha perso l’accento circonflesso sulla o. Per i giovani ci sono gli ostelli della gioventù o youth hostels e per chi ama le sistemazioni "sportive" c’è il campeggio. In inglese, camping è l’attività, mentre il luogo attrezzato si chiama camping site, il sito per campeggiare.

    Vitto e alloggio sono board and lodging, e da board viene il nome inglese della pensione, la boarding house. Ma la sistemazione forse più tipica, in tante località britanniche e irlandesi, è il bed and breakfast, letto e prima colazione, detto colloquialmente B & B. Normalmente si tratta di pensioncine a conduzione familiare, comode e pulite, con la possibilità di fare un pasto abbondante al mattino. Se ne trovano un po’ dappertutto, nei sobborghi delle città e sulle strade delle vacanze, a volte in località splendide — ma allora è difficile trovare camere libere, vacancies, se non si è prenotato.

    Se avete avuto l’impressione che io vi stia parlando di queste cose perché avrei una gran voglia di un viaggio da quelle parti, non vi siete sbagliati. Spero che per qualche ascoltatore sia imminente una vacanza dove si parla inglese — buon viaggio!

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    Rilassiamoci

    Il tema della settimana è quello delle vacanze e anche la conversazione di stasera torna sull’argomento. Perché si va in vacanza? Per rilassarsi, dice qualcuno, e in inglese to relax. Relax è una parola che abbiamo importato ma da noi è usata come nome e non come verbo, in espressioni come "fare il relax". In inglese, come ho detto, relax è il verbo rilassarsi mentre il nome che ne deriva è relaxation.

    Per qualcun altro, si va in vacanza per divertirsi, have a good time. Questa espressione idiomatica è una delle più frequenti per esprimere l’idea di spassarsela, di trascorrere un bel periodo, di divertirsi, soprattutto in compagnia. È diversa dal verbo enjoy che anche lui indica il provar piacere nel fare qualcosa, ma spesso per attività più brevi e anche individuali.

    Quindi per chiedere a qualcuno se si sia divertito nelle vacanze, si chiede: did you have a good time? Se vi risponde I had the time of my life, vuol dire che se l’è spassata come non mai. Come sempre in questi casi, la resa letterale "il tempo della mia vita" non rende assolutamente il senso e l’idea dell’espressione idiomatica.

    In queste espressioni time è il tempo che passa e il verbo have assume il significato di “trascorrere. La domanda "hai avuto bel tempo?" è molto diversa: did you have good weather? O più semplicemente was the weather nice? È stato buono il tempo? O ancora what was the weather like? Come è stato il tempo?

    Oltre alla distinzione che abbiamo fatto altre volte fra il tempo cronologico, time, e il tempo grammaticale del verbo, tense, dobbiamo quindi ricordare anche la distinzione tra questi e il tempo atmosferico weather. In inglese quindi due parole diverse per il tempo che passa, time, e il tempo che fa, weather, a ennesima riprova che ogni lingua riclassifica la realtà a modo proprio. La parola TIME, lo ricordo, si usa anche in una serie di casi nei quali noi usiamo la parola "ora": che ora è? What time is it? Oppure what’s the time?

    È ora che io vi saluti. L’appuntamento è per domani sera alla stessa ora, per l’ultima conversazione prima dell’interruzione estiva. Durante la quale spero che ognuno di voi possa dire I’m having a good time, mi sto divertendo — e un po’ di good weather, bel tempo, non guasta.

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    Congedo

    Con la conversazione di questa sera si conclude il ciclo 1997-98 di questi interventi sull’inglese e sugli inglesi — ma anche sugli altri popoli di lingua inglese e soprattutto su noi italiani, su come noi ci serviamo sempre più di questa lingua, a proposito e a sproposito. Il Circuito Marconi sta preparando varie novità per la ripresa autunnale ma pare che ci sarà ancora spazio per qualche mia chiacchierata. Per ora non posso che augurarvi una splendida estate, enjoy your summer, sia che le vostre vacanze siano al mare, at the seaside, tra i monti in the mountains, o magari trascorse viaggiando all’estero, travelling abroad.

    Se in queste occasioni vi capiterà di notare qualcosa di interessante dal punto di vista del linguaggio e vorrete farmelo sapere, sarà il modo migliore per rendere partecipi gli ascoltatori di questa radio di ciò che a VOI è interessato, e non solo delle mie osservazioni e riflessioni. "Non c’è niente di più inutile di una risposta a una domanda che non è mai stata posta." Se questo è vero per le questioni più profonde e determinanti della nostra vita, quelle che si collocano a livello esistenziale, figuriamoci se non è vero anche a un livello molto più superficiale, come le questioni e le curiosità linguistiche.

    Eppure anche queste, ne sono convinto, possono rivelarci qualcosa di non banale su come percepiamo la realtà che ci circonda. Lo stesso abuso di parole straniere può essere un sintomo di come viviamo la nostra italianità — salvo poi constatare che all’estero non sempre le cose vanno meglio e che tutto sommato da noi si vive bene.

    Ma anche su questo avremo modo di tornare. Ora vorrei prendermi qualche secondo per ringraziare anzitutto il Direttore di questa emittente, che mi ha invitato a tenere queste conversazioni e incoraggiato a proseguire anche quando ero convinto che gli ascoltatori ne avessero già più che abbastanza; a F. L., che è sempre stato molto generoso nel presentarmi, e che soprattutto ha sempre mandato in onda della bellissima musica prima e dopo le mie chiacchierate; e poi i tecnici di studio, in particolare C. C. che mi ha aiutato con pazienza, soprattutto le prime volte.

    Ma il thank you più grande e più sentito è per tutte le ascoltatrici e tutti gli ascoltatori, in particolare per coloro che mi hanno fatto avere i loro commenti, un feedback (eccola, la parola inglese) molto importante per chi comunica senza avere un riscontro immediato. A settembre, quindi, have a nice summer and enjoy your holidays.

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    Postfazione: un discorso sempre aperto

    Il fatto di usare il computer per scrivere gli appunti per queste conversazioni mi ha permesso di verificare, tra l’altro, quali sono le parole che adopero più spesso. Se lasciamo perdere gli articoli, i verbi ausiliari e tutte le altre parole che hanno principalmente una funzione grammaticale, e se togliamo "inglese" e "italiano," tra le parole e espressioni più frequenti in assoluto ci sono: "spesso;" "di solito;" "per esempio" (con la variante "ad esempio") e "eccetera." La cosa non mi ha sorpreso perché l’avevo già riscontrata in altri scritti, soprattutto in quelli che si occupano di didattica delle lingue.

    Ve ne parlo perché se ne possono ricavare delle riflessioni. Anzitutto, i casi in cui possiamo usare "sempre" o "mai" nel descrivere una lingua sono relativamente pochi. Di solito (e rieccolo il "di solito"!) non abbiamo regole prive di eccezioni ma solo linee di tendenza, usi più frequenti di altri che però ammettono numerose varianti. Le regole che vengono date ai principianti servono per avere una base di partenza, perché non si può navigare a vista senza una bussola, ma l’idea che una lingua — qualsiasi lingua, non solo l'italiano o l'inglese — sia un congegno a orologeria per cui basta far scattare certi meccanismi per ottenere i risultati voluti è un’idea sbagliata; prima ci se ne libera, meglio è. Ma non voglio fare un discorso solo teorico, voglio darvi un esempio (e rieccolo, l’esempio!).

    Si dice che il presente progressivo si usa per ciò che sta succedendo nel momento in cui si parla, adesso, now: in italiano posso dire "Jeff dorme" o "sta dormendo;" in inglese devo dire Jeff is sleeping. E si dice che invece un avverbio di frequenza come always, "sempre," si trova in frasi con il presente semplice, che indica le azioni abituali. E’ sostanzialmente vero, però ci sono frasi come Jeff is always sleeping che sono perfettamente corrette. Qui la persona che parla sta descrivendo un’abitudine che disapprova e trova irritante, e usa always all’interno di un presente progressivo.

    La lingua non serve solo a descrivere oggetti, fatti, azioni, eccetera (anche "eccetera" non poteva mancare); con la lingua esprimiamo sentimenti, valutazioni, orientamenti e tratti della personalità. E se è vero che la grammatica tende a dirci ciò che possiamo o non possiamo fare, è anche vero che si piega alle esigenze della persona che comunica.

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    Conclusione

    Il titolo dell’ultimo brano ci segnala che in realtà di conclusioni non possiamo trarne. Lo studio di una lingua e la scoperta di una cultura-civiltà straniera (e in particolare di una così ricca come quella inglese) possono riempire una vita. L’interruzione a questo punto del ciclo delle conversazioni raccolte in volume è sostanzialmente arbitraria, anche se la pausa estiva costituisce una cesura significativa.

    Esaminare una lingua è come guardare dentro a un caleidoscopio, dove frammenti si specchiano e si ricombinano all’infinito e così facendo ci fanno apparire forme nuove, inattese, evocative di altre forme. Allo stesso modo e in ogni lingua idee, parole, suoni si richiamano gli uni gli altri guidati dal bisogno insopprimibile della persona umana di esprimere il proprio animo e di comunicare con gli altri.

    Una lingua in più è un caleidoscopio in più, con frammenti diversi e combinazioni inusitate; forme e colori che non si trovano in quello vecchio (o che semplicemente non notiamo più, perché troppo consuete) allargano la nostra coscienza e affinano la nostra consapevolezza. Per questo ogni parola nuova, o ogni uso nuovo di parole vecchie, ci può arricchire di idee e di sensibilità — e se è vero che i limiti del proprio linguaggio coincidono con i limiti del proprio mondo, il desiderio di capire più lingue e più parole coincide con il desiderio di esplorazione, di allargamento degli orizzonti e, in ultima analisi, di avvicinamento al Mistero che ci definisce.

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